giovedì 9 febbraio 2012

Chiacchiere di Carnevale



Dato il titolo ambiguo, conviene spiegare che mi accingo a chiacchierare tra me e me o tutt'al più con i miei pochi e benevolenti lettori, con pensieri in libertà, non importa se scomposti e slegati. Questa forzosa clausura, data l'eccezionale nevicata tutt'ora in corso, per la seconda settimana consecutiva, e che si accompagna ad un gelo letteralmente polare (ho capito perchè si dice "buriana", dal burian, freddissimo vento artico che deposita la neve in scomposti turbinii), di necessità ci tiene lontani dai nostri simili e dalla possibilità di scambiare anche solo quattro parole con anima viva. Mai come in questi giorni mi sento desiderosa di contatti umani com'è peraltro nella natura di noi animali sociali afflitti dalla nostra ontologica solitudine cui solo le parole parlate, lette o scritte, danno consolazione.
Data la stagione in cui "semel in anno licet insanire" e un latente desiderio di dolcetti carnevaleschi (chiacchiere, crostoli o galani a seconda delle diverse regioni), il titolo si è, per così dire, scritto da solo.
C'è poco da disambiguare però: le chiacchiere spolverate di zucchero vanigliato dovranno attendere, impossibili a farsi senza le uova che, come moltissimi altri generi alimentari freschi, mancano già da qualche giorno sugli scaffali dei supermercati. Non restano che le altre, quelle fatte di parole.
E anche qui, dato l'isolamento, tocca accontentarsi di interlocutori illusorii: il foglio bianco andrà benissimo.

Disambiguare le parole per dare loro il giusto senso...

Consideravo al momento, nella buriana dei miei pensieri, che è il contesto a fare la differenza tra i due o più significati che talvolta una stessa parola può avere. E' cioè sempre il contesto che disambigua il testo, e questa è una precipua caratteristica, intrinseca, del linguaggio.
Esistono parole, tantissime in verità, che hanno più d'un significato: fiasco, stufa, pesca, merlo, temporale, mento, collo, fronte, molare, faccia, volto. Fiasco come tipo di bottiglia ma anche come insuccesso, stufa come apparecchio utile a scaldarsi o sinonimo di "stanca", pesca come frutto o come sistema per catturare il pesce, merlo come uccello dal piumaggio nero o dettaglio di finitura di una torre guelfa, temporale come fenomeno atmosferico o zona del cranio o ancora relativo al tempo inteso come Xronos, collo come anche pacco postale, fronte come anche zona di guerra in prima linea, molare, faccia e volto come anche verbi. Normalmente non rileviamo alcuna ambiguità perchè, di norma, è il resto della frase a suggerirci il senso giusto di ogni parola, talchè il con-testo regola il senso. Qualcosa di simile accade quando le parole interagiscono con le immagini (e dunque con contesti) differenti. La stessa figura, cosiccome una stessa parola, assumerà diverso significato a seconda dello sfondo sul quale si staglia, della contiguità con elementi diversi dello stesso campo, ma anche del colore con il quale viene scritta, delle dimensioni, del tipo di carattere o grafia e degli elementi paratestuali in generale.
Di queste faccende sono competenti, oltre ai linguisti, i pubblicitari e gli studiosi della comunicazione in generale e, oltre a loro, tutti coloro i quali sanno bene che il gran problema è comunicare per poter...comunicare (come dire e cosa dire per esprimersi e farsi capire).
Ovviamente le ambiguità di senso possono essere utilizzate, nella comunicazione, anche a scopo manipolatorio, con la precisa intenzione di ingannare o fuorviare, oppure possono più semplicemente essere usate secondo forme retoriche che rimandano al linguaggio persuasivo, oppure possono essere utilizzate nel linguaggio comico o surreale.
Credo, in ogni caso, convenga avere conoscenza di tali meccanismi, vuoi per usarli in maniera opportuna impossessandosene, vuoi per poterci difendere da chi questi meccanismi li usa in modo discutibile.
A tal fine voglio suggerire un prezioso libello dal titolo "Le vie del senso" -come dire cose opposte usando le stesse parole- ed. Carocci, scritto da Annamaria Testa.
