lunedì 21 novembre 2011

L'importanza del NOME


Il nome proprio: qualcosa di irrinunciabile che ci definisce e ci rappresenta, a meno che non venga sostituito, quando e se ciò possa accadere, da “mamma” e/o “papà”, da “nonno/a”, da “zio” o “zia”.
Solo in questi casi siamo costretti, e il più delle volte favorevolmente o persino orgogliosamente, ad abdicarvi.

Nomen omen, dicevano i Latini: nel nome il destino. Manganelli a capo della Polizia, Ortolani ad esibire un bel negozio di frutta e verdura, Gaia e Allegra inclini a presentarsi come soddisfatte della vita? Può darsi, come anche no, naturalmente.
Ma che succede quando nasci femmina e i tuoi ti mettono nome Jacopo o Loris? Sto pensando a Loris, una brava Neuropsichiatra infantile con cui ebbi occasione di lavorare, che finalmente, dopo anni di caparbia e incessante fatica, riuscì, non senza enormi difficoltà, a cambiarsi il nome nel più femminile Laura e, solo dopo di allora, riuscì a crearsi un legame stabile e a mettere al mondo un figlio ancorchè non più giovane.

E che succede se nasci in Sicilia, ti battezzano Cecilia (con un nome dolce, musicale, che evoca immediatamente una Santa, pregevole in quanto non consueto come il più diffuso Concetta), ma, fin dal primo giorno di vita, ti chiamano abitualmente Grazia o Graziella ? Che succede poi se facendoti studiare all'interno di un Collegio di Religiose, che ti prediligono tra tante bambine per la tua intelligenza e remissività fino quasi a viziarti, ti dovessi abituare ex-novo a sentirti chiamare con quel nome che peraltro ti appartiene ufficialmente, il TUO nome, per tutti i successivi cinque anni della scuola elementare? Sarebbe o no difficile dopo il congedo, una volta ritornata in famiglia, riabituarsi al più antico e familiare Grazia o Graziella ? Sarà casuale che la figlia unigenita di Cecilia-Graziella si chiami Cecilia?.
Come quest'esempio sembra testimoniare, siamo sicuri che non sia in qualche modo almeno un po' difficile fare i conti con due nomi diversi, uno ufficiale (per i documenti e la scuola e l'elenco telefonico) e quell'altro “familiare” relativo alle relazioni parentali o sociali ?

Conosco due Giuseppina, la più vecchia delle quali si è sempre riconosciuta come Beppina mentre la più giovane come Pinin. Ambedue, sicuramente, ne avessero avuto la possibilità, avrebbero volentieri cambiato il nome imposto loro all'anagrafe. Fin da subito lo avevano giudicato brutto. Ambedue dovendo esibire il nome ufficiale, confessano di provare una certa qual estraneità e sempre, in una qualche misura, disagio.
Conobbi anni or sono un' anziana Sig.ra Lola. Tutti, me compresa, la conoscevano come Lola anche se all'anagrafe risultava chiamarsi Maria da più di settantanni. Non utilizzò per se stessa altro nome che Lola nemmeno quando, giovanetta, prese parte all'attività partigiana; consapevole probabilmente che corrispondesse già, invero, ad un soprannome da usarsi, senza altra fantasia, quale nome di battaglia. Ella stessa non si riconosceva che con quello, utilizzando il proprio anagrafico nella sua versione ufficiale quasi esclusivamente per i documenti e per la firma.
So di una Adalgisa, chiamata familiarmente da sempre Ada, che un certo giorno della sua vita adulta - lavorava allora come cuoca presso una famiglia borghese della Romagna a cavallo tra gli anni '50 e '60-, lì per lì non si rese conto che quel messo postale, cui lei stessa aprì la porta, nel mentre chiedeva di poter conferire con la Sig.ra Adalgisa “Tal dei Tali” a servizio presso la famiglia in indirizzo, cercava di lei. In difficoltà, la mite Adalgisa rivolse a gran voce una sconcertata domanda ai datori di lavoro impegnati in una stanza attigua: “A so' propri mè l'Adalgisa?” (sono io la tale a questo nome?). Va detto che a quei tempi la donna maritata prendeva il cognome del marito anche sui documenti ufficiali e fu così che la poveretta fu in difficoltà a riconoscersi anche e persino nel proprio patronimico.

E a proposito di cognome, che dire di quelle Signore che ancor oggi affiancano loro sponte al proprio nome il cognome del marito laddove non sarebbe necessario né opportuno, quando cioè, ad esempio, si creano un profilo su un social network, o quando sottoscrivono un proprio articolo edito, magari, su un'importante giornale od un'importante rivista scientifica? Perchè lo fanno anche e proprio laddove servirebbe loro rendersi riconoscibili e “brillare orgogliosamente di luce propria” ?

