sabato 15 novembre 2014

Mariarosa, la bambina mutacica, che in classe parlò soltanto a 10 anni dando voce al lupo. (continua dal precedente articolo sul mutismo selettivo)

Mariarosa in quinta elementare era una bambina grande, la più alta della classe. Sempre ostinatamente taciturna, non aveva mai fatto sentire la sua voce nè in classe, nè al cospetto dei genitori. Di sicuro, però, non era muta. Sua madre infatti garantì che era solita parlare, da sempre, solo quando andava a rinchiudersi nel pollaio della loro sgangherata casa di campagna, certa di avere come uditorio e come interlocutori muti, le sue galline.  Curioso come, in quel contesto, si verificasse un' anomalia: i pennuti diventavano umani, bravi ascoltatori e capaci, si presume, di risposte cui la stessa bambina dava voce, e la bambina una di loro, in grado di comprendere e farsi comprendere. Lì, con quegli animali chioccianti, ella si confidava e intesseva lunghi dialoghi articolati.  Se sua madre voleva sentirne la voce era pertanto costretta a spiarla, standosene ben nascosta fuori dal pollaio.
 Alle sue insegnanti non fu possibile inviarla ai Servizi socio-psico-pedagogici. I genitori, e segnatamente il padre, erano perennemente latitanti e comunque non favorevoli ad alcun invio. Costoro erano agricoltori, poveri di mezzi e di strumenti culturali, preferivano starsene alla larga dalle Istituzioni e da quelle figure professionali di cui sostanzialmente diffidavano. A me, consulente psicologa interpellata dalla scuola a fornire quantomeno qualche opportuna indicazione al corpo insegnante, venne riferito che il padre correva voce fosse un noto etilista, persona rozza e inavvicinabile, probabilmente lontano dall' avere un buon carattere, si riteneva condannasse la  moglie,  persona peraltro schiva e remissiva, ad una condizione di sottomissione poco felice e senza scampo, indaffarata com'era a proteggere e prendersi cura dell'unica figlia.
La sola cosa che si rese possibile a quei tempi per questa bambina mutacica fu una consulenza indiretta alle insegnanti titolari che, fin dal primo anno, l'avevano molto a cuore.
Mariarosa era una bambina seria, poco o affatto incline al sorriso. Ma a scuola ci andava volentieri e, seppure mantenendo prudenziali distanze, partecipava alla vita di classe con interesse.
Sembrava vivificarsi particolarmente quando assisteva al teatrino delle marionette  con cui talvolta i compagni di classe giocavano, spesso sotto la supervisione o dietro lo stimolo dell'insegnante titolare. Quei pupazzetti di plastica molle e colorata entro la cui testa si doveva infilare la mano, prendevano allora vita ad opera delle estemporanee invenzioni dei  suoi coetanei di classe che, di quando in quando, inscenavano movimentati dialoghi, alterchi o zuffe tra i vari personaggi prestando loro la propria voce.
In particolare era attratta da quelli che raffiguravano animali e, tra questi, più di tutti la affascinava il lupo.  Fino a quel momento Mariarosa era stata un'osservatrice passiva anche del teatro dei burattini. Spontaneamente non avrebbe mai osato infilarsene uno nella mano per animarlo e farlo partecipare a qualche scena.  Di comune accordo si decise pertanto di intervenire su di lei in maniera indiretta, esercitando una qualche pressione sull' inequivocabile, forte desiderio che si intuiva Mariarosa avesse di inserirsi in quel gioco che letteralmente la rapiva e calamitava quella sua attenzione quasi estatica. Sarebbe stato inopportuno e controproducende, infatti, invitarla verbalmente a prendervi parte attiva collaborando coi compagni, la sua risposta sarebbe stata di diniego o di allontanamento. La maestra avrebbe dovuto tentare una sollecitazione d'altro tipo, più discreta e, speravamo, finalmente catartica.  Nei confronti di quel gioco  era  come se  provasse terrore e fascinazione nel contempo, un sentimento ambivalente e conflittuale, tipicamente nevrotico, per cui un invito diretto  a  parlare attraverso uno o l'altro dei personaggi in scena avrebbe provocato  di certo un  diniego e  un' allontanamento. Si concordò pertanto che la maestra agisse  un qualche incoraggiamento,  al di là delle parole, con il solo gesto di "vestire" la mano dominante di Mariarosa  con quella marionetta che sembrava esercitare in lei, silenziosa spettatrice, la più grande attrattiva. Si pensò in questo modo di interrompere la consuetudine di "trascurare" Mariarosa rafforzando quel comune pregiudizio che obbligava tutti, da anni ormai, a fare come se la bambina, tanto, non si sarebbe lasciata implicare nella performance teatrale, rifiutando una volta di più di lasciarsi implicare e restandosene muta e inoperosa. Si progettò di intervenire con un invito gestuale, silenzioso, in qualche modo nuovo, e si sperava che proprio quel genere di subitanea, muta ma autorevole profferta avrebbe potuto rivelarsi spiazzante se fosse giunta proprio quando  ci si fosse accorti che il suo corpo fremeva di più nel malcelato desiderio di entrare attivamente nel gioco.
E fu così che, in maniera subitanea e irriflessiva, Mariarosa "divennne" il lupo.  In un  solo istante, dopo l'intervento rapido e silenzioso della sua insegnante che rivestì la mano della bambina, quella si animò  ed il lupo che la ricopriva esordì a parlare con una potente bestemmia, la più usuale nella campagna Veneta, tirando fuori un vocione stentoreo, tonante,  grave  come la voce di un maschio umano minaccioso che, sulle prime, atterrì i compagni. Dopo pochi attimi però, esauritasi la performance "del lupo" choccante per almeno due aspetti, l'intera classe, vociante di giubilo e di esplosivo entusiasmo al grido di "Mariarosa ha parlato, Mariarosa parla, brava Mariarosa!", si fece  intorno alla manovratrice di quello spaventevole animale  coprendola di baci. La commozione insomma fu grande e, naturalmente,  la mancanza di buone maniere, l'irriverenza blasfema e il linguaggio scurrile del lupo passarono pressocché inosservati, lasciando il posto ad una totale indulgenza  della maestra che con altri alunni e in altre occasioni  non ci sarebbe davvero mai stata.
Da quel momento, in quella classe, divenne usuale sentire tra le altre anche la voce di quella bambina ex-mutacica. Va detto inoltre che, dopo di allora, non venne mai più sentita bestemmiare nemmeno per interposto personaggio.

