lunedì 2 dicembre 2013

Il SENSO DI COLPA: un tormento importuno e inopportuno.

Cerchiamo di stabilire cosa si intenda per "senso di colpa" definendolo anzitutto per ciò che non è: non è la consapevolezza di essere meritatamente colpevoli a causa di qualcosa che si è agito scientemente per danneggiare qualcuno. Quest'espressione corrisponde piuttosto ad un senso di inadeguatezza, ad una strisciante impressione di inferiorità, al credersi ben lontani dall'essere come si pensa di dover essere, ingenerata dalla mancanza di autostima e dall'inconsapevolezza del proprio valore e delle proprie qualità positive, una sorta di sindrome di Calimero. E' un considerarsi inutili, di scarso valore, sostanzialmente incapaci, e oscuramente colpevoli, meritevoli di esserlo. Chi è condannato a vivere un s.d.c. si sente brutto e cattivo e non può confidare che il goffo anatroccolo potrà un giorno trasformarsi in splendido cigno.
Chi si sente in colpa, per quanto inconsciamente e oscuramente, è condannato altresì a provare sentimenti di rabbia e vergogna, rabbia verso se stesso per la propria impotenza e incapacità, vergogna di non corrispondere all'ideale per l'Altro e per non essere bravo abbastanza da farsi amare e stimare, condannato a rincorrere perennemente la stima e la benevolenza altrui con il massimo dello sforzo. Ogni ulteriore senso di colpa è destinato ad accrescere le angosce primarie (annullamento, abbandono).
Per dirla con Freud è l'Io che si sente in colpa, frustrato nella sua impossibilità di sentirsi valido, è un Io che si sente mal giudicato dall'intransigenza di un Super-Io (corrispondente, potremmo dire, alle voci sacralizzate dei genitori) che lo condanna a sentirsi perennemente ad un passo dal rimbrotto e dal castigo, dunque sotto minaccia di pericolo imminente. Paradossalmente un io così tanto infragilito, è troppo debole per ribellarsi, si attacca anzi dove può, anche sugli specchi, con tutta la forza di cui è capace, con la forza della speranza divenuta disperazione, se occorre.
Una sensazione del genere mantiene alto il sentimento della paura, e l'ansia che lo accompagna risulta pressocchè paralizzante. Di fronte alla minaccia di un'aggressione non si hanno che due strade: la controrisposta aggressiva o la fuga. Ciò, soltanto se si possa riconoscere e vedere la fonte della minaccia; ma quando la minaccia avvertita non sia distinguibile, palese e concreta, allora è la paralisi, il blocco; nessuna strategia di risposta sembra possibile. La paura inoltre genera atteggiamenti di sottomissione e obbedienza che si accentueranno, al cospetto di chi opera con manovre perverse, quanto più la vittima sia portata a sentirsi in difetto, inadeguata e quindi dipendente e disautonoma.
Di fronte ad un Super-Io che suggerisce in continuazione: "tu devi!" (farti amare, rispettare, stimare, riuscire, cambiare chè così non sei "giusto", non fare brutte figure...) e che non accetta una sconfitta che annulli contemporaneamente le due principali ragioni del nostro agire che sono l'amore e la gloria, come viene detto nella colonna sonora del celebre film Casablanca, l'Io debole finisce col sentirsi soverchiato ed impotente, talmente ferito nell'amor proprio da sentirsi incapacitato a reagire in modo costruttivo e autoprotettivo.
Il s.d.c. corrisponde ad un'emozione infantile di estrema debolezza che induce a credere che "qualcosa che dipende da me provoca il disprezzo e l'ira degli altri ". Qualcosa che dipende da me, mai dall'altro prima che da me. Così, nello scontro tra le richieste dell'autostima e le effettive prestazioni dell'Io, ovvero le mie concrete e reali possibilità, a fronte di un Tribunale troppo intransigente, riuscirò perennemente sconfitto: sentendomi profondamente inadeguato, non essendo io abbastanza capace a priori, sono condannato a non avere mai sufficienti possibilità di conquistare l'amore, la stima, il successo sociale (ciò che potremmo definire in sintesi amore e gloria).
Ad alimentare il s.d.c. ci si mettono certa educazione amartiocentrica (dal greco amartìa, "peccato") rigida, moralista, castrante e punitiva, e gli inciampi della vita. Ogni avvenimento negativo col quale ci troviamo a fare i conti, da certe frasi choc o punizioni dei genitori (sto pensando alla "Lettera al padre" di Kafka dove l'autore ricorda le punizioni e vessazioni cui lo sottoponeva suo padre, algido e punitivo), ai pregiudizi culturali nei confronti delle minoranze o della donna, ci espone all'accusa e al giudizio di colpevolezza da parte del nostro inconscio Tribunale personale. Quando questo si riveli soverchiante e inappellabile, ci condanna a portare il peso della nostra "giusta" colpa di cui non riusciamo a perdonarci.
In un' educazione amartiocentrica, in una religione amartiocentrica, fondata sul peccato "fin dalle origini" (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa), può essere difficile persino non sentirsi in colpa di esser nata femmina.
E' evidente dunque che una cosa è l'inadeguatezza vera e propria, altra è il sentimento di inadeguatezza come sentire profondo pervasivo e condizionante del nostro agire. Sarebbe come funzionare da ipovedenti pur disponendo di dieci decimi.
Spesso il s.d.c. ha radici lontane, nell'infanzia, se e quando si sia vittime incolpevoli e inconsapevoli di molestie morali, di violenza perversa o manipolazione da parte di un "adulto che conta". Quando tale adulto che conta affettivamente, genitore o un partner, abbia strumenti perversi di difesa, non essendo capace di scelte responsabili giudicate troppo difficili o minacciose per l'integrità del suo io, risulta capacissimo di ingenerare nell'altro, la vittima, un s.d.c. duraturo e stabile. Un adulto di tal fatta ha bisogno di identificare un capro espiatorio su cui far ricadere la responsabilità della propria sofferenza. Per non odiare se stesso, ha bisogno di proiettare fuori di sè, su di un'altra persona che una volta abbia sentito far parte di sè, la responsabilità del proprio scontento, la colpa della propria afflizione. Un figlio, come si vede, può divenire allora, proprio per la sua intrinseca fragilità, una vittima ideale. Un nitido esempio dello strano rapporto tra vittima e persecutore che infligge molestie morali si trova nel film Zia Angelina del regista Etienne Chatiliez (1990), dove la vecchia zia, che pure, come ci suggerisce il film, è cattiva in quanto incattivita da molta pregressa sofferenza, è tanto più sottilmente manipolatoria e spietata proprio nei confronti della nipote, la più buona, gentile e servizievole tra quanti le stanno intorno.
Chi sia stato allevato a pane e senso di colpa, chè il s.d.c. è sempre indotto per le difese paranoiche di uno o dell'altro dei suoi genitori, una volta adulto sarà la vittima ideale, ancora una volta, di manipolazione da parte di quello che in termine tecnico potremmo definire "violento perverso". Avremo così una sorta di nemesi storica, sulla scena sempre due personaggi: la vittima di aggressioni perverse e l'aggressore perverso. Aggressore perverso in quanto furbescamente e dunque perversamente, potremmo dire con il massimo dell'ipocrisia, approfitta del senso di colpa della vittima designata e, per conservare una buona immagine di sè e contemporaneamente camminare nel mondo a testa alta mantenendo "la faccia pulita", tenderà a soggiogarla acuendone ulteriormente il s.d.c., ovvero la fragilità, con abili manovre: manovre, appunto, perverse (sei bravo a niente, non farai mai nulla di buono nella vita, come pensi di cavartela senza di me?...).
Potremmo concludere che sarà destinato a coltivare senso di colpa colui il quale vivrà l'esperienza di faticare sempre e inutilmente per sentirsi amato da persona che in verità non sa amare.
Un bambino o una bambina che abbiano vissuto sotto la soverchiante presenza del s.d.c., ovvero impoveriti da una troppo scarsa immagine di sè, saranno più facilmente candidati a cadere intrappolati nella seduzione potente di chi sembra amare meglio di ogni altro: il narcisista perverso. Più facilmente di altri saranno candidati a finire tra le sue grinfie proprio in quanto il di lui scopo è quello di "conquistare", a qualunque costo, come se tale conquista fosse un luogo di potere e non, come dovrebbe essere in amore, un luogo di scambio reciproco alla pari. Alla vittima del s.d.c., vittima tout-court, preda ideale di questo genere di personalità bugiarda e incentrata su se stessa per definizione, sarà più facile "tomber amoureux/euse", "falling in love"... e, nell'incontro con il "ragno", la sua potrà essere più probabilmente una caduta dolorosa, dalle stelle all'inferno. Eppure, paradossalmente, proprio grazie all'inciampo e allo scivolone doloroso, potrà emendarsi e risollevarsi, finalmente alleggerita dalla zavorra del s.d.c. e riappropriarsi del necessario amor proprio, di cui, in quanto vittima, era pressocchè sprovvista.
Mi rendo conto che quanto detto fin qui sembra rappresentare una situazione di empasse quasi senza uscita. Non è così, disfarsi di un ingombrante s.d.c., inutile aggravio che ci limita nella libertà e nel raggiungimento di un sentimento di soddisfazione, si può. Lacan direbbe che la soggettivazione è perenne. Anche nella storia personale più drammatica non c'è determinismo, può sempre sortirne qualcosa di nuovo e di meglio, il positivo della contingenza, di una nuova consapevolezza.. L'immagine di sè è suscettibile di cambiamento e l'autostima può migliorare e accrescersi. Possono aumentare la sana aggressività e con essa le capacità di difesa, la resilienza e l'affermatività, come già ho provato a suggerire in precedenti articoli e, come prevedo e spero, farò nei prossimi.