Nel corso della mia pluridecennale pratica clinica mi è capitato di occuparmi di non pochi bambini, cui era stato assegnato il nome di un fratellino morto prematuramente. Non è infrequente che uno o l'altro dei genitori e più spesso la madre, o tutti e due concordemente, decida di chiudere una storia di dolore in qualche modo, facendo rivivere il morto attraverso l'assegnazione del suo nome a chi nascerà dopo.
Ma non è mai una scelta felice, non sortendo gli effetti sperati. Finisce invero con l'investire di insostenibili responsabilità il figlio che abbia ereditato il nome di chi non è più o, talvolta, non è mai stato altro che un feto. Il carico genitoriale di aspettative, di inconscio desiderio di riparazione di un immaginario frustrato (lenitive del dolore), peserà sul figlio che eredita il nome, come una costante e minacciosa condanna ad uniformarsi ad un indistinto od indistinguibile modello di riferimento; niente di più inutilmente faticoso e, alla lunga, destrutturante.
L'atto del nominare, infatti, pregno com'è di un pesante carico semantico, ivi compresi i fattori culturali e le operazioni mentali sottese, cataloga, ordina, assegna un'identità, fornisce una guida precisa nel lungo e faticoso processo di separazione-individuazione del Sé; in qualche misura consegna un'anima, di cui ogni “nominato” diviene inevitabilmente portatore a vita.
Lo ha ben spiegato Oscar Wilde nel suo “The importance of being Earnest” (tradotto impropriamente in italiano con “L'importanza di chiamarsi Ernesto”) laddove, giocando sull'assonanza tra “Ernest “(nome proprio maschile) ed “earnest” (aggettivo che significa serio, affidabile, onesto), esplica quale sia il portato emotivo, quando non esistenziale, in chi porta un nome piuttosto che un altro. Tant'è che la traduzione italiana “L'importanza di chiamarsi Franco” sarebbe stata più corretta e vicina agli intenti di Wilde, giacchè Franco è un nome maschile, certo, ma anche un aggettivo, sinonimo dell' “earnest” di cui sopra.
Sarà per questa ragione che segnatamente gli artisti sovente scelgono di sostituire il proprio nome con uno d'arte che meglio li rappresenti ? E' così che intendono presentificare una loro peculiare caratteristica? Sembra di sì. Sto pensando per esempio al musicista Marco Castoldi in arte Morgan che nella scelta ha probabilmente ammiccato a certe caratteristiche piratesche che gli si confanno o che ambirebbe gli venissero, scherzosamente ed indulgentemente, riconosciute.
I bravi cartoonist della fortunata serie “The Simpson” hanno scelto Homer come nome per il capofamiglia. Homer-Omero, come il più famoso poeta epico, serve ironicamente a designarne le esilaranti caratteristiche dell'anti-eroe. Il suo essere sfacciato, pigro, sfaticato, infantile ed edonista contribuisce a far dire a sua figlia Lisa, l'intellettuale, brava, unica ammirevole tra il gruppo familiare: “una persona che invidia la nostra famiglia è una persona che ha bisogno di aiuto”.

Esistono nomi, noti a tutti, che tuttavia non vengono mai assegnati a persone comuni. Sono nomi “intoccabili” che vivono nella storia, nel mito o nella finzione letteraria. Edipo, come Amleto in un certo senso, richiamano troppo da vicino certi tabù, certe oscure faccende su cui ha indagato la psicoanalisi, che non fanno e non faranno mai di questi nomi dei nomi “gettonati”. Edipo e Amleto restano emblemi della fantasia fanciullesca di uccidere il proprio padre al fine di possedere la propria madre. Tale fantasia, per quanto inconscia, necessita di essere tenuta prudenzialmente lontana, proprio perchè, lontana, non lo è poi molto.

Di sicuro è preferibile appropriarsi di un nome fittizio o supplementare piuttosto che trovarsi innominato o innominabile. Senza nome, figlio di N.N., fino a pochi anni or sono, rappresentava un'onta, un marchio infamante, ragione d'una comprensibile riluttanza ad esibire il documento d'identità, un'antinomia della ragione, quasi un ossimoro: un'identità senza identità.
Non per caso anche il destino dei non battezzati era, sino a pochissimo tempo fa, quello di finire al Limbo, una sorta di non-luogo affollato più d'un centro commerciale, destinato ai senza nome, esseri privi di un'identità ben definita destinati ad una Terra di Mezzo tra inferno e paradiso, tra redenzione e punizione, un luogo dove non si profila alcun tempo e alcuna geografia, men che mai quella dell'eternità, degno di chi non è, non è stato e non ha fatto in tempo nemmeno a credere di essere.
Il limbo mi sembra metafora di una condizione di smarrimento e precarietà, come di una vita che ha perduto il senso e che è mancante di orientamento, in cui era possibile riparare sospesi in una posizione di stallo, intermedia fra la beatitudine del paradiso e le atrocità dell'inferno, tra la soddisfazione d'un luminoso orizzonte raggiunto e il supplizio d'una punizione meritata per gli errori commessi.

Ecco allora che il nome concede la facoltà di essere anzitutto riconosciuti, ed anche di ESSERE tout-court, nel conoscere e tracciare, in autonomia, il proprio percorso di vita, dopo che siamo stati e ci siamo, nel bene e nel male, individuati.
Il nome proprio è per solito un distintivo inalienabile che proteggiamo gelosamente in quanto parte di noi che ci rappresenta. Non rinunciamo ad esso né al piacere di sentirlo usato per denominarci, se non in un caso, come si diceva all'inizio, quando, finiti nella schiera dei vari mamma, babbo o papà, zii o nonni, accettiamo di buon grado di “perdere l'identità del e nel nome”. Il riconoscimento ci deriva dal ruolo.
Qualcosa del genere immagino avvenisse per tutti quegli Artisti che, agli occhi dei praticanti di bottega come per il resto del mondo, diventavano solo, e senza dispiacersene affatto, “Maestro”.
Eppure qualche tempo fa, forse perlopiù negli anni '80, è invalsa la moda di trascurare siffatta consuetudine: giovanissimi figli si rivolgevano ai genitori chiamandoli col nome proprio, da pari a pari, senza differenza di ruolo, come si usa tra amici.
Nella pratica clinica mi è capitato di conoscere non pochi casi in cui appunto bambini anche piccoli od ex-bambini ormai divenuti adulti, pativano un qualche disagio nella relazione con i propri genitori ed i genitori, a loro volta, lamentavano perlopiù una sorta di impotenza educativa; qualcosa in ciascuno era stato perduto o si configurava come di ostacolo quando non di grave nocumento
all'acquisizione della fondamentale sicurezza primaria nei figli e alla necessaria autorevolezza nei genitori.