Sempre per contiguità, mi viene in mente un'altra lettura estremamente interessante: "La manomissione delle parole", dove l'autore -Gianrico Carofiglio- mette in guardia dall'uso improprio o deliberatamente mistificatore che sempre più spesso ne viene fatto. Di per sé, dice , le parole hanno un grande potere, talmente grande da poter essere considerate strumento per cambiare il mondo. Ma spesso, tuttavia, le abbiamo esaurite e consunte consumandole con usi impropri, eccessivi, inconsapevolmente o consapevolmente distorcenti. Se ne abbiamo abusato, dobbiamo restituire loro la "verginità, il senso, la dignità e la vita". Dobbiamo riflettere sul significato, ad es. di parole quali : giustizia, vergogna, responsabile, onore, dignità, ecc. Dobbiamo anche riflettere su tutti i linguaggi tecnici come per es. il linguaggio politico, quello medico o quello giuridico che si prestano più di altri a venir usati come lingua sacerdotale tesa a renderne ardua la comprensibilità per i non specialisti e che rischiano di configurarsi perlopiù come anti-lingua, come "terrore semantico" e forme compiaciute dell'esercizio del potere, come strumenti cioè, come li definiva Calvino, "utili più a non dire che a dire", tanto è vero che costituiscono linguaggi a sé, infarciti di neologismi incomprensibili ai più.
Le parole (dal greco " logos" ) fondano l'azione (la quale implica sempre una scelta) e la inscrivono in un panorama di senso, perchè il logos si estende ad indicare anche il discorso, ovvero il mettere insieme le parole che distinguono le cose tra di loro ed i rapporti esistenti fra le cose. Il logos, proprio dell'essere umano che parla e capisce, che si connette al verbo lego (raccontare, mettere insieme secondo un ordine razionale, scegliere), "è parola, pensiero, capacità di scegliere, abilità di raccontare". E noi umani, dotati della facoltà di parola, materializzatasi per la prima volta come simbolo grafico su di una tavoletta di pietra o su di un papiro passando da suono a rappresentazione, attraverso l'uso di questa, possiamo esplorare le profondità del nostro essere e le profondità del mondo, partecipando di entrambi, da uomini liberi.
La stessa parola "logos" può essere tradotta in modi diversi. Uno di questi, che corrisponde all'incipit del Vangelo di Giovanni, viene per solito tradotto con "Verbo" ne "In principio era il Verbo". Ci ha provato Goethe, nel suo Faust, traducendola con "potenza creativa", ma anche, progressivamente, con Parola, Pensiero, Energia, ed infine Azione. Hitler, saltando tutti i passaggi, ebbe a scrivere di apprezzare Goethe per questa sua definizione di logos come "azione". Dice Carofiglio: "è una deformazione inquietante: il significato di logos, privato del valore della parola e del pensiero, diviene azione senza senso, azione senza pensiero,...un -fare- astratto e indeterminato che, proprio per il fondarsi sul primato dell'azione e non del pensiero rischia di essere, nel migliore dei casi, un contenitore vuoto. Ne consegue, fatalmente, il disprezzo retorico e pericolosissimo, per le -parole- che invece fondano l'azione e la iscrivono in un panorama di senso." Una traduzione, quella che piaceva al dittatore, riduttiva, che ne tradisce l'intento di un impiego autoritaristico e manipolatorio.
Mi viene in mente ora che Mattew Fox, nel suo "Original blessing" (tradotto in Italiano con "In principio era la gioia" e con l'ottima prefazione del teologo Vito Mancuso), traduce la parola originaria "dabhar" come parola-energia creativa di Dio, ovvero come parola che implica anche atti concreti. Ecco allora, dice, che "il creato è il primo dei sacramenti, e la creazione non è nel passato, come dicono i fondamentalisti nel loro tentativo perverso, ancorchè inconscio, di imprigionare Dio (e quindi la sua creazione). La creazione continua, è una realtà in corso, essa è in noi e noi siamo in essa"... e "la Natura stessa è "scrittura primaria" dove "la dabhar fa appello sia all'emisfero destro del cervello -emisfero creativo- (gioco, affetto, amore), sia a quello sinistro -del linguaggio- (termini, conoscenza, verità). Non soltanto parole, dunque, ma fatti. Non soltanto un parlare, ma un vero e proprio creare."