A titolo di esempio vorrei ricordare il successo letterario di Gustav Flaubert e il suo riconoscimento anche postumo destinato a non estinguersi. Eppure, lui, cui nell'infanzia tutto concorreva a convincerlo dell'adeguatezza del soprannome assegnatogli di "bêtise" , capace come sembrava solo di bestialità e sciocchezze per le sue difficoltà di linguaggio parlato e scritto, lui che era considerato un minus habens, lo scemo di famiglia, condannato dal giudizio dell'altro, in primis dei familiari, ad essere un povero idiota, alla faccia dell'identità di ruolo, lui diventerà un genio.


sabato 27 aprile 2013

L'uomo è ciò che mangia

La massima del filosofo Feuerbach, l'uomo è ciò che mangia, intende porre l'accento sull'importanza di considerare che tutto ciò che l'essere umano ingurgita, cibo e liquidi, è di primaria importanza, costituendo il carburante che consente lo sviluppo e la propulsione di quella che è la macchina del corpo non disgiunta, beninteso, da quella che è la mente. Tale massima è ricca di significati. Significa che il cosa si mangia fa l'uomo ricco o povero, forte o debole, intelligente o carenziato, ben nutrito e quindi in salute oppure malnutrito e soggetto a malattie, ecc., ma implica anche che l'uomo è come mangia , da solo, in compagnia, con foga o parsimonia, di fretta o con il gusto della lentezza, nel rispetto o nello spregio dell'ambiente e dei viventi, nella consapevolezza o cecità che ciò che è buono da mangiare non coincide, spesso, con ciò che è buono da vendere, ecc.
Il cosa mangiare dipende dalla densità demografica, dalla disponibilità di cibo, o di certi cibi, dipende anche dalle tradizioni culturali e alimentari, dalla peculiarità e dalla predominanza di certi prodotti relativi ad una determinata area geografica, ma anche dalle strategie di allevatori, politici e compagnie multinazionali che vedono nel cibo un profitto più che un nutrimento; può inoltre dipendere dall'osservanza di precetti religiosi o da particolari tabù, ma è sicuramente relativo anche ad una scelta individuale consapevole che prescinde dall'offerta o dai costumi alimentari dominanti.
Tenere una dieta vegetariana, ad esempio, può dipendere da modelli alimentari di popolazioni scarsamente sviluppate (economie eminentemente agricole ma anche soggette a situazioni di restrizione, povertà o carestia); può dipendere più genericamente da fattori culturali e religiosi (buddhismo, brahmanesimo, ecc.), oppure dalla libera scelta di chi non desideri partecipare alle sofferenze e all'eccidio di animali allevati in segregazione a scopo esclusivamente alimentare e sia consapevole dell'antieconomicità dell'allevamento di proteine animali rispetto a quelle vegetali, anche in considerazione allo spreco di acqua, bene essenziale di cui siamo e stiamo diventando sempre più drammaticamente carenti. Analogamente, anche la dieta carnea degli Americani, appassionati di barbecue e fast-food, dipende da fattori culturali antichi, retaggio di una tradizione in cui i bovini erano "il salario", l'unità di scambio e dunque simbolo di ricchezza e potere in un continente vasto dove c'erano pascoli in abbondanza, e fattori economici più recenti, fattori che fecero del maiale e del pollo animali più remunerativi da allevare (i maiali ripulivano e le coltivazioni di patata e le grandi piantagioni di mais della Virginia dai residui rimasti sotto e sopra la terra, mentre i polli, si prestavano e si prestano sempre più, come superpolli, ad allevamenti superveloci grazie ai mangimi composti in cui, oltre a granaglie proteiniche come la soia, entra anche la farina di pesce insieme a cocktails di vitamine, ormoni e antibiotici).
Naturalmente non è detto che l'orgia dei carnivori in terra americana non possa rivelarsi altrettanto transitoria quale fu quella dell'India vedica, ora che la cementificazione e la densità di popolazione, in costante aumento, riducono progressivamente le aree agricole, ora che anche il mais e altre coltivazioni sono destinate alla produzione di biocarburanti.
Si può dire che "il cibo fa l'uomo" o che "l'uomo è il suo cibo" non solo in relazione alla qualità e quantità dei nutrienti contenuti nello stesso, ma anche in relazione alla possibilità della dieta di influire nel "fare anima". La condotta alimentare infatti, presumendo comunque una scelta, perlomeno quando non vi siano situazioni di carestia o particolari patologie, è influenzata dai condizionamenti ambientali, dall'organizzazione sociale, dal periodo storico, dalla densità demografica, dalla latitudine, ecc., ma possiamo anche dire che, viceversa, è capace di influenzare, a sua volta, i comportamenti individuali e sociali, le coscienze e persino l'economia.
Mi piace ricordare, (mi rassicura anche), il poeta Ovidio che nelle sue Metamorfosi disapprovava il consumo di carne, Leonardo da Vinci, convinto vegetariano che sperava venisse il giorno in cui la vita di un animale sarebbe stata considerata ugualmente degna di quella umana, e San Francesco che si adoperò in ogni modo per proteggere la vita di ogni animale ancorchè piccolo come l'allodola. Tutti e tre erano vegetariani, esempio, ciascuno, di unione con la natura, di integrità riconquistata, davvero alla portata di tutti.
Il cibo influenza dunque, più in generale, il corpo e la mente, ma anche l'economia e l'organizzazione sociale.