Ho in mente una giovane donna architetto, spigliata, bella, elegante, venuta a consultazione per capirsi meglio e per capire cosa non andasse in se stessa oltre che per darsi spiegazione della propria inclinazione a fallire reiteratamente in tempi brevi le relazioni affettive non appena avesse aperto le porte del proprio appartamento al fidanzato di turno per una convivenza. La donna, raccontando di sé, della propria infanzia e del nodo irrisolto di un latente conflitto con la madre, non si rendeva conto di riferirsi ai genitori chiamandoli semplicemente per nome, rendendomi in tal modo difficile, anzi addirittura impossibile almeno inizialmente, comprendere chi fossero quei Piero e Maria di cui riferiva. Era così inusuale per lei riferirsi a “mamma” o “babbo”, così inveterata l'abitudine di citarli usando soprattutto per la madre esclusivamente il nome proprio (mentre riusciva talvolta spontaneamente a raccontare di “mio babbo”), che nel corso dei primi colloqui si andavano creando di continuo spassosi momenti di ilarità, data la sua assoluta incapacità a pronunciare la parola “mamma” in sostituzione del nome proprio. Si sfiorò la commedia plautina degli equivoci quando poi, narrandomi dell'amica-antagonista Maria, omise di specificare che la Maria in questione non corrispondeva più alla madre. Comprese da sé che di Maria è pieno il mondo, mentre di mamma ce n'è una sola. E comprese dunque che ad un genitore dispiace non essere riconosciuto e reso unico nel suo ruolo.
Non c'è dubbio che la diffusa pratica dell'accorciare le distanze tra adulti e bambini, a seguito forse di una reazione post-sessantottina all'autoritarismo, abbia provocato anche la diffusione del permissivismo e d'un lassismo educativo certamente reattivi ma non per questo giustificati ed efficaci. Il permissivismo, con la sua tendenza ad acconsentire a qualunque richiesta dei figli il più spesso possibile bandendo il “no”, ha reso usuale l'abolizione dal linguaggio delle forme di rispetto come il “dare del Lei”o “del Voi” come ancora usa nel nostro Sud, sostituito più spesso da un immediato “Tu”, tra adulto e adulto come anche tra bambino e adulto (persino nelle scuole di vario ordine e grado). E' in questo rivolgimento dei costumi che si cominciò ad osservare altresì, come si è detto, un discreto numero di bambini che, a partire dalla prima infanzia, erano usi chiamare i propri genitori per nome anziché “mamma” e “papà”. Tale moda sembra a tutt'oggi destinata al declino.

Ho conosciuto una giovane ragazza che d'un tratto è stata inspiegabilmente abbandonata dall'uomo che, avendone sposato la madre, fin da quando ella era piccolissima sembrava averla accolta nella propria vita con entusiasmo come e più che se gli fosse stata figlia naturale. Costui, con la rapidità del fulmine, da un certo giorno in avanti, ha finito col dimenticarla completamente, riuscendo anzi a sostituirla nel suo ruolo di figlia con il giovane figlio maschio dell'ultima sua conquista femminile. Nel tentativo di elaborare un lutto impossibile, la ragazza in questione ha scelto istintivamente di riferirsi a quell'uomo, che pure per tutta la vita era stata solita denominare teneramente babbo, chiamandolo “Lui-là”. Non è più riuscita a pronunciarne il nome proprio. Quel nome anzi, per estensione, quasi avesse il potere evocativo del diavolo in persona, è diventato tabù. Quella giovane ha dovuto cancellare, almeno dal proprio vocabolario, il di lui nome proprio e la qualifica -babbo- con cui non avrebbe avuto più senso designarlo se non al prezzo di ingannare se stessa fino alla follia nel tentativo, tanto strenuo quanto vano, di mantenere un sottile fil-rouge che la legasse ad un ricordo illusorio.

Il nome è qualcosa di assai importante anche per il migliore amico dell'uomo. Chiunque conosca un minimo di etologia o psicologia del pet più diffuso al mondo, il cane, sa che ad ogni comando gli si voglia impartire è utile far precedere il nome proprio di quell'animale. In tal modo la bestia non equivocherà; allorquando dovesse udire le parole usate come comando anche nel contesto, per esempio, di conversazioni familiari dove esso non è implicato, saprà di non essere coinvolto, saprà che le stesse non sono rivolte a lui. Se vogliamo che ci venga appresso gli diremo “vieni...Fido!”e non mai soltanto “vieni!” o soltanto “Fido!”. Diversamente, ogni volta che diremo “vieni!”, magari ad un congiunto che vogliamo ci raggiunga in fretta, il cane si sentirà implicato in prima persona e ce lo ritroveremo fatalmente tra i piedi con il rischio che la povera bestia si senta umiliata e allontanata da un'educazione incoerente. (Ma come!?- potrebbe pensare- ho sentito il comando “vieni!”, sono arrivato in gran fretta e per questo sono stato cacciato!?).

