lunedì 2 dicembre 2013

Il SENSO DI COLPA: un tormento importuno e inopportuno.

Cerchiamo di stabilire cosa si intenda per "senso di colpa" definendolo anzitutto per ciò che non è: non è la consapevolezza di essere meritatamente colpevoli a causa di qualcosa che si è agito scientemente per danneggiare qualcuno. Quest'espressione corrisponde piuttosto ad un senso di inadeguatezza, ad una strisciante impressione di inferiorità, al credersi ben lontani dall'essere come si pensa di dover essere, ingenerata dalla mancanza di autostima e dall'inconsapevolezza del proprio valore e delle proprie qualità positive, una sorta di sindrome di Calimero. E' un considerarsi inutili, di scarso valore, sostanzialmente incapaci, e oscuramente colpevoli, meritevoli di esserlo. Chi è condannato a vivere un s.d.c. si sente brutto e cattivo e non può confidare che il goffo anatroccolo potrà un giorno trasformarsi in splendido cigno.
Chi si sente in colpa, per quanto inconsciamente e oscuramente, è condannato altresì a provare sentimenti di rabbia e vergogna, rabbia verso se stesso per la propria impotenza e incapacità, vergogna di non corrispondere all'ideale per l'Altro e per non essere bravo abbastanza da farsi amare e stimare, condannato a rincorrere perennemente la stima e la benevolenza altrui con il massimo dello sforzo. Ogni ulteriore senso di colpa è destinato ad accrescere le angosce primarie (annullamento, abbandono).
Per dirla con Freud è l'Io che si sente in colpa, frustrato nella sua impossibilità di sentirsi valido, è un Io che si sente mal giudicato dall'intransigenza di un Super-Io (corrispondente, potremmo dire, alle voci sacralizzate dei genitori) che lo condanna a sentirsi perennemente ad un passo dal rimbrotto e dal castigo, dunque sotto minaccia di pericolo imminente. Paradossalmente un io così tanto infragilito, è troppo debole per ribellarsi, si attacca anzi dove può, anche sugli specchi, con tutta la forza di cui è capace, con la forza della speranza divenuta disperazione, se occorre.
Una sensazione del genere mantiene alto il sentimento della paura, e l'ansia che lo accompagna risulta pressocchè paralizzante. Di fronte alla minaccia di un'aggressione non si hanno che due strade: la controrisposta aggressiva o la fuga. Ciò, soltanto se si possa riconoscere e vedere la fonte della minaccia; ma quando la minaccia avvertita non sia distinguibile, palese e concreta, allora è la paralisi, il blocco; nessuna strategia di risposta sembra possibile. La paura inoltre genera atteggiamenti di sottomissione e obbedienza che si accentueranno, al cospetto di chi opera con manovre perverse, quanto più la vittima sia portata a sentirsi in difetto, inadeguata e quindi dipendente e disautonoma.
Di fronte ad un Super-Io che suggerisce in continuazione: "tu devi!" (farti amare, rispettare, stimare, riuscire, cambiare chè così non sei "giusto", non fare brutte figure...) e che non accetta una sconfitta che annulli contemporaneamente le due principali ragioni del nostro agire che sono l'amore e la gloria, come viene detto nella colonna sonora del celebre film Casablanca, l'Io debole finisce col sentirsi soverchiato ed impotente, talmente ferito nell'amor proprio da sentirsi incapacitato a reagire in modo costruttivo e autoprotettivo.
Il s.d.c. corrisponde ad un'emozione infantile di estrema debolezza che induce a credere che "qualcosa che dipende da me provoca il disprezzo e l'ira degli altri ". Qualcosa che dipende da me, mai dall'altro prima che da me. Così, nello scontro tra le richieste dell'autostima e le effettive prestazioni dell'Io, ovvero le mie concrete e reali possibilità, a fronte di un Tribunale troppo intransigente, riuscirò perennemente sconfitto: sentendomi profondamente inadeguato, non essendo io abbastanza capace a priori, sono condannato a non avere mai sufficienti possibilità di conquistare l'amore, la stima, il successo sociale (ciò che potremmo definire in sintesi amore e gloria).
Ad alimentare il s.d.c. ci si mettono certa educazione amartiocentrica (dal greco amartìa, "peccato") rigida, moralista, castrante e punitiva, e gli inciampi della vita. Ogni avvenimento negativo col quale ci troviamo a fare i conti, da certe frasi choc o punizioni dei genitori (sto pensando alla "Lettera al padre" di Kafka dove l'autore ricorda le punizioni e vessazioni cui lo sottoponeva suo padre, algido e punitivo), ai pregiudizi culturali nei confronti delle minoranze o della donna, ci espone all'accusa e al giudizio di colpevolezza da parte del nostro inconscio Tribunale personale. Quando questo si riveli soverchiante e inappellabile, ci condanna a portare il peso della nostra "giusta" colpa di cui non riusciamo a perdonarci.
In un' educazione amartiocentrica, in una religione amartiocentrica, fondata sul peccato "fin dalle origini" (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa), può essere difficile persino non sentirsi in colpa di esser nata femmina.
E' evidente dunque che una cosa è l'inadeguatezza vera e propria, altra è il sentimento di inadeguatezza come sentire profondo pervasivo e condizionante del nostro agire. Sarebbe come funzionare da ipovedenti pur disponendo di dieci decimi.