Esiste dunque coincidenza tra essere e mangiare. Siamo in quanto mangiamo, edo ergo sum, se non ci nutrissimo non saremmo, e quel che siamo, nel corpo e nella mente, nelle cellule e nello spirito, nel vivere sociale, lo dobbiamo anche a ciò che scegliamo per nutrirci e a come scegliamo di nutrirci.
Non dubito, per esempio, che una maggiore consapevolezza di quello che è un profondo difetto di sistema, che potremmo identificare nella gestione finanziaria dei futures, ovvero degli investimenti mediante i quali le aziende finanziarie regolano il mercato delle sementi e dei cibi speculando e traendone enormi profitti, porterebbe ad una migliore distribuzione del cibo, all'insegna di una maggiore equità e ragionevolezza.
Si rende necessario altresì un cambio di rotta nella cultura alimentare; non è infatti più possibile scotomizzare i vistosi paradossi di cui gran parte della popolazione mondiale è vittima, per cui nel mondo, allo stato attuale, si verificano 36 milioni di decessi annui per carenza di nutrizione e, nel contempo, 29 milioni di decessi per eccesso di cibo, per cui un miliardo di persone stanno per morire di fame mentre altrettanti hanno eccedenza di prodotti consumati tanto che 1/3 di questi finiscono scartati nella spazzatura.
Un cambiamento culturale più che mai opportuno dovrebbe altresì farci porre maggiore attenzione alla qualità dei cibi ("mangiare meno, mangiare meglio" dovrebbe essere il motto) e dovrebbe indurci a ritrovare il giusto orgoglio, o come minimo un maggior rispetto, nei confronti del mestiere del contadino o, se proprio vogliamo, del coltivatore. Non dev'essere un caso che Michelle Obama, di là dall'Oceano, si sia tanto impegnata in una campagna alimentare contro il cibo-spazzatura ed abbia faticosamente ripristinato l'orto presso la Casa Bianca, conseguendo, peraltro in un tempo breve, alcuni incoraggianti successi quantomeno a titolo di esempio.

Non va dimenticato che l'incorporamento orale nutre anche l'affettività. Veicolato primariamente dal seno materno, esso ci nutre non solo di latte, ma anche di quel miele metaforico che è costituito dalla dolcezza, dalla tenerezza, dal calore protettivo, dall'appagamento della totalità dei bisogni primari, ivi compresi quelli di attaccamento e protezione. Quando l'insicurezza circa la propria identità ed esistenza tramuta il cibarsi da quella cosa che garantisce la salute del corpo a quel comportamento umano il più carico di simbolismi e valenze cui si associano le emozioni e l'affettività, nasce il disturbo alimentare (la bulimia e l'anoressia ne sono due esempi vistosi). Col cibo si combatte il vissuto di esclusione sociale, si combatte l'angoscia del niente e si tenta di riparare il vuoto esistenziale. Mangio, dunque sono. Mangio, quindi esisto. Esisto male, mangio male. Mangio male, esisto male.
Mangiare troppo, compulsivamente, cercando le sensazioni violente, intense, primitive e selvagge di riempirsi di sostanza e carnalità in un delirio di soddisfazione per quanto momentanea, o troppo poco, in una strenua lotta sul filo del rasoio tra la vita e la morte, tra l'essere e il non essere più, mettendo alla prova se stessi in maniera continuata, ripetitiva e ossessiva, sono facce della stessa medaglia. L'intento sembra, in tutti e due i casi, quello di salvare in qualche modo e l'identità e la possibilità di sentirsi accettati anche nella fragilità di un corpo dismorfico.
In uno scenario non più individuale ma collettivo si può osservare che "il mangiare" è diventato, come si diceva, un problema, anche nell'opulento mondo occidentale. Si tende a comperare ciò che conviene economicamente a discapito della qualità, non si dà valore al cibo quanto se ne dà agli oggetti propagandati dalla società consumistica dei quali, a ben guardare, non abbiamo altrettanta necessità, oppure non si considera, per esempio, che un chilodi pasta asciutta, alimento-base non soltanto nella dieta mediterranea, costa come, o meno, di una tazzina di caffè al bar.