Vorrei aggiungere un'osservazione relativa all'educazione della coppia gemellare dove, fin dalla scelta dei nomi, è facile commettere errori rendendo più difficile ancora, a ciascuno dei gemelli, il lungo e faticoso percorso della individuazione. I gemelli monovulari identici, infatti, faticano non poco a distinguersi l'uno dall'altro e faticano più degli altri bambini a sviluppare ciascuno caratteristiche distintive. Ciò anche perché non è raro invece che i genitori scelgano per loro nomi simili, con la stessa iniziale o della stessa lunghezza (Carolina e Carlotta, Piero e Paolo, Giampiero e Giacomo...). Ricordo di aver conosciuto una coppia di gemelle che per tutto l'arco della loro infanzia e adolescenza venivano designate più sbrigativamente come “Checche” e, data anche la difficoltà a distinguerle prontamente l'una dall'altra, venivano chiamate ciascuna indistintamente “Checca”.
Inutile dire che anche nella maturità le due sorelle manifestano ancora una spiccata esigenza, con relativa difficoltà a separarsi l'una dall'altra e a godere di una piena autonomia ed autosufficienza al di fuori della coppia gemellare.

Infine vorrei ricordare il Grande Massimo Troisi quando, nel suo indimenticabile film “Ricomincio da tre”, suggerisce per i nascituri l'assegnazione di nomi corti: “I nomi corti fanno i figli educati. Massimiliano viene scostumato; è proprio 'o nomme che è scostumato. - “Massimiliano, stai vicino alla mamma!” - Prima che la mamma lo chiama -Mas..- si..- mi..- lia..- no!- 'o guaglione se nne va da qualche parte, no? Nomi lunghi? Non ubbidiscono! Ugo, invece, se vuole andare da qualche parte... - ”Ugo!” - non fa nemmeno tempo a muoversi, deve tornare per forza... Oppure Ciro, viene meno represso, fa in tempo a fare almeno un passo e a prendersi 'nu poco d'aria...”
Certamente il compianto Massimo Troisi esagerava, certo è che un nome composto o troppo lungo rischia di venire storpiato o avvilito in un formato ridotto, variabile a seconda del gusto, della fantasia o bizzarria di chi quel nome pronuncia. E se quel che si è cercato di esporre sin qui ha un senso, se è vero che si possa dire che noi siamo (anche) il nostro nome, ci sarebbe da augurarsi di poter godere di quel nome, nella sua interezza e unicità, fin dall'inizio e per tutto il tempo che occorre, a discrezione del diretto portatore.

lunedì 24 ottobre 2011

Assertività (è ciò che ti necessita se sei stanco di sentirti dire di no e stanco di soccombere)

Assertività (dal latino assérere- affermare, rivendicare, proclamare libero uno -per es. uno schiavo-) è il coraggio di essere se stessi per raggiungere l'eudaimonìa, ovvero la libera e felice realizzazione del proprio essere. Asserisco dunque sono. Sono protagonista attivo perchè rifiuto di essere passivo (aspettando eventuali mani tese ed occasioni favorevoli), preferendo affermare il mio diritto a rivendicare la mia libertà attraverso l'azione.
L'assertività è un requisito molto importante, anzi fondamentale, per star bene anzitutto con se stessi, e, di conseguenza, con gli altri. "Ama il prossimo tuo come ami te stesso" significa per l'appunto: abbi cura di te e rispetta anzitutto te stesso (i tuoi sentimenti, i tuoi desideri, le tue aspirazioni, le tue esigenze..) se vorrai farti amare e rispettare dai tuoi simili a te affettivamente più prossimi, altrimenti sarà difficile che altri ti stiano vicino, in un gratificante rapporto di contiguità, di fiducia, di rispetto, di apprezzamento e di stima, se per primo mancherai tu stesso della necessaria stima di te.
L'assertività è un requisito che si può conquistare perchè nessuno "nasce imparato" .
Ciò premesso, risulta evidente che è necessario anzitutto poter contare su una solida autostima.
La stima di sé (dal lat. aestimare-valutare nella sua duplice accezione di "determinare il valore" ed anche "avere un'opinione su") comporta la capacità di avere un'opinione su se stessi attribuendosi un valore, quindi un giudizio perlopiù positivo. Essa costituisce l'elemento base del sistema immunitario dello spirito, capace di renderci forti abbastanza da far fronte alle asperità, alle sfide, alla fatica e alle insidie della vita, nonchè alla necessità di rialzarsi dopo un qualche inevitabile inciampo.
Per incrementare la stima di sé è necessario conoscersi per accettarsi nei propri requisiti ed anche nei propri limiti (nessuno è perfetto!) e quindi affinare, modificandolo, il proprio rapporto con gli altri in maniera da trovare il giusto punto di equilibrio tra l'affermazione di sé ed il rispetto della libertà altrui.
Come si vede, in questa fatica, è necessario riflettere sul concetto di libertà tenendo presente che "libero è colui il quale, per essere qualcuno, non deve subire né dominare". E' libero chi sa farsi rispettare rispettando a sua volta l'altro.

Dal momento che l'uomo è un animale sociale che, come tale, necessita di "fare i conti" con gli altri, è chiaro che ha bisogno di mantenersi in equilibrio tra il proprio e l'altrui benessere, adoperandosi con coraggio e decisione ma senza sconfinare nel compiacimento egocentrico e senza scivolare, d'altro canto, nella prigione del sentimento di inadeguatezza e inferiorità. Perciò è importante che acquisisca uno stile, nel comportamento e nella comunicazione, che gli faciliti i rapporti interpersonali.
Lo stile assertivo è esattamente ciò che necessita a ciascuno per migliorare la competenza sociale evitando l'eccessiva passività e, nel contempo, l'eccessiva tracotanza e aggressività. Serve anche a combattere i pregiudizi e le generalizzazioni indebite che costituiscono, come tutti sanno, tra i più grossi impedimenti alla reciproca comprensione, al cambiamento e al dialogo.