In principio fu quindi, per Fox, una bene-dizione (e non la maledizione, non il peccato "originale", che origina e mette in moto), fu la teoria e la pratica che dice il bene: una bene-dizione originaria: non il dolore, ma la gioia, non la religione (come fredda conformità dottrinale) ma la spiritualità.
E la spiritualità, nell'intento del prefattore all'opera " è da intendersi come libertà, fiducia nella vita, capacità di critica, giudizio personale, amore per la bellezza, comunione con la natura e gli esseri umani". Non dovrebbe essere questo, anche, il senso del dialogare?
Oppure al principio di tutto fu la voce, e di essa la sua espressione primigenia: il canto, che con i suoi suoni melodici ancorchè inarticolati è linguaggio dell'anima e del sentimento, come ebbe a ipotizzare in un suo mirabile spettacolo l'attore di origine ebraica Moni Ovadia ? In fin dei conti la prima espressione vocale del neonato non è forse il canto, quello del gorgheggio modulato, ma anche del pianto ed in seguito della lallazione? Forse, come sostengono i maestri della Cabala, in principio era la voluttà di un canto (la prima parola ebraica della genesi "bereshit", in principio può essere anagrammata in "taeb shir", voluttà di un canto) chè creazione e rivelazione si manifestano attraverso il suono, sia esso quello dell'esplosione primigenia o relativo all'opera del Creatore, o ancora al sublime estro creativo del caso. Potente e ammaliante come il canto delle sirene che sconvolse Ulisse ma benigno come la voce di una madre che culla il figlio ancora in grembo, il canto accompagna lo stupore della creazione (anche artistica) e ci induce a ritenere che la nostra origine e l'origine dell'Universo che ci circonda cantino.
n canto, lo deducono dalla prima parola ebraica della
Ritornando a Carofiglio, leggo riportato l'incipit del famoso discorso di Barack Obama alle primarie : "...il nostro destino è scritto non per noi, ma da noi, da tutti gli uomini, da tutte le donne che non vogliono accontentarsi del mondo com'è: che hanno il coraggio di rifare il mondo come dovrebbe essere. ..."
Questo mi sembra essere il senso dell'espressione "scrivere la storia"; per scriverla, come dice Carofiglio, con l'autonomia, con la responsabilità, con la capacità di ricordare il passato e raccontarlo, -chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla-, con l'arte e il coraggio di leggere e raccontare le storie, possiamo cambiare il mondo, immaginare, "cercare" di rifarlo come dovrebbe essere,...ribellandoci, se del caso, al mondo "as it is" così com'è ... avendo il coraggio di essere rivoluzionari, di dire no." ... "Dire (o raccontare) -da logos- e scegliere -da lego- sono azioni, nella loro intima essenza, straordinariamente simili. "La parola ha in sé, nella sua radice, un potere vastissimo: essa crea e definisce la nostra rappresentazione del mondo, e dunque il nostro mondo, così come siamo capaci di conoscerlo. Allo stesso modo, l'atto della scelta trasforma la potenza in atto e dà forma a ciò che è indefinito. E nel definirlo, trasforma, cambia il mondo. Sia esso il nostro mondo privato e interiore, o quello esterno in cui entriamo in rapporto con i nostri simili. Scegliere -e dire- implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui possiamo dare un nome. Ci consente di passare dall'ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza indecifrabile alla possibile salvezza."
L'ipocognizione, l'incapacità di dare un nome alle cose e alle emozioni, corrisponde ad una situazione tragica. Paradigmatico è il caso dei Tahitiani studiati da B. Levy che, incapaci di dare un nome al dolore spirituale, quando lo provavano, ricorrevano al suicidio. L'incapacità di designarlo, di identificarlo, dando quindi voce alla loro intensa sofferenza psichica, li spingeva al gesto estremo e, con esso, all'estremo mutismo. La violenza, del resto, auto o alloplastica che sia, è muta, ed è la conseguenza della miseria di parole, come anche Daniel Pennac (nel suo efficacissimo "Diario di scuola" ) ha testimoniato.
Nell'antica Grecia, culla di civiltà e della democrazia, sapevano bene che essere politici e vivere nella polis voleva dire che tutto si decideva con le parole e la persuasione, e non con la forza e la violenza.