L'incorporamento orale nutre anche lo spirito. Nell'eucaristia, l'incorporazione del "corpo" di Cristo (sangue e carne) simbolicamente racchiuso nell'ostia, diviene maniera di ospitare dentro di noi il figlio di quel Dio di cui siamo fatti a immagine e somiglianza; assumiamo questo cibo in una condivisione collettiva, nella comunione appunto, perchè il cibo è unione. Come disse E. M. Foster, gli eventi principali della vita di un essere umano sono cinque: nascere, mangiare, dormire, amare, morire. Mangiare e amare, però sono quelli che più ci avvicinano gli uni agli altri e che più si avvicinano tra loro. Il cibo, oggetto di scambio per eccellenza fin dal principio, non solo tra il neonato e sua madre, rappresenta un veicolo di interazione privilegiato per tutto l'arco della vita proprio perchè continua ad essere quel denominatore comune vitale che consente la relazione, la conoscenza e la vicinanza e la fiducia nei legami sociali.
Mangiare è sostantivo e verbo. "Questo mangiare fa schifo", "non mi va più di mangiare", "troppo mangiare ingrassa", "ti mangerei di baci", sono espressioni comuni nelle quali utilizziamo la parola "mangiare" in entrambi le forme e nelle sue diverse accezioni di nutrimento concreto e simbolico, quale "carburante" per le funzioni corporee ed elemento affettivo per le funzioni psichiche.
Quando diciamo "il sole mangia le ore" usiamo invece una metafora di incorporazione distruttiva, laddove il tempo, fagocitando ciò che esso stesso genera, le ore, le incorpora e al tempo stesso le distrugge, come Chronos ( il tempo, appunto) i suoi stessi figli, e ciò facendo si assicura, per dir così, l'immortalità ovvero l'eternità.
Ma noi che siamo mortali, non nutrendoci di frazioni infinite di tempo, non possiamo né incorporarle a scopo distruttivo, né tesaurizzarle, abbiamo bisogno di incorporare cibo "buono da mangiare", come direbbe Marvin Harris e "buono da pensare", come direbbe Claude Lévi-Strauss, abbiamo cioè bisogno di un cibo che sia buono al palato, buono dal punto di vista nutrizionale e buono dal punto di vista etico, buono per la mente perchè corrispondente al bene per noi stessi e, nel contempo, per i nostri simili.
Poichè noi siamo animali sociali, il bene è anche e soprattutto bene sociale. Potremmo allora dire che se l'uomo è ciò che mangia, e mangia bene, l'uomo sta bene con se stesso e con gli altri, riconosce la gioia, ed essendo portato per sua natura a condividerla, gli sarà più facile essere buono. Se gli riuscirà di essere buono, non avido, non sfrenatamente individualista, e bello nel corpo perchè una sana alimentazione consente questo, finirà anche col sentirsi bravo, ovvero accettato e premiato socialmente. Non è questo forse il modo per conoscere il ben-essere, la soddisfazione, la gioia?
Di questi tempi, tempi in cui il mondo intero ha diffusamente gioito per l'elezione di un Capo Spirituale che si è scelto il nome del Poverello d'Assisi e che ha riconosciuto gli animali anch'essi come figli di Dio, è possibile sperare in un nuovo corso ove l'unione con la Natura tutta, nel rispetto dei viventi, animali compresi, sia non solo desiderabile, ma di nuovo possibile, ove l'eco della filosofia di Henry David Thoreau e del suo "Walden", cosiccome l'eco della spiritualità orientale e della tradizione cristiana primitiva, tornino a risuonare nelle nostre orecchie. Perchè, fino a prova contraria, è la natura che dà da mangiare a noi che ne siamo i figli.

Non sarebbe male rispolverare la memoria di una celebre storia dei Nativi Americani che narra del trasferimento culturale-pedagogico, dell'insegnamento di vita, di un vecchio Cherokee ai suoi nipoti. Il saggio raccontava di sentire in atto dentro di sè un'antico combattimento come tra due lupi di diverso carattere: uno impaurito, feroce, rabbioso, collerico, avido ed egoista, l'altro amorevole, compassionevole, generoso, empatico e gioioso. La stessa battaglia è in atto dentro a ciascuno di voi, disse, come è dentro ad ogni altra persona. "Chi vincerà tra i due lupi?", chiesero i giovanetti. "Quello a cui darai da mangiare", rispose.
Se vogliamo che la Natura, la nostra Madre Terra, continui a darci da mangiare, garantendoci sopravvivenza e ben-essere, dobbiamo aver cura di non isterilirla, preservandola e avendone cura come fosse il nostro corpo, questo stesso corpo fatto della stessa materia del nutrimento che ci affratella tutti. Diceva Edoardo Galeano che nessuno morirà di fame finchè nessuno morirà d'indigestione.

domenica 31 marzo 2013

En attendent le printemps


                                                EN ATTENDENT LE PRINTEMPS

Vado spiando i profumi
Tra l'azzurro e
i bagliori di lamiera,
tra i residui opachi
di immote pozze, certa
dello stupore di una primula
mentre il narciso si cela.

Acquerello


ACQUERELLO



Saltelli snelli di cince allegre.
Allegre ciance da caffetteria.
Improvvisi frulli.
Lieti trilli e
infaticabili grilli.
Lo sbattere ritmico dei panni stesi
ormai arresi
alla furia del mastello.
Vibrar di foglie.
Cicalecci alle soglie.
Sommesso rotolar di tuoni.
Inesausti calabroni.
Lépidi guizzi di sauri
tra ciottoli tiepidi.
Tessiture fini,
intrise d'acqua,
di aracnidi torpide.
Residui bagnati
di limacce torbide.
Un serico lepidottero ad ali distese
riposa
lontano da un cumulo fumigante,
timido.
Nel prato brulicante di vita
smaglianti ricacci
sovrastano
l'erba appassita e
si offrono al sole
tra viole odorose.

sabato 9 marzo 2013

FEMMINICIDIO (e dintorni)