Tutto sommato l'assertività è un modo di comunicare flessibile, grazie al quale si può affermare il proprio punto di vista senza prevaricare né essere prevaricati; è la capacità di usare qualsiasi contesto relazionale a proprio favore, ottenendo ciò che si vuole e che, beninteso, si sia in diritto di ottenere.

Per il raggiungimento dunque dell'assertività ciò che conta è l'esercizio.

E' possibile frequentare un training di assertività ovvero delle sedute di tecniche comunicative in cui si rendano possibili simulazioni di role-playing utili all'addestramento, capaci di migliorare la personale competenza sociale. Ci si eserciterà su situazioni di vita reale vissuta, interpretando se stessi nel duplice ruolo di chi è poco capace di assertività e di chi invece la padroneggia con disinvoltura. Può essere utile farsi aiutare da uno psicologo per meglio affrontare il cambiamento. Ma è altresì possibile autoesercitarsi.

All'uopo può essere utile seguire una sorta di decalogo:

- è necessario non reprimere il proprio "aspetto desiderante " (ciò che corrisponde alle nostre emozioni e al nostro desiderio) e nemmeno ciò che avremmo voglia di rifiutare. Ricordiamoci che la costante ed eccessiva preoccupazione di conformarci a ciò che crediamo corrisponda al desiderio dell'Altro o a ciò che riteniamo l'Altro si aspetti da noi, genera solo malintesi ed infelicità.
E' meglio esprimere il proprio sentire, a costo di darsi tempo e sospendere il giudizio, fino a che non si siano superati il disagio e l'impasse.

- non si deve temere il confronto (nessuno è perfetto) e non si deve indulgere a giustificarsi a priori; sarebbe un'inutile esercizio di captatio benevolentiae. E' perfettamente lecito esprimere (e possedere) opinioni, gusti, un sistema di valori, personali ancorchè non condivisi. Nel caso ci si senta disapprovati o contraddetti, si dovrebbe aver cura di affermare il proprio punto di vista con garbata fermezza, senza prevaricare l'altro e senza lasciarsi prevaricare.

-è perfettamente ammissibile cambiare opinione cosiccome ammettere un proprio errore; questo in nessun caso ci sminuisce. Anche chiedere un chiarimento o la ripetizione di quanto detto, quando non si sia capito bene, è tutt'altro che un'onta. Si abbia cura di non sottrarsi al dialogo (nel discorso la parola-logos-è sempre, per definizione, fra-dia) solo perchè ci si sente meno competenti del proprio interlocutore; il confronto, quando ciascuno si sforzi di argomentare, è sempre utile.

-nel caso ci si renda conto di essere in errore, conviene ammetterlo ed esprimere il proprio cambiamento di opinione (errare è umano). Nel caso ci si trovi in totale disaccordo è meglio segnaralo cercando di argomentare il proprio diverso punto di vista o le proprie diverse necessità od anche solo il proprio diritto ad avere un pensiero divergente. Non ci si deve sentire in difetto od inadeguati per questo!

- saper ribadire le proprie istanze fino ad esser certi di essere stati ascoltati o compresi corrisponde ad un preciso bisogno di autoaffermazione e autodifesa: ricordatevi che avete diritto alla giusta attenzione, ma dovete voi stessi richiamarla opportunamente su di voi: il vostro pensiero, se non esplicato a parole, non può essere compreso. L'Altro non è la Pizia.

-evitare di farsi calpestare nei propri diritti (il diritto di esprimere il proprio disaccordo, il diritto di cosa fare del proprio corpo, delle proprietà personali, del proprio tempo, dei propri gusti...). Se avete la sensazione che gli altri si approfittino di voi, vi stiano usando o comunque che non vi stiano rispettando, non abbiate timore di reagire e, soprattutto, evitate di cadere vittima di sensi di inadeguatezza o colpa. Spesso, e ciò vale segnatamente per la donna in cui il senso di colpa è spesso inconscio (in quanto veicolato culturalmente da secoli od instillato e rintuzzato da chi creda di avere maggiori diritti di genere), comporta la difficoltà a reagire opportunamente nella paura di offendere l'altro. Se in cuor vostro siete consapevoli di non meritare alcuna critica, alcun rimbrotto, alcun ingiusto addebito, evitate di chiedere scusa solo per smorzare un'eccessiva aggressività nell'altro.

-ricordare che talvolta si può e si deve dire di no, come suggeriva Mario Lodi, esplicitamente e subitaneamente. E' sempre necessario sottrarsi alle altrui manipolazioni. Abbiate cura di evitare di farvi percepire come vittima; nel caso vi troviate al cospetto di persona dominante o violenta non avreste scampo, riuscireste solo ad esacerbarne l'ira e la prevaricazione. Se vi sembrasse che il dialogo risulta impossibile e per questo riteneste opportuno sottrarvene, ricordate che ne avete facoltà. Rivendicate il diritto all'indipendenza, allo spazio di libero movimento, ad essere lasciati soli quando ciò vi sembrasse opportuno.

-nel caso vi sentiate di stare troppo scomodamente "sedendo sul banco dell'imputato", ricordate che potete avvalervi della facoltà di non rispondere. Abbiate cura di accorgervi quando le domande siano implicative o capziose, non cadete nel tranello. Talora a domande inopportune si può rispondere con altra domanda o dribblare (l'arte della retorica insegna). Insomma: non lasciatevi incantonare. Nel caso vi sentiate pressati da richieste irragionevoli, eccessive o poco comprensibili, chiedete chiarimenti, chiedete tempo. Non c'è nulla di disdicevole nel non aver compreso un discorso o nell'aver bisogno di un approfondimento. Ricordate che è lecito anche avere dei segreti e volerli tutelare.