mercoledì 22 ottobre 2014

Human therapy o pet therapy? Un caso di mutismo selettivo

Eminéé, Marianna e Tobia
Strana storia, questa: ci sono bambini che non parlano pur potendo parlare. Non sono molti, uno su mille, dicono le statistiche. All'esordio delle loro vite avevano appreso il linguaggio parlato e vi si cimentavano, si esprimevano con le parole per i primi due, tre oppure cinque o sei anni, poi non più, come fossero diventati muti. Molti di loro conservano la possibilità di parlare in un determinato ambiente, per solito in famiglia, ma altrove, all'esterno, a scuola, non più. Questo disturbo, detto anche mutacismo, mutacismo elettivo d'ambiente, afasia volontaria, non deve essere scambiato con un sintomo autistico, nè con la schizofrenia, nè con il ritardo mentale. Esso corrisponde piuttosto ad un disturbo d'ansia in soggetti che non sanno far fronte in altro modo ad emozioni per loro troppo forti. Poichè l'ansia è strettamente correlata all'aggressività essendone il precursore, come una sorta di campanello d'allarme che suona prima di una delle due possibili risposte aggressive di fuga o di attacco, è chiaro che sottenda altresì una mancata risposta sanamente aggressiva sostituita da una forma di protesta prudente e scoraggiata, quasi un ritiro, una sospensione pervasa dalla paura, in cui si ravvisa l'analogia con la paralisi del ragno che per sfuggire alla minaccia  si finge morto per meglio passare inosservato.
Ricordo il caso di un bambino di 8 anni, L., di cui mi occupai nel passato, per un tempo breve e con successo. Credo lo si possa considerare emblematico e sufficientemente esplicativo.
Lavoravo come psicologa e psicoterapeuta in un Servizio Pubblico per l'età evolutiva, quando fui chiamata ad occuparmi di un bambino mutacico, già segnalato dalla scuola.  Subentravo ad un collega che a quel bambino si era dedicato nei precedenti due anni senza essere mai riuscito a sentirne la voce. A casa, diceva la mamma, parlava normalmente anche con i suoi tre fratelli di poco maggiori, ma a scuola mai, fin dal suo primo giorno. Mi era stato descritto come minuto ed estremamente timido. Il collega ricordava ancora la rigidità impaurita con cui questo bimbetto sedeva per tutto il tempo su una seggiolina di scuola media (era quella di cui disponevamo per gli utenti, un po' bassina per noi adulti, un po' troppo alta per bambini piccoli come lui, destinati a rimanervi appollaiati con le gambine penzoloni chè i piedini non riuscivano a toccare terra). Ricordava fin troppo bene anche il "primo colloquio", in verità il suo soliloquio di terapeuta, e tutti i successivi ai quali il bambino a modo suo rispondeva non rifiutandosi mai, tuttavia, di disegnare, scrivere o impegnarsi in giochi a tavolino. Nel corso di quel primo colloquio mi raccontò che ebbe ad accorgersi del suono dello sgocciolìo sempre più intenso e rapido della pipì che questo bambino si era lasciato scappare dai pantaloni arrossendo intensamente per la vergogna.
Quando feci la sua conoscenza L. aveva poco più di 8 anni, effettivamente minuto, pallido e magrolino, in quei giorni di inizio autunno vestiva un paio di anacronistici pantaloni corti di lana e una camiciola succinta, sulla testolina rasata come un militare di leva calzava un curioso berretto da ciclista col frontino corto, in pelle, che gli lasciava scoperte le vistose orecchie non proprio piccole e assolutamente a sventola. Mi ricordava un bambino come ce n'erano tanti negli anni '50, gli anni della mia, non della sua, infanzia. Sentivo freddo per lui. La sua mamma, mite e affettuosa, ci lasciò ben presto soli, doveva occuparsi del