Il femminicidio, fenomeno drammatico cui si assiste in maniera sempre più preoccupante e diffusa anche il Italia, è un omicidio di genere (di persona di genere femminile da parte di persona di genere maschile). Si concretizza nell'uccisione di persona di sesso femminile da parte di un partner o di un ex-partner. Rappresenta l' estrema conseguenza delle forme di violenza pregressa e reiterata nei confronti della donna vissuta come oggetto d'appartenenza da parte "del suo maschio proprietario" come lo ha definito Massimo Gramellini, dopo un costante lavorìo di erosione continua della sua dignità di persona attraverso il tentativo di negarne la piena espressione della personalità femminile.
Il femminicidio è un fenomeno diffuso nel mondo, ove più ove meno, e costituisce la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 70 anni. Tra i Paesi Europei è in consistente declino in Spagna dopo che, di recente, si è provveduto ad arginarlo in maniera opportuna, adeguata e sostanziale. Non così in Italia, dove le statistiche testimoniano che, al contrario, non si registra alcuna decrescita, ma anzi un sensibile aumento. Da noi è e resta una tragedia nazionale, dal momento che vi si registra almeno una vittima ogni due-tre giorni (parliamo di un totale di 137 nel corso del 2011 contro le 61 della Spagna). Una vera e propria piaga, di proporzioni così spropositate e indegne per un Paese civile, da aver indotto il Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU , riunitosi a Ginevra il 25/6/2012, ad intervenire con una precisa Dichiarazione nei confronti del nostro Paese.
Lo ha fatto stilando un documento in cui si dichiara che esso costituisce "un crimine di Stato tollerato dalle istituzioni pubbliche" proprio perchè vi ha ravvisato un preciso e diretto rapporto tra la violenza sulle donne e la complicità e le omissioni dello Stato che, nell'espressione delle sue Istituzioni e nel quadro di una politica perlopiù assente, non si dà abbastanza da fare per frenare la strage.
La recente legge sullo stalking, seppure quantomai opportuna e utile, non serve a prevenire e reprimere il fenomeno in oggetto; da sola non si è rivelata minimamente in grado di arginare la violenza domestica nè tantomeno di diminuire il numero di questo genere di omicidi.
In Italia dunque il problema resta grave. In quanto crimine di Stato tollerato dalle Istituzioni per la loro incapacità a prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne costrette a vivere durante l'arco della loro vita diverse forme di discriminazione e violenza, risolverlo è un obbligo internazionale.

Ciò che si invoca è una maggiore parità di genere, la prevenzione e protezione delle vittime e la punizione dei colpevoli.

Guardiamo brevemente alla statistica Istat del 2006 , vecchia quindi rispetto ai dati odierni ancor più sconfortanti, per tirare un po' di somme. Essa ci informa che: un terzo abbondante (31,9%) delle donne che vivono in Italia è stata costretta a subire violenza fisica e sessuale da parte di uomini, il 93% delle violenze è perpetrato da partner o ex partner. Risulta inoltre che il 35% delle vittime non denuncia, mentre solo il 13% chiede aiuto, spesso del tutto inutilmente, contro lo stalking.
L'incrocio di questi dati certifica per la prima volta la presenza di un fenomeno sociale, di una violenza endemica nei confronti delle donne come se fosse naturale, illegale ma legittima, che è anche strutturale. Esso merita di essere fattivamente arginato, e con urgenza. Il contesto sociale (culturale, giuridico, istituzionale e politico) non può pertanto continuare ad implicare la sostanziale impunità e la "normalizzazione" del fenomeno senza correre il rischio di legittimare vieppiù il femminicidio.

Circa le sue radici è stato detto molto. Esso non è frutto di incidenti isolati, non è l'epifenomeno di una accidentale quanto tragica conclusione, non è un drammatico incidente, è piuttosto l'ultimo atto di una serie di violenze continuative e di volta in volta crescenti, il più efferato.
Il femminicidio è la forma estrema d'una condotta violenta, che attiene a profonde motivazioni culturali e a modelli di rapporto tra i generi, utilizzata quale comportamento abituale perpetrato contro (l'animale umano) femmina che pone irrimediabilmente fine ad una sequenza di violenze continuative nel tempo.
Come recita uno slogan, c'è da dire che "violence is not always visible". Non sempre lascia lividi o altri segni fisici chiari e univoci, perlomeno non da subito. Spesso essa si configura dapprincipio come violenza, oltre e prima che fisica, anche morale, psicologica, economica e/o sessuale, fondata sul ricatto e la vessazione e come tale può perpetrarsi per un tempo anche lungo. Questo tipo di prevaricazione continuativa tiene soggiogati mediante la paura. E' una modalità utilizzata dal maschio per riappropriarsi di un ruolo al quale sono connessi privilegi, un ruolo socialmente dominante. La violenza diventa così uno strumento usato contro la donna che non vuole riconoscere questo potere, legato ad una gerarchia di rapporti così come era nel passato, nel momento in cui essa rifiuta la sudditanza. Poco o punto apprezzabile all'esterno, essa si svolge entro le mura domestiche, solo nel chiuso e nella privatezza di un rapporto a due.
Di solito nessuna vittima reagisce alle prime avvisaglie di un comportamento violento con comportamenti di fuga, allontanamento o ribellione, è portata piuttosto a perdonarlo o comunque a trascurarlo, confidando che non si presenti più. Ogni volta spera che sia l'ultima. Spera e aspetta. Finisce col sentirsi isolata, colpevole di aver reiteratamente trascurato i segnali per quanto forti e chiari, colpevole di non essersi ribellata e difesa prima. Teme possibili critiche sociali, intimamente si rimprovera la propria dabbenaggine e tantopiù col passare del tempo finisce col temere l'incredulità altrui di fronte alla "versione di Barney". La sua inazione diventa sempre più colpevole.
La sua imbarazzata e imbarazzante paralisi si nutre della "sindrome da crocerossina", di un istinto di maternage, di quell' imperativo categorico che suggerisce "io ti salverò" prima di un più salutare "io mi salverò" e può crescere se c'è di mezzo un figlio. Si tratta di una sommessa voce demoniaca che suggerisce di avere fiducia un'altra volta ancora e ancora, un'incosciente presunzione che ti convince che l'amore può avere effetti taumaturgici anche sul peggiore dei tuoi carnefici. Scrive Dacia Maraini nel suo -L'amore rubato-: "spesso tra carnefice e vittima si stabilisce un rapporto di complicità, anche se involontaria. La vittima vuole proteggere il suo aguzzino per liberarsi dai sensi di colpa, ..colpa di avere accettato la prima, la più subdola e inaspettata delle violenze. Da quel momento la distinzione fra i due si fa sottile e ambigua. La vittima diventa sempre più vittima, il carnefice sempre più carnefice in un gioco perverso che si avvita su se stesso. Questo succede... quando il carnefice è una persona che ci è familiare: la persona che abbiamo amato, di cui ci siamo fidati e che ci si è rivoltata contro." Dopo che si è speso un patrimonio sentimentale, e a volte neanche solo quello, ci si ritrova poveri, anche poveri di spirito, increduli e svuotati di ogni risorsa, anche della forza per difendersi. E' allora che dovrebbe sostenerti qualcuno e qualcosa dall'esterno, una diversa cultura, meglio orientata a riconoscere i segni, più protettiva e accogliente, più decisa nel segnalare vie di fuga, che non si nutra degli stessi stereotipi sessisti di cui la violenza di genere si alimenta. E' allora che c'è bisogno di misure istituzionali tese a promuovere uno status di garanzie alle persone offese che ne rispetti la soggettività femminile. E' allora che si verifica l'esigenza di misure volte a proteggere la vittima dagli abusi, fin dai suoi primi rapporti con quei soggetti (forze dell' ordine, strutture sanitarie,..) cui per primi la donna si rivolge nel tentativo di chiedere aiuto e a difnderla con norme di carattere repressivo attraverso modifiche alla disciplina penale (ad es. l'aggravante per stalking). Insomma, ciò che si rende necessario è una risposta strutturale e non emergenziale delegata soltanto per esempio alla legislazione penale.

