lunedì 21 novembre 2011

L'importanza del NOME


Il nome proprio: qualcosa di irrinunciabile che ci definisce e ci rappresenta, a meno che non venga sostituito, quando e se ciò possa accadere, da “mamma” e/o “papà”, da “nonno/a”, da “zio” o “zia”.
Solo in questi casi siamo costretti, e il più delle volte favorevolmente o persino orgogliosamente, ad abdicarvi.

Nomen omen, dicevano i Latini: nel nome il destino. Manganelli a capo della Polizia, Ortolani ad esibire un bel negozio di frutta e verdura, Gaia e Allegra inclini a presentarsi come soddisfatte della vita? Può darsi, come anche no, naturalmente.
Ma che succede quando nasci femmina e i tuoi ti mettono nome Jacopo o Loris? Sto pensando a Loris, una brava Neuropsichiatra infantile con cui ebbi occasione di lavorare, che finalmente, dopo anni di caparbia e incessante fatica, riuscì, non senza enormi difficoltà, a cambiarsi il nome nel più femminile Laura e, solo dopo di allora, riuscì a crearsi un legame stabile e a mettere al mondo un figlio ancorchè non più giovane.

E che succede se nasci in Sicilia, ti battezzano Cecilia (con un nome dolce, musicale, che evoca immediatamente una Santa, pregevole in quanto non consueto come il più diffuso Concetta), ma, fin dal primo giorno di vita, ti chiamano abitualmente Grazia o Graziella ? Che succede poi se facendoti studiare all'interno di un Collegio di Religiose, che ti prediligono tra tante bambine per la tua intelligenza e remissività fino quasi a viziarti, ti dovessi abituare ex-novo a sentirti chiamare con quel nome che peraltro ti appartiene ufficialmente, il TUO nome, per tutti i successivi cinque anni della scuola elementare? Sarebbe o no difficile dopo il congedo, una volta ritornata in famiglia, riabituarsi al più antico e familiare Grazia o Graziella ? Sarà casuale che la figlia unigenita di Cecilia-Graziella si chiami Cecilia?.
Come quest'esempio sembra testimoniare, siamo sicuri che non sia in qualche modo almeno un po' difficile fare i conti con due nomi diversi, uno ufficiale (per i documenti e la scuola e l'elenco telefonico) e quell'altro “familiare” relativo alle relazioni parentali o sociali ?

Conosco due Giuseppina, la più vecchia delle quali si è sempre riconosciuta come Beppina mentre la più giovane come Pinin. Ambedue, sicuramente, ne avessero avuto la possibilità, avrebbero volentieri cambiato il nome imposto loro all'anagrafe. Fin da subito lo avevano giudicato brutto. Ambedue dovendo esibire il nome ufficiale, confessano di provare una certa qual estraneità e sempre, in una qualche misura, disagio.
Conobbi anni or sono un' anziana Sig.ra Lola. Tutti, me compresa, la conoscevano come Lola anche se all'anagrafe risultava chiamarsi Maria da più di settantanni. Non utilizzò per se stessa altro nome che Lola nemmeno quando, giovanetta, prese parte all'attività partigiana; consapevole probabilmente che corrispondesse già, invero, ad un soprannome da usarsi, senza altra fantasia, quale nome di battaglia. Ella stessa non si riconosceva che con quello, utilizzando il proprio anagrafico nella sua versione ufficiale quasi esclusivamente per i documenti e per la firma.
So di una Adalgisa, chiamata familiarmente da sempre Ada, che un certo giorno della sua vita adulta - lavorava allora come cuoca presso una famiglia borghese della Romagna a cavallo tra gli anni '50 e '60-, lì per lì non si rese conto che quel messo postale, cui lei stessa aprì la porta, nel mentre chiedeva di poter conferire con la Sig.ra Adalgisa “Tal dei Tali” a servizio presso la famiglia in indirizzo, cercava di lei. In difficoltà, la mite Adalgisa rivolse a gran voce una sconcertata domanda ai datori di lavoro impegnati in una stanza attigua: “A so' propri mè l'Adalgisa?” (sono io la tale a questo nome?). Va detto che a quei tempi la donna maritata prendeva il cognome del marito anche sui documenti ufficiali e fu così che la poveretta fu in difficoltà a riconoscersi anche e persino nel proprio patronimico.

E a proposito di cognome, che dire di quelle Signore che ancor oggi affiancano loro sponte al proprio nome il cognome del marito laddove non sarebbe necessario né opportuno, quando cioè, ad esempio, si creano un profilo su un social network, o quando sottoscrivono un proprio articolo edito, magari, su un'importante giornale od un'importante rivista scientifica? Perchè lo fanno anche e proprio laddove servirebbe loro rendersi riconoscibili e “brillare orgogliosamente di luce propria” ?