maggiore dei suoi figli andandolo a recuperare dalla lezione di violino. Accadde ancora: il suono inequivocabile del rivolo di pipì che gocciolava dalla sua sedia mi avvisò troppo tardi che aveva un'urgenza. Feci del mio meglio per non farlo sentire imbarazzato e gli spiegai che non avevo intenzione di invitarlo ancora visto il disagio che la visita gli procurava, gli spiegai che non era obbligato a parlare nè da me, nè a scuola, tutti sapevano che era in grado di parlare; gli strappai un sorriso quando gli ricordai le parole della sua mamma quando poco prima mi faceva presente che a casa parlava eccome, anzi, fosse stato un po' più zitto. Se non gli riusciva di parlare fuori dalle mura domestiche, nessuno avrebbe avuto nulla in contrario, vista la sua buona intelligenza e il buon profitto come studente.  Sapevo, sapevamo tutti, che aveva altri modi per farsi intendere al di là delle parole, e anche in classe non sarebbe stato strettamente necessario. Ipotizzai che la cosa potesse risultargli  scomoda soprattutto a scuola dove, se non avesse taciuto sempre, avrebbe potuto dimostrare meglio il suo pensiero, le  sue emozioni e le sue capacità, ma aggiunsi che potevo immaginare anche che, quando si ha paura di mettersi in mostra o di misurarsi con i compagni o di fare una brutta figura, tacere è una difesa spontanea spesso efficace. Mi dicesse lui stesso se aveva intenzione di provare a vincere questa sua conflittualità, a lui solo spettava scegliere liberamente se avrebbe avuto voglia di tornare a trovarmi, dopotutto bastava un cenno col capo, di assenso o di diniego.
Alla terza seduta accadde qualcosa di imprevisto. Era l'immediato pomeriggio di un giorno in cui, disponendo io come sempre di una sola mezzora per la pausa pranzo, decisi di rinunciare alla pausa mangereccia per rispondere al canto delle sirene che un bigliettino nella bacheca del sottostante negozio di animali esponeva. Un privato offriva quattro gattini di soli due mesi, figli di una gatta siamese e di un persiano, in una via parallela, non troppo lontana dallo studio. Non esitai e dì lì a poco, accortami che non avrei avuto il tempo, nè il cuore a dire il vero, di portare a casa la bestiola, nel riprendere servizio lo depositai all'interno della pesante scrivania chiusa su 3 lati sperando rimanesse in incognito fino a sera. Se ne stava lì, la mia piccola Eminéé, rincantucciata, immobile, muta e tremante sul freddo pavimento. Manco a farlo apposta, il primo appuntamento era con L. che mi sedeva dinanzi in una condizione d'animo non troppo diversa, supposi, da quella del povero animaletto appena strappato dalle cure amorevoli di mamma gatta e dai vivaci giochi coi tre fratelli. Perciò, da subito, rivolgendomi a lui a bassa voce nel metterlo a parte del mio segreto, gli confidai quale trasgressione avessi appena fatto; gli svelai che c'era una micetta molto molto spaventata sotto la scrivania che probabilmente si stava chiedendo dove fosse finito quello che era stato tutto il suo mondo fino a pochi minuti prima, dove fosse capitata, per quanto tempo avrebbe dovuto rimanere come paralizzata lì dove l'avevo messa e cosa le sarebbe successo in seguito. E fu allora che parlò: "anch'io ho una gatta a casa, sai? ma più grande, lei è adulta. Posso vederla? Sì, la tua è piccolina, ha proprio paura...". Non molto tempo dopo congedai L., certa che pur avendo preso a parlare anche a scuola, non avrebbe mai rivelato la mia scorrettezza professionale, figuriamoci, portare sul luogo di lavoro un animale domestico! Sarebbe rimasto il nostro segreto che né io nè lui avremmo rivelato ad anima viva.
Continua...