-essere trattati con rispetto e gentilezza è un diritto. Non siete in alcun caso obbligati a rapporti interpersonali con persone scomposte, urlanti, prevaricatrici; in questo caso il dialogo sarebbe, per definizione, impossibile. Abbiate cura di difendere la vostra dignità con determinazione, anche alzando la voce ed imponendovi, soprattutto di fronte ad un interlocutore sopraffattorio e svalutativo (a Roma dicono: quanno ce vo', ce vo' !). Se ne sentite l'esigenza, riprendetevi la parola e riportate l'attenzione su di voi, sul vostro diritto a raccontarvi in prima persona, a perseguire il vostro piacere, la vostra soddisfazione e le vostre ambizioni. Dovrete farlo senza monopolizzare troppo a lungo l'attenzione altrui e senza interrompere brutalmente un discorso altrui già avviato e non concluso, ma potrete nel contempo chiedere o prendervi la parola quando e se l'Altro si stesse da troppo tempo dilungando, da accentratore della scena. Fatevi avanti a segnalare la vostra presenza e, con essa, quella dei vostri diritti.

- nel caso vi venga rivolto un complimento, accettatelo di buon grado. Se corrisponde ad un'osservazione positiva calzante (che in cuor vostro vi sentireste senz'altro di sottoscrivere) evitate di schernirvi tentando di sminuirla e di sminuirvi! Se corrisponde a un merito non potrete che esserne orgogliosi, se corrisponde ad una fortuna (per quanto, in linea di massima, suae quisque fortunae homo faber est) dovrete esserne contenti. Dovrete cercare di essere giudice imparziale e onesto, anche, anzi in primis, con voi stessi. Nei pregi come nei difetti.

- abbiate cura di evitare un tono accusatorio diretto "Tu non... " . Potete avanzare qualunque richiesta con un incipit diverso, che parta dalla considerazione del vostro vissuto, ad esempio: "Mi fa arrabbiare che tu..."o "Non mi piace che tu..."oppure ancora "Io sono esasperato dal tuo modo di fare" . Sono la personalità passiva e quella aggressiva ad esordire sempre con il "Tu". L'assertivo, equidistante dai due, dice "Io", non cade nel tranello della sfida del troppo aggressivo e non infierisce sul troppo debole passivo, né porge il fianco solo per scadente capacità di reazione. L'assertivo rispetta se stesso e l'altro allo stesso modo e si mantiene equilibrato perchè non prova disagio e non è costretto a difendersi in modo eccessivo come chi è accecato dall'ira o paralizzato dalla debolezza.
Cercate di criticare i comportamenti, non la persona.
Non mettetevi troppo sulla difensiva, non giustificatevi troppo, piuttosto cecate di fornire spiegazioni delle vostre ragioni; avanzate le vostre richieste, spiegate esattamente cosa vi aspettate che l'altro faccia per risolvere una situazione di stallo. Fate questo senza forzarlo, tenete conto che dovrete sempre mantenere la consapevolezza che l'altro possa rifiutare o non essere in grado.
Come nelle arti marziali, dovrete non contrastare la forza dell'altro, ma sfruttarla a vostro favore e dirigerla nella direzione più opportuna.
Nel divertente film "Il mio grasso, grosso matrimonio greco" la leader del gruppo di donne riunite intorno alla figura dell'intransigente, rigido capofamiglia Antoni, "sa come prenderlo" e come condurlo verso obbiettivi comuni, sa parlare la lingua di lui per farlo parlare con la lingua di tutti.
Mi viene in mente che la maieutica è un'antica arte nata con Socrate perlappunto in Grecia.
Sarebbe il caso di rispolverarla a cominciare dal nostro privato. Lo volessero fare anche i nostri Governanti e Politici...!

domenica 12 giugno 2011

In memoria del Nonno (scritto di getto dalla nipote 20enne, Marianna, dopo il 5 dic. 2007)