In un Paese come il nostro dove fine a 30 anni fa al "maschio proprietario" era lecito l'uso delle botte quale mezzo per correggere il comportamento delle donne e dove era lecito il delitto d'onore, ancora pesa lo strascico culturale di un'impronta maschilista. Troppo spesso gli stereotipi e i pregiudizi, ancora sottesi in tradizioni, istituti, ruoli e realtà sociali attuali, trovano la donna in molti casi ancora incapace di quella lucida consapevolezza che la condurrebbe a percepirsi nel suo ruolo di vittima quando questo fosse. Soggiogata il più delle volte anche da una maggiore fragilità psicologica che la mantiene passiva, oltremodo indulgente e tollerante, incline a sopportazione e oblatività come caratteristiche materne e quindi confacenti con il suo ruolo di donna, soggiogata troppo spesso da una sudditanza economica e da condizionamenti e attitudini culturali ancora troppo largamente diffuse, quando non possa contare sull'efficienza di una rete istituzionale sufficientemente sistemica e coordinata che la protegga e la difenda, è destinata a non sapersi e a non potersi difendere. Fino a che gli omicidi di genere, il femminicidio nella fattispecie, manterranno le attuali proporzioni e non verranno riconosciuti come quel fenomeno che Amartya Sen ha definito "genocidio nascosto", fino a che continueranno ad essere più o meno sottaciuti quando non accettati, tollerati o giustificati, essi non si esauriranno, nè cominceranno mai a segnare una significativa flessione.

Per fermare il femminicidio c'è bisogno delle "4 P" : prevent, promote, punish, protect.
Serve un piano nazionale contro la violenza.

C'è bisogno di comprendere la necessità inderogabile di una profonda operazione di trasformazione a favore di una cultura di uguaglianza che rimuova i falsi stereotipi, le false rappresentazioni dei rapporti fra i generi e tutte quelle cause di discriminazione nella vita sociale che legittimano l'idea che l'uomo ha più valore della donna; che promuova finalmente la parità di genere e dunque il rispetto, anche attraverso un'educazione sentimentale e sessuale oltre che una nuova stagione iconografica (TV in primis) che valorizzi e non mercifichi la donna e il suo corpo. Finchè la società resterà maschilista, la predominanza del sesso maschile su quello femminile sarà legittimata.
C'è bisogno di azioni sul piano politico, operativo, giuridico e amministrativo che si integrino fra loro in un approccio olistico per la rimozione delle cause strutturali di discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne. C'è bisogno di una maggiore attenzione (e sanzione) alle violazioni a tutti quei Diritti fondamentali (al lavoro, alla salute, a una vita libera dalla violenza, ad una adeguata e più paritaria retribuzione, alla tutela della maternità, al rafforzamento della previdenza sociale, ecc..) che sono necessari ad una vita dignitosa e autonoma non necessariamente satellitare nei confronti di un partner privilegiato e dominante.
C'è infine bisogno di un protocollo di azione di respiro europeo, ovvero internazionale, di una guida standard di prevenzione, di indagine e operatività, che renda sinergicamente coerente, ma anche più agevole e snello l'intervento delle Istituzioni chiamate, seppure a diverso titolo, a intervenire nella valutazione del rischio e nella protezione e tutela delle donne vittime di violenze e quindi in pericolo di vita.
Sarbbe auspicabile che divenissero tabù lo schiaffo e ogni parola o azione di umiliazione e scherno, e che l'impunità smettesse di costituire la norma.
E' importante che per prime le donne riconoscano i propri diritti fondamentali e comprendano la necessità di preservare la dignità essendo essa, come diceva Hanna Arendt, il diritto ad avere diritti e che si adoperino per richiederne a gran voce l'osservanza da parte delle istituzioni chiamate a fronteggiarne di conseguenza anche le violazioni.
Vorrei che non fosse vero che "le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive dappertutto", vorrei almeno che in Paradiso non ci finissero prima del tempo, per una morte gratuitamente violenta.
Per tutto questo appare necessario e urgente dare al più presto una risposta istituzionale alla dichiarazione dell'ONU.