Nel corso della mia pluridecennale pratica clinica mi è capitato di occuparmi di non pochi bambini, cui era stato assegnato il nome di un fratellino morto prematuramente. Non è infrequente che uno o l'altro dei genitori e più spesso la madre, o tutti e due concordemente, decida di chiudere una storia di dolore in qualche modo, facendo rivivere il morto attraverso l'assegnazione del suo nome a chi nascerà dopo.
Ma non è mai una scelta felice, non sortendo gli effetti sperati. Finisce invero con l'investire di insostenibili responsabilità il figlio che abbia ereditato il nome di chi non è più o, talvolta, non è mai stato altro che un feto. Il carico genitoriale di aspettative, di inconscio desiderio di riparazione di un immaginario frustrato (lenitive del dolore), peserà sul figlio che eredita il nome, come una costante e minacciosa condanna ad uniformarsi ad un indistinto od indistinguibile modello di riferimento; niente di più inutilmente faticoso e, alla lunga, destrutturante.
L'atto del nominare, infatti, pregno com'è di un pesante carico semantico, ivi compresi i fattori culturali e le operazioni mentali sottese, cataloga, ordina, assegna un'identità, fornisce una guida precisa nel lungo e faticoso processo di separazione-individuazione del Sé; in qualche misura consegna un'anima, di cui ogni “nominato” diviene inevitabilmente portatore a vita.
Lo ha ben spiegato Oscar Wilde nel suo “The importance of being Earnest” (tradotto impropriamente in italiano con “L'importanza di chiamarsi Ernesto”) laddove, giocando sull'assonanza tra “Ernest “(nome proprio maschile) ed “earnest” (aggettivo che significa serio, affidabile, onesto), esplica quale sia il portato emotivo, quando non esistenziale, in chi porta un nome piuttosto che un altro. Tant'è che la traduzione italiana “L'importanza di chiamarsi Franco” sarebbe stata più corretta e vicina agli intenti di Wilde, giacchè Franco è un nome maschile, certo, ma anche un aggettivo, sinonimo dell' “earnest” di cui sopra.
Sarà per questa ragione che segnatamente gli artisti sovente scelgono di sostituire il proprio nome con uno d'arte che meglio li rappresenti ? E' così che intendono presentificare una loro peculiare caratteristica? Sembra di sì. Sto pensando per esempio al musicista Marco Castoldi in arte Morgan che nella scelta ha probabilmente ammiccato a certe caratteristiche piratesche che gli si confanno o che ambirebbe gli venissero, scherzosamente ed indulgentemente, riconosciute.
I bravi cartoonist della fortunata serie “The Simpson” hanno scelto Homer come nome per il capofamiglia. Homer-Omero, come il più famoso poeta epico, serve ironicamente a designarne le esilaranti caratteristiche dell'anti-eroe. Il suo essere sfacciato, pigro, sfaticato, infantile ed edonista contribuisce a far dire a sua figlia Lisa, l'intellettuale, brava, unica ammirevole tra il gruppo familiare: “una persona che invidia la nostra famiglia è una persona che ha bisogno di aiuto”.

Esistono nomi, noti a tutti, che tuttavia non vengono mai assegnati a persone comuni. Sono nomi “intoccabili” che vivono nella storia, nel mito o nella finzione letteraria. Edipo, come Amleto in un certo senso, richiamano troppo da vicino certi tabù, certe oscure faccende su cui ha indagato la psicoanalisi, che non fanno e non faranno mai di questi nomi dei nomi “gettonati”. Edipo e Amleto restano emblemi della fantasia fanciullesca di uccidere il proprio padre al fine di possedere la propria madre. Tale fantasia, per quanto inconscia, necessita di essere tenuta prudenzialmente lontana, proprio perchè, lontana, non lo è poi molto.

Di sicuro è preferibile appropriarsi di un nome fittizio o supplementare piuttosto che trovarsi innominato o innominabile. Senza nome, figlio di N.N., fino a pochi anni or sono, rappresentava un'onta, un marchio infamante, ragione d'una comprensibile riluttanza ad esibire il documento d'identità, un'antinomia della ragione, quasi un ossimoro: un'identità senza identità.
Non per caso anche il destino dei non battezzati era, sino a pochissimo tempo fa, quello di finire al Limbo, una sorta di non-luogo affollato più d'un centro commerciale, destinato ai senza nome, esseri privi di un'identità ben definita destinati ad una Terra di Mezzo tra inferno e paradiso, tra redenzione e punizione, un luogo dove non si profila alcun tempo e alcuna geografia, men che mai quella dell'eternità, degno di chi non è, non è stato e non ha fatto in tempo nemmeno a credere di essere.
Il limbo mi sembra metafora di una condizione di smarrimento e precarietà, come di una vita che ha perduto il senso e che è mancante di orientamento, in cui era possibile riparare sospesi in una posizione di stallo, intermedia fra la beatitudine del paradiso e le atrocità dell'inferno, tra la soddisfazione d'un luminoso orizzonte raggiunto e il supplizio d'una punizione meritata per gli errori commessi.