"Come mio nonno, amo scrivere. Amo veder scivolare le lettere, poi le parole, e via via frasi intere dalla penna. Come presa da un medievale horror vacui, bramo riempire d'inchiostro nero quelle nude pagine bianche tra le mani. In particolare amo scrivere articoli giornalistici. Al liceo, ad esempio, lo facevo per il giornalino scolastico. E i miei articoletti li ho sempre inviati in anteprima a mio nonno (via lettera, abitavamo lontani e lui disdegnava il computer), il quale ha sempre apprezzato la mia "ricchezza di idee, la scioltezza nell'esporle, la capacità di adeguare lo stile al contenuto".
Capiva perfettamente quanto il mio scrivere fosse spontaneo, frutto come di una necessità, di un bisogno.
Purtuttavia, è da tanto che non coltivo questa mia passione, e mai avrei pensato di ricominciare proprio per ricordarlo, a pochi giorni dalla sua morte.
Francesco Crosato -ma lui diceva di non riconoscersi in "Francesco" e perciò si faceva chiamare da tutti Cesco-, era mio nonno. E il soprannome "Cesco" avvolge pienamente il suo istrionico essere.
Lo posso ricordare così: calzoncini corti, fronte imperlata di sudore, guanti di pelle plastificata da giardinaggio, fiori e rametti secchi tra i fini e radi capelli bianchi, chino -seppur su un ginocchio malandato- intento a potare, curare, innaffiare, "coccolare" le sue piante.
Oppure seduto al pianoforte, la fronte corrugata, gli occhi miopi che seguono repentini ora le note ora le mani, risultando quasi strabici ... La musica, Chopin soprattutto, filtra attraverso le abili dita, si diffonde per il salone al piano superiore, incanta, incupisce, consola.
Lo ricordo in cucina, ormai vedovo da qualche anno, il giorno di Natale, intento a preparare il baccalà. Tutti quelli che l'hanno potuto gustare, convengono nel dire che migliore di quello del nonno non c'è. Lo ricordo in una calda giornata estiva a Creta, intento a farsi comprendere da un suo coetaneo, seppur meno in forma di lui, in un misto di italiano, tedesco, latino e greco antico. Ricordo le sue stravaganze, che lo costringevano ai rimproveri familiari, e che lui sapeva seppellire sotto la sua risata ironica, da Peter Pan che ha combinato un'altra delle sue marachelle.
Lo vedo seduto sul divano di pelle verde, mentre schiocca con le dita le orecchie della povera gatta Emi, che, amorevole e condiscendente, continua a fare le fusa. Lo sento accanto a me, mi prende la mano e per stuzzicarmi me la picchia sulla sua coscia. Sa che mi da fastidio, ma continua ad essere il nostro gioco...
Camminiamo tra le bancarelle di una fiera di fiori, lui chiacchiera, saluta, si intrattiene con i passanti, gli ambulanti. Oppure in un museo, oppure stiamo semplicemente seduti: mi racconta di quando da giovanotto, durante la guerra, aiutasse i partigiani mettendo chiodi sotto le ruote delle camionette dei tedeschi o distribuendo stampa clandestina. Mi insegna i vecchi motti fascisti, le canzoni dei balilla. Forse è un modo per non dimenticare e temperare le antiche paure esorcizzandole.
Lo vedo mentre batte a macchina i suoi articoli, con ordine impila i fogli del suo prossimo manoscritto. Inforca gli occhiali e guarda il TG 3, Report, Ballarò...s'indigna...soffre delle pene dell'umanità, non trova consolazione alla corruzione dei politici italiani, esulta quando mostrano i girotondini..., s'arrabbia... Si congratula con me per pensarla allo stesso modo. Conservo tutto questo del nonno Cesco.
Qualcuno a lui vicino mi racconta di come fosse ancora pronto a mettersi in gioco in campo professionale, di come sentisse forte la sua responsabilità di medico, di quanto potesse essere ancora propositivo e appassionato. Ma di come, alla fine, l'incomprensione l'abbia perseguitato per tutta la vita, e di come lui, seppur con amara tristezza, abbia saputo allontanarla mantenendo alto lo sguardo e l'onore di medico e di uomo. Di come fosse strano, ma geniale.
Buon viaggio nonno, so che le mie parole ti giungono ovunque tu sia e questo mi conforta. Grazie a tutti quelli che mi leggono, a quelli che sono stati accanto al nonno in questi anni, a quelli che ci hanno consolato in questi giorni, a tutti i suoi ex-pazienti e colleghi che lo rimpiangono con affetto. Spero di aver contrubuito -almeno in parte- a completare il ricordo che voi avevate di lui."

lunedì 16 maggio 2011

Felicità - Breve discorso sul Ben-Essere, ovvero sulla felicità intesa come Eudaimonìa