Spesso il s.d.c. ha radici lontane, nell'infanzia, se e quando si sia vittime incolpevoli e inconsapevoli di molestie morali, di violenza perversa o manipolazione da parte di un "adulto che conta". Quando tale adulto che conta affettivamente, genitore o un partner, abbia strumenti perversi di difesa, non essendo capace di scelte responsabili giudicate troppo difficili o minacciose per l'integrità del suo io, risulta capacissimo di ingenerare nell'altro, la vittima, un s.d.c. duraturo e stabile. Un adulto di tal fatta ha bisogno di identificare un capro espiatorio su cui far ricadere la responsabilità della propria sofferenza. Per non odiare se stesso, ha bisogno di proiettare fuori di sè, su di un'altra persona che una volta abbia sentito far parte di sè, la responsabilità del proprio scontento, la colpa della propria afflizione. Un figlio, come si vede, può divenire allora, proprio per la sua intrinseca fragilità, una vittima ideale. Un nitido esempio dello strano rapporto tra vittima e persecutore che infligge molestie morali si trova nel film Zia Angelina del regista Etienne Chatiliez (1990), dove la vecchia zia, che pure, come ci suggerisce il film, è cattiva in quanto incattivita da molta pregressa sofferenza, è tanto più sottilmente manipolatoria e spietata proprio nei confronti della nipote, la più buona, gentile e servizievole tra quanti le stanno intorno.
Chi sia stato allevato a pane e senso di colpa, chè il s.d.c. è sempre indotto per le difese paranoiche di uno o dell'altro dei suoi genitori, una volta adulto sarà la vittima ideale, ancora una volta, di manipolazione da parte di quello che in termine tecnico potremmo definire "violento perverso". Avremo così una sorta di nemesi storica, sulla scena sempre due personaggi: la vittima di aggressioni perverse e l'aggressore perverso. Aggressore perverso in quanto furbescamente e dunque perversamente, potremmo dire con il massimo dell'ipocrisia, approfitta del senso di colpa della vittima designata e, per conservare una buona immagine di sè e contemporaneamente camminare nel mondo a testa alta mantenendo "la faccia pulita", tenderà a soggiogarla acuendone ulteriormente il s.d.c., ovvero la fragilità, con abili manovre: manovre, appunto, perverse (sei bravo a niente, non farai mai nulla di buono nella vita, come pensi di cavartela senza di me?...).
Potremmo concludere che sarà destinato a coltivare senso di colpa colui il quale vivrà l'esperienza di faticare sempre e inutilmente per sentirsi amato da persona che in verità non sa amare.
Un bambino o una bambina che abbiano vissuto sotto la soverchiante presenza del s.d.c., ovvero impoveriti da una troppo scarsa immagine di sè, saranno più facilmente candidati a cadere intrappolati nella seduzione potente di chi sembra amare meglio di ogni altro: il narcisista perverso. Più facilmente di altri saranno candidati a finire tra le sue grinfie proprio in quanto il di lui scopo è quello di "conquistare", a qualunque costo, come se tale conquista fosse un luogo di potere e non, come dovrebbe essere in amore, un luogo di scambio reciproco alla pari. Alla vittima del s.d.c., vittima tout-court, preda ideale di questo genere di personalità bugiarda e incentrata su se stessa per definizione, sarà più facile "tomber amoureux/euse", "falling in love"... e, nell'incontro con il "ragno", la sua potrà essere più probabilmente una caduta dolorosa, dalle stelle all'inferno. Eppure, paradossalmente, proprio grazie all'inciampo e allo scivolone doloroso, potrà emendarsi e risollevarsi, finalmente alleggerita dalla zavorra del s.d.c. e riappropriarsi del necessario amor proprio, di cui, in quanto vittima, era pressocchè sprovvista.
Mi rendo conto che quanto detto fin qui sembra rappresentare una situazione di empasse quasi senza uscita. Non è così, disfarsi di un ingombrante s.d.c., inutile aggravio che ci limita nella libertà e nel raggiungimento di un sentimento di soddisfazione, si può. Lacan direbbe che la soggettivazione è perenne. Anche nella storia personale più drammatica non c'è determinismo, può sempre sortirne qualcosa di nuovo e di meglio, il positivo della contingenza, di una nuova consapevolezza.. L'immagine di sè è suscettibile di cambiamento e l'autostima può migliorare e accrescersi. Possono aumentare la sana aggressività e con essa le capacità di difesa, la resilienza e l'affermatività, come già ho provato a suggerire in precedenti articoli e, come prevedo e spero, farò nei prossimi.

A titolo di esempio vorrei ricordare il successo letterario di Gustav Flaubert e il suo riconoscimento anche postumo destinato a non estinguersi. Eppure, lui, cui nell'infanzia tutto concorreva a convincerlo dell'adeguatezza del soprannome assegnatogli di "bêtise" , capace come sembrava solo di bestialità e sciocchezze per le sue difficoltà di linguaggio parlato e scritto, lui che era considerato un minus habens, lo scemo di famiglia, condannato dal giudizio dell'altro, in primis dei familiari, ad essere un povero idiota, alla faccia dell'identità di ruolo, lui diventerà un genio.