sabato 19 gennaio 2013

Siamo tutti Robinson Crusoe

Siamo tutti attratti dal viaggio, alla ricerca di un'isola, in qualche punto negli sconfinati Oceani. I meno intraprendenti tra noi hanno bisogno di un fattore accidentale, propulsivo per intraprendere il proprio viaggio esplorativo. Talvolta hanno bisogno di situazioni estremamente destabilizzanti come un naufragio, un qualunque naufragio anche metaforico che li catapulti in un altrove circoscritto dove mettersi alla prova: è una nuova nascita.
Per Robinson Crusoe, il personaggio emblematico del romanzo di Daniel Defoe, pubblicato per la prima volta nel 1719 e letto da un vasto pubblico fino ad oggi, fu proprio così.
Sbarcato fortunosamente su di un'isola che sembrava deserta, si industrierà a sopravvivere contando sulle sue proprie forze e sul proprio ingegno, ripercorrendo tutte le fasi dell'adattamento umano, dalla fabbricazione degli utensili, all'addomesticamento degli animali, alla coltivazione della terra, alla ricerca della spiritualità, per 28 lunghi anni.
La diffusione e l'apprezzamento di quest'opera non sono mai venuti meno perchè, con tutta evidenza, un po' come accade nella mitologia cosmogonica, nelle pagine di questo romanzo anche il lettore moderno può ritrovarvi tutti gli elementi che simboleggiano la nascita ed il percorso di crescita fino al raggiungimento di un'armoniosa adultità. Il protagonista del romanzo, passando attraverso le difficoltà del travaglio e dell'abbandono dell'acqua intesa come Grande Madre, come elemento amniotico agli albori della genesi umana, come fonte battesimale in cui immergersi anima e corpo, come inconscio e caotico magma, ci accompagnerà attraverso un lungo e non sempre facile percorso di crescita, fino alla sua ri-nascita. Nella sua esperienza sull'isola, attraverso il superamento di ogni tipo di difficoltà in perfetta autonomia e solitudine esistenziale, ci illustra la tribolata ricerca per una precisa definizione della mappatura dell' Io, fino all'individuazione del proprio profilo e del senso della propria identità.
L'avventura di Crusoe prende inizio con la sua separazione dal padre, del quale ha ignorato il consiglio a non abbandonare un'agiata e più prudente vita borghese. Salperà in nave, avventurandosi nel mare, in quel possente organismo, immenso, pressocchè infinito che, nel suo essere impetuoso, ambiguo, enigmatico, cangiante, suadente, riposante, ma anche potenzialmente distruttivo, è metafora della nostra matrice nonchè della nostra vita interiore ricca di ogni potenzialità ancorchè sconosciuta, nell'intento di sfuggire all'inspiegabilità del mondo, alla sua fossile geologia, alla sua razionalità.
In mare dunque inizia il suo viaggio che diviene sfida, bisogno d'avventura, desiderio di libertà, prova di conoscenza, ricerca del nuovo, superamento degli ostacoli, evasione, ma anche adattamento, prova e verifica delle proprie esperienze, misura delle proprie capacità di sopportare fatica e sforzo necessari per conquistare e farsi conquistare, alla ricerca dell'entusiasmo (en-theòs, dio dentro), di quella matrice spirituale che, a saperla invocare, talvolta percepiamo in noi come anelito cui tendere fatto della stessa sostanza immateriale dei sogni. Il viaggiatore muove verso un territorio del desiderio (de-sidera, (essere lontani) dalle stelle) dove lo aspettano nuovi orizzonti, verso un luogo-altro, incoraggiato da curiosità e speranze, alla ricerca del proprio spazio interiore, della propria anima, spinto da un'autentica vocazione a conoscere se stesso. In speranzosa attesa confida, come i desiderantes nel De Bello Gallico, che i compagni soldati, reduci dalla battaglia, possano fare ritorno.
Il viaggiatore, sballottato dal caos della tempesta nei momenti drammatici del suo naufragio, farà dunque approdo in un' isola sconosciuta e remota cui lui stesso darà il nome di Isola della Disperazione. Eppure, qui giunto, non sarà mai preda del sentimento che ne caratterizza il nome, e potrà anzi iniziarvi il suo cammino verso una personale redenzione. Si dispiace, questo è vero, della mancanza di una pipa, con cui poter fumare il tabacco di cui l'isola è ricca, come pure si dispiace della mancanza di compagnia, almeno fintantochè non vi troverà Venerdì, cannibale redento salvato alla furia giustizialista dei suoi stessi simili, sorta di presenza umbratile e servizievole alter-ego. Ammette sovente la propria stanchezza e lamenta la monotonia delle prime fatiche quotidianamente sempre uguali. Anche dopo che diverrà consapevole della presenza di tribù ostili e potenzialmente pericolose in quanto antropofaghe (si allude forse alla minaccia cannibalica del simile che ingloba il simile, alle tentazioni come parti cattive di sè che non si vogliono introiettare?), reagisce senza mai abbandonarsi all'inerzia. Si proteggerà con un fortino, fino a sconfiggerli, senza mai giungere alla disperazione. In generale misconosce la noia e ripudia gli eccessi, come quando gli càpita di trovare tre grossi barili di rhum e dimostra di saperli amministrare centellinandoli e facendoseli bastare fino alla fine. Non si abbandona mai ad idee suicide o di massimo scoramento che pure avrebbero potuto maturare in lui se non fosse che sempre sa reagire alla paura, al dolore, alla noia e alla dipendenza da certe comode abitudini, con coraggio e determinazione. Anche se non smette mai di sognare la fuga, ben presto arriva a godere nel sentirsi, dopotutto, padrone dell'isola. Il resto del mondo diviene progressivamente cosa sempre più lontana, da cui nulla deve attendersi, e con cui, nulla avendo a che fare, verosimilmente nulla più avrà a che fare, giudicando perciò inutile struggersi nella nostalgia. Sembra conoscere il cammino verso la saggezza, la soterìa, la salvezza del viaggio di Amore, a partire da sè, ma non per sè.
Accettare la finitezza dell'isola, i suoi confini e le sue risorse, è il segreto del suo relativo benessere anche nella condizione di naufrago privato di ogni passata comodità. Il segreto della sua sopravvivenza nella solitudine consiste nel suo saper accettare il limite. Il soggiorno nel selvaggio approdo viene da lui considerato come conseguenza della propria imprudenza e non già della propria impudenza. Riconosce il proprio spirito d'avventura come anelito di libertà e autonomia e come causa del cambiamento; non ravvisa in sè nessuna hybris sentendo quindi, in certo qual modo, di stare pagando un giusto prezzo che nulla toglie alla sua attuale possibilità di adattamento e godimento futuro. Invoca il sostegno della Provvidenza, ma non tiene mai le mani in grembo nell'attesa d'una catarsi o di un prodigio. Si dà da fare con le sue proprie mani adoperandosi con tutto l' ingegno di cui dispone e, nella piacevolezza dell'operosità quotidiana, si riconosce artefice della sua propria sorte. Motore egli stesso del suo viaggio, spinto dal desiderio di conoscere e di conoscersi, si è reso libero di approdare verso nuovi orizzonti. Nel quarto di secolo della sua permanenza, Robinson prepara in verità anche il proprio ritorno a casa e, con esso, il futuro matrimonio, la soddisfazione della prole che non gli mancherà, fino alla ripartenza dopo la morte della moglie, ancora una volta verso l'isola.

In questo senso, ciascuno di noi è Robinson, chiamato a misurarsi nel mare sconfinato delle conoscenze e delle opportunità fino a trovare se stesso nell'isola del proprio io. E' è solo così, attraverso il viaggio di esplorazione nella propria isola esistenziale, svezzandosi dalle eccessive comodità e dalle sovrastrutture dalla separazione all' individuazione, che ciascuno sarà poi pronto a confrontarsi con l'Altro attraverso Eros, un amore maturo che sappia cosa offrire di sè, e cosa chiedere all'Altro-da-sè, che abbia cognizione di chi si è nella propria individualità e di chi è l'Altro.
Il soggiorno presso l'isola si rivela pertanto un'esplorazione in un luogo metastorico in cui l'assenza dei conflitti umani e della complessità di un mondo da cui si sono prese le distanze, accoglie l'utopia di un esilio paradisiaco di autoesclusione, finalizzata a sottrarsi all'invadenza di una vita concreta e alle sue sempre urgenti e rissose impellenze storiche: uno spazio nuovo, di abitudini sobrie, essenziali, e per questo di più libero movimento, senza lacci e lacciuoli, senza altri padroni che se stessi. Ma è un soggiorno che, in totale assenza dell'incontro con l'altro, con il diverso, tornerebbe ad essere deludente e insostenibile. Rischierebbe di rivelarsi un' esperienza narcisistica negativa, destinata soltanto a farlo ritornare alla Madre anzichè in Patria, come quella di Narciso che, dando amore solo a se stesso, non avendo portato a compimento il suo ciclo vitale, è destinato ad un viaggio senza ritorno, dall'acqua all'acqua, per annegamento, in un fatale ricongiungimento mortifero. Un' esperienza narcisistica positiva invece, ove l'acqua abbia funzione di specchio capace di far riconoscere oltre alla bellezza e consapevolezza di sè, anche la bellezza dell'esistente ivi compreso l'Altro, consente e il viaggio, e il ritorno, e altre successive ripartenze.