Ecco allora che il nome concede la facoltà di essere anzitutto riconosciuti, ed anche di ESSERE tout-court, nel conoscere e tracciare, in autonomia, il proprio percorso di vita, dopo che siamo stati e ci siamo, nel bene e nel male, individuati.
Il nome proprio è per solito un distintivo inalienabile che proteggiamo gelosamente in quanto parte di noi che ci rappresenta. Non rinunciamo ad esso né al piacere di sentirlo usato per denominarci, se non in un caso, come si diceva all'inizio, quando, finiti nella schiera dei vari mamma, babbo o papà, zii o nonni, accettiamo di buon grado di “perdere l'identità del e nel nome”. Il riconoscimento ci deriva dal ruolo.
Qualcosa del genere immagino avvenisse per tutti quegli Artisti che, agli occhi dei praticanti di bottega come per il resto del mondo, diventavano solo, e senza dispiacersene affatto, “Maestro”.
Eppure qualche tempo fa, forse perlopiù negli anni '80, è invalsa la moda di trascurare siffatta consuetudine: giovanissimi figli si rivolgevano ai genitori chiamandoli col nome proprio, da pari a pari, senza differenza di ruolo, come si usa tra amici.
Nella pratica clinica mi è capitato di conoscere non pochi casi in cui appunto bambini anche piccoli od ex-bambini ormai divenuti adulti, pativano un qualche disagio nella relazione con i propri genitori ed i genitori, a loro volta, lamentavano perlopiù una sorta di impotenza educativa; qualcosa in ciascuno era stato perduto o si configurava come di ostacolo quando non di grave nocumento
all'acquisizione della fondamentale sicurezza primaria nei figli e alla necessaria autorevolezza nei genitori.

Ho in mente una giovane donna architetto, spigliata, bella, elegante, venuta a consultazione per capirsi meglio e per capire cosa non andasse in se stessa oltre che per darsi spiegazione della propria inclinazione a fallire reiteratamente in tempi brevi le relazioni affettive non appena avesse aperto le porte del proprio appartamento al fidanzato di turno per una convivenza. La donna, raccontando di sé, della propria infanzia e del nodo irrisolto di un latente conflitto con la madre, non si rendeva conto di riferirsi ai genitori chiamandoli semplicemente per nome, rendendomi in tal modo difficile, anzi addirittura impossibile almeno inizialmente, comprendere chi fossero quei Piero e Maria di cui riferiva. Era così inusuale per lei riferirsi a “mamma” o “babbo”, così inveterata l'abitudine di citarli usando soprattutto per la madre esclusivamente il nome proprio (mentre riusciva talvolta spontaneamente a raccontare di “mio babbo”), che nel corso dei primi colloqui si andavano creando di continuo spassosi momenti di ilarità, data la sua assoluta incapacità a pronunciare la parola “mamma” in sostituzione del nome proprio. Si sfiorò la commedia plautina degli equivoci quando poi, narrandomi dell'amica-antagonista Maria, omise di specificare che la Maria in questione non corrispondeva più alla madre. Comprese da sé che di Maria è pieno il mondo, mentre di mamma ce n'è una sola. E comprese dunque che ad un genitore dispiace non essere riconosciuto e reso unico nel suo ruolo.
Non c'è dubbio che la diffusa pratica dell'accorciare le distanze tra adulti e bambini, a seguito forse di una reazione post-sessantottina all'autoritarismo, abbia provocato anche la diffusione del permissivismo e d'un lassismo educativo certamente reattivi ma non per questo giustificati ed efficaci. Il permissivismo, con la sua tendenza ad acconsentire a qualunque richiesta dei figli il più spesso possibile bandendo il “no”, ha reso usuale l'abolizione dal linguaggio delle forme di rispetto come il “dare del Lei”o “del Voi” come ancora usa nel nostro Sud, sostituito più spesso da un immediato “Tu”, tra adulto e adulto come anche tra bambino e adulto (persino nelle scuole di vario ordine e grado). E' in questo rivolgimento dei costumi che si cominciò ad osservare altresì, come si è detto, un discreto numero di bambini che, a partire dalla prima infanzia, erano usi chiamare i propri genitori per nome anziché “mamma” e “papà”. Tale moda sembra a tutt'oggi destinata al declino.

Ho conosciuto una giovane ragazza che d'un tratto è stata inspiegabilmente abbandonata dall'uomo che, avendone sposato la madre, fin da quando ella era piccolissima sembrava averla accolta nella propria vita con entusiasmo come e più che se gli fosse stata figlia naturale. Costui, con la rapidità del fulmine, da un certo giorno in avanti, ha finito col dimenticarla completamente, riuscendo anzi a sostituirla nel suo ruolo di figlia con il giovane figlio maschio dell'ultima sua conquista femminile. Nel tentativo di elaborare un lutto impossibile, la ragazza in questione ha scelto istintivamente di riferirsi a quell'uomo, che pure per tutta la vita era stata solita denominare teneramente babbo, chiamandolo “Lui-là”. Non è più riuscita a pronunciarne il nome proprio. Quel nome anzi, per estensione, quasi avesse il potere evocativo del diavolo in persona, è diventato tabù. Quella giovane ha dovuto cancellare, almeno dal proprio vocabolario, il di lui nome proprio e la qualifica -babbo- con cui non avrebbe avuto più senso designarlo se non al prezzo di ingannare se stessa fino alla follia nel tentativo, tanto strenuo quanto vano, di mantenere un sottile fil-rouge che la legasse ad un ricordo illusorio.

Il nome è qualcosa di assai importante anche per il migliore amico dell'uomo. Chiunque conosca un minimo di etologia o psicologia del pet più diffuso al mondo, il cane, sa che ad ogni comando gli si voglia impartire è utile far precedere il nome proprio di quell'animale. In tal modo la bestia non equivocherà; allorquando dovesse udire le parole usate come comando anche nel contesto, per esempio, di conversazioni familiari dove esso non è implicato, saprà di non essere coinvolto, saprà che le stesse non sono rivolte a lui. Se vogliamo che ci venga appresso gli diremo “vieni...Fido!”e non mai soltanto “vieni!” o soltanto “Fido!”. Diversamente, ogni volta che diremo “vieni!”, magari ad un congiunto che vogliamo ci raggiunga in fretta, il cane si sentirà implicato in prima persona e ce lo ritroveremo fatalmente tra i piedi con il rischio che la povera bestia si senta umiliata e allontanata da un'educazione incoerente. (Ma come!?- potrebbe pensare- ho sentito il comando “vieni!”, sono arrivato in gran fretta e per questo sono stato cacciato!?).

Vorrei aggiungere un'osservazione relativa all'educazione della coppia gemellare dove, fin dalla scelta dei nomi, è facile commettere errori rendendo più difficile ancora, a ciascuno dei gemelli, il lungo e faticoso percorso della individuazione. I gemelli monovulari identici, infatti, faticano non poco a distinguersi l'uno dall'altro e faticano più degli altri bambini a sviluppare ciascuno caratteristiche distintive. Ciò anche perché non è raro invece che i genitori scelgano per loro nomi simili, con la stessa iniziale o della stessa lunghezza (Carolina e Carlotta, Piero e Paolo, Giampiero e Giacomo...). Ricordo di aver conosciuto una coppia di gemelle che per tutto l'arco della loro infanzia e adolescenza venivano designate più sbrigativamente come “Checche” e, data anche la difficoltà a distinguerle prontamente l'una dall'altra, venivano chiamate ciascuna indistintamente “Checca”.
Inutile dire che anche nella maturità le due sorelle manifestano ancora una spiccata esigenza, con relativa difficoltà a separarsi l'una dall'altra e a godere di una piena autonomia ed autosufficienza al di fuori della coppia gemellare.

Infine vorrei ricordare il Grande Massimo Troisi quando, nel suo indimenticabile film “Ricomincio da tre”, suggerisce per i nascituri l'assegnazione di nomi corti: “I nomi corti fanno i figli educati. Massimiliano viene scostumato; è proprio 'o nomme che è scostumato. - “Massimiliano, stai vicino alla mamma!” - Prima che la mamma lo chiama -Mas..- si..- mi..- lia..- no!- 'o guaglione se nne va da qualche parte, no? Nomi lunghi? Non ubbidiscono! Ugo, invece, se vuole andare da qualche parte... - ”Ugo!” - non fa nemmeno tempo a muoversi, deve tornare per forza... Oppure Ciro, viene meno represso, fa in tempo a fare almeno un passo e a prendersi 'nu poco d'aria...”
Certamente il compianto Massimo Troisi esagerava, certo è che un nome composto o troppo lungo rischia di venire storpiato o avvilito in un formato ridotto, variabile a seconda del gusto, della fantasia o bizzarria di chi quel nome pronuncia. E se quel che si è cercato di esporre sin qui ha un senso, se è vero che si possa dire che noi siamo (anche) il nostro nome, ci sarebbe da augurarsi di poter godere di quel nome, nella sua interezza e unicità, fin dall'inizio e per tutto il tempo che occorre, a discrezione del diretto portatore.