Il tema metaforico è quello stesso che nei secoli riappare di frequente. Penso all'epica di Omero che ci narra delle vicende di Ulisse (Odisseo) con tutte le sue distrazioni adolescenziali (le prove di autonomia, le infatuazioni) ed i momenti regressivi talassali (i reiterati viaggi per mare con i relativi inciampi). Penso cioè, per esempio, alla consapevole paura che l'Eroe prova in mezzo all'immensa distesa d'acqua nei confronti del canto delle sirene come metafora della seduzione, del potere ipnotico e paralizzante della voce materna, amata prosodia udibile fin dal principio nell'ambiente uterino liquido, amniotico paradiso perduto, beatitudine oceanica, regno dell'indifferenziazione da cui tutto trae origine. E' noto a tutti che il signor Nessuno (Odisseo), solo dopo un lungo e tribolato viaggio durato 20 anni può far ritorno a casa, riconciliandosi finalmente con i suoi affetti adulti e, sbaragliati i contendenti (i Proci), ricominciare a sentirsi Qualcuno. Il suo cambiamento è un cambiamento interiore. Quantunque sia invecchiato entrando nella piena maturità, viene infatti riconosciuto, con stupore forse, ma senza alcuna esitazione, dalla nutrice che lo vide piccolo e dal suo fedele cane Argo.

Penso inoltre a due esempi di narrazione nella più recente produzione cinematografica. Mi riferisco, per quanto concerne quest'ultima, a pellicole quali: "Travolti da un'insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" della regista Lina Werthmuller, e "Cast away" nell'interpretazione magistrale di Tom Hanks. In entrambi i film troviamo elementi comuni, il naufragio e l'isola con la sua natura aspra e incontaminata: paradigmi analoghi, ma con epiloghi diversi.
Nella narrazione della vicenda citata per prima, vediamo la compianta Mariangela Melato nei panni di Raffaella, una sofisticata, riottosa milanese, agiatissima donna di mondo, poco simpatica fin dall'inizio anche a causa della sua erre blesa, assieme ad un giovane Giancarlo Giannini nei panni del giovane mozzo di origini siciliane al suo servizio nello yacht da nababbi di lei. I due finiscono naufraghi tra le sabbie dorate del loro approdo di fortuna circondato dal mare e, qui, Cupido scocca le sue frecce facendo ribaltare la situazione. Una volta dismessi gli scomodi panni di umile e rozzo sottoposto schernito e dileggiato fintantochè era a bordo, lui diviene finalmente il suo ardente amante di lei appassionata succube proprio a causa d'un insolito destino che, sull'isola, ne ribalterà i ruoli. Anche lei dunque sembra corrisponderlo con passione subendo con piacere il trattamento, esilarante in verità perchè vendicativo e machista, corrispondente all'immagine pregiudizievole del maschio siciliano. Tutto ciò in un crescendo di passione e di intesa finchè lui la convince a ritornare alla civiltà e alla vecchia routine, per metterla alla prova, verificando se davvero lei voglia ripartire convintamente, per scelta questa volta, insieme a lui sull'isola.
Ma ecco che Raffaella, alla prova dei fatti, diserta l'appuntamento per la ripartenza e lo lascia sul molo solo e disperato, sotto un'implacabile canicola. In concreto, il sogno di fare ritorno nel paradiso perduto, non è un sogno, semmai lo è stato, condiviso e condivisibile.
La scena finale è una zoomata di allontanamento che vede il semplice marinaio Gennarino, inutilmente vestito a festa, rimanere ad imprecare nel suo coloritissimo idioma nel mentre lei si alza in volo comodamente seduta in elicottero a fianco del marito.
Nel secondo film che ho citato, il protagonista Chuck Noland, in un'isoletta spersa nel Pacifico, sopravvive servendosi all'inizio dei relitti che il mare gli restituisce: i pacchi della Fedex, compagnia di spedizione per cui lavorava. Un pallone da calcio dipinto col proprio sangue in maniera che sembri un volto umano ed un piccolo ciondolo con la foto della fidanzata deposto su una sorta di altarino nel fondo della grotta in cui ripara sono i suoi unici interlocutori muti, e gli alleviano la solitudine come oggetti transizionali dal potere soterico. Dopo anni e anni di permanenza, viene raccolto finalmente da una nave di passaggio e può fare ritorno al luogo da cui era partito. Niente qui è rimasto come l'aveva lasciato. Anche lui non è più lo stesso. Quella che gli era fidanzata gli manifesta ancora amore, ma ora è sposata e ha una figlia. Gli assalti dei media e dei curiosi ben presto lo rendono frastornato. Così lo vediamo prendere le distanze da quel mondo caotico e ciarliero. Si rimette in viaggio, questa volta in automobile. Porta con sè un pacco, il trait-d'union con la sua vita solitaria, che negli anni ha voluto preservare unico tra tutti ancora imballato, per la consegna seppure tardiva alla legittima destinataria. Lei è assente, quindi, arrivato a destinazione, deposita l'involto sull'uscio della casa di lei congiuntamente ad una nota di ringraziamento (!). Quindi procede finchè non si trova ad un crocevia, sperduto nella vastità della campagna texana. Fatalità, qui incontra proprio la destinataria che cercava e approfitta, in mezzo a tanta desolazione, per chiederle delucidazioni circa il dove ciascuna delle tre diverse strade conduca. Una, gli viene detto, congiunge con la statale, un'altra è una strada che "porta al niente fino al Canada", la terza è quella da cui è venuto e che conduce alla casa di lei. Si congeda sorridendo enigmatico nel mentre sembra tentennare, indeciso sulla direzione da prendere. Intanto fissa, rapito e sorridente, il retro del furgone di lei che si allontana su cui campeggia, quasi ammiccante, il logo della ben nota ditta di spedizioni Fedex con lo stesso paio di ali stampigliate sull'involto sdrucito del pacco.
Da questo momento in avanti possiamo immaginare che possa solo andare avanti e procedere verso una vita che non sarà più come era.