Ciò che ogni studente di liceo classico ricorda, è che la parola eudaimonìa veniva sbrigativamente tradotta, nelle versioni dal greco antico, con felicità. E spesso ciò che intendiamo per felicità corrisponde al benessere, alla gioiosa soddisfazione, od alla consapevolezza della piena realizzazione di sè e delle proprie aspirazioni; un ben-essere contrapposto al mal-essere.
Intesa così, la parola rimanda al significato etimologico del termine greco.
Con una certa approssimazione si può dire che raggiungere l'eu-daimonìa sia possibile a patto di essere in un accordo armonico con il dàimon che affianca ognuno di noi come uno spirito-guida che gli dèi possono accordarci, semprechè noi si sia disposti ad ascoltarlo, per perseguire il bene (anzitutto ciò che per noi stessi è bene); e a patto di passare inevitabilmente attraverso il "Γνώθι σεαυτόν" (conosci te stesso) alla ricerca di riconoscimento, senza il quale non si costruisce alcuna identità, e l'educazione, che permette a sua volta una lenta acquisizione, mediante riconoscimenti, della gioia di sè.
Sarebbe dunque una sorta di amico divino che è dentro di noi, una sorta di possibilità a priori assegnata a ciascuno, capace di guidarci istintualmente verso il bello ed il buono come valore etico (kaloskagathòs) e, come tale, è essenzialmente uno stato d'animo spirituale, una qualità interiore che rende l'uomo sereno (beatus). La qualità interiore, poi, si estrinseca e regola la condotta, l'ethos, in una modalità etica.
Se nel corso della vita il proprio dàimon ha una buona (dal greco "eu") realizzazione, allora sarà possibile raggiungere la felicità, la quale pertanto non consiste nel raggiungimento di cose (denaro, status simbol,...) al di fuori di noi, ma piuttosto nella buona riuscita di sè o, meglio, nella realizzazione del Sè. Il dàimon è una sorta di fatalità interna, di destino individuale che vale la pena di assecondare procurandogli opportune fatalità esterne. Già Democrito ricordava che la felicità ed il suo contrario sono fenomeni dell'anima (psyche), talchè questa prova piacere o dispiacere a seconda che si senta o no realizzata.
Corrisponde all'augurio tibetano "tashi delek", traducibile con "lieta benignità e pace universale", inteso come auspicio ad ascoltare il buon dàimon, liberandosi dall'ignoranza, dalle sovrastrutture, dall'ingordigia e dall'attaccamento alle illusioni smodate e narcisistiche che sono alla base dell'invidia, della rabbia e dell'odio e, a ben riflettere, anche a quello romano antico di "salve" che sta per "salute a te", una salute olistica, fisica e psichica.
La felicità intesa come eudaimonìa corrisponderebbe pertanto alla realizzazione delle proprie potenzialità e abilità, nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, trovando la piena realizzazione in quella che Alan S. Waterman definisce "espressività personale", intesa come possibilità di svolgere il proprio personale processo di individuazione (divenire ciò che si è) dando voce a quelle inclinazioni ed abilità che costituiscono, per ciascuno di noi, il "vero sè", e che sono a fondamento del benessere individuale.
Ma per una piena e soddisfacente autorealizzazione, e ancora una volta gli antichi Greci ci vengono opportunamente in soccorso, è necessaria la virtù (areté) secondo misura (katà métron), con cui dar forma alla propria forza imparando a governare se stessi dandosi delle leggi piuttosto che dovendo subire passivamente la legge degli altri. Come osserva Aristotele, la felicità come disposizione dell'anima (eudaimonìa) è già il vivere bene (eu zen), e la vita buona (secondo bontà) è il fine della vita.
Nella rivendicazione dei diritti naturali con cui si apre la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 leggiamo che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il «diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce così che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza. Viene dunque recepito il catalogo dei diritti di matrice giusnaturalistica e ad esso si aggiunge la felicità come fine ultimo che ciascun individuo è chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte. Un ordine politico razionale deve ruotare intorno ai concetti di libertà e di diritto: la libertà, la quale consiste nella possibilità per ciascun individuo di ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà migliore purché non renda pregiudizio alla libertà degli altri , ed il diritto, che deve recepire e codificare questo valore[1]
Un recente studio studio di Harvard, che rileva come la somma totale della bontà della natura umana soverchi abbondantemente quella della cattiveria, ha un incipit che comincia più o meno così: "questa ricerca fornisce il primo grande indizio a favore dell'esistenza di un "possibile universale psicologico"; gli esseri umani ereditano una tendenza, ancora più forte di quella ad essa contraria, verso la tenerezza, la compassione, la cooperazione..., soprattutto verso chi è in difficoltà e, da questo impulso altruistico, ricavano benefici psicologici...", come a dire che, a ben cercarla, sarebbe possibile testimoniare sperimentalmente un'identica base nell'animo umano: il senso etico innato. Potrebbe essere il "buon dàimon"?
A quanto so, nel vocabolario ebraico non esiste il corrispondente di felicità, esistono invece cinque diverse accezioni di "gioia", cinque diversi stati dell'anima che rendono possibile il ben-essere. Mi sembra saggio e meno fuorviante.
Felicità, in ogni caso, non può essere uno stato perenne, ma semmai occasionale e raro, quasi mistico.

Come promuovere la felicità (intesa come eudaimonìa)

Posto che l'era della tecnica, dopo il dominio della filosofia romantica come tratto tipico dell'antropologia occidentale, è l'epoca della disillusione e del nichilismo in cui l'umana hybris - dal greco antico "Ǜβρις"- (la tracotanza che abbiamo osato al fine di sentirci "animali superiori" al centro dell'universo), ha già squagliato le ceree ali a quelli tra noi che, immemori di Icaro, ambivano un posto in prima fila nell' Empireo, serve ora in maniera più che mai urgente trovare una qualche risposta al "disagio della civiltà". Serve superare il paradigma tecnico-scientifico che mira ai risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure senza proporsi alcun fine da realizzare. Serve poter ridare senso all'esistenza, dopo esserci smarriti in quell'orizzonte dispiegato dalla ragione e dalla conoscenza nel quale ci troviamo dis-orientati.
Orientarsi, ritrovare l'oriente, il senso, per sopportare e superare le difficoltà del vivere quotidiano cosiccome la frustrazione del sentirsi smarriti in un universo valoriale in disfacimento, equivale ad avere uno scopo. Abbiamo bisogno di sapere che il nostro procedere, muoverci ed adoperarci non è vano, nè può essere solo un insensato procedere verso l'ineluttabile fine.
La nostra società fondata su tanti piccoli ego che hanno come unico orizzonte il proprio ombelico, ovvero fondata sull'individualismo, sulla reificazione financo dei sentimenti, sull'efficienza e il tornaconto, sulla mercificazione e sul denaro (che, come dice Massimo Fini, dal punto di vista individuale costituisce un credito, ma preso globalmente è un debito sempre più colossale e disastroso), di certo non aiuta.
Credere che la felicità abbia a che vedere con l'umore e con i di-vertimenti (distrattivi cui tendiamo quando volgiamo lo sguardo in un illusorio e improbabile altrove) è fuorviante.
Ma se noi riflettiamo sul fatto che la felicità non è nelle cose e non sta al di fuori di noi bensì dentro di noi, allora potremo esercitarci opportunamente a conquistarcela.
Dopotutto il piacere (Voluptas) è la mèta del processo evolutivo modellato sull'unione di Eros (Amore) e Psiche (Anima). Voluptas nasce dall'incontro di Eros e Psiche; dalla conoscenza e dalla passione anche carnale nasce, come meravigliosa sintesi, sia la sensuale voluttuosità sia una beatitudine trascendente i sensi, in una parola: il ben-essere.
Prendendo in mano le redini della nostra vita nell'intento di realizzare le nostre potenzialità e abilità naturali, identificato un qualunque stimolo adatto a noi capace di sostenerci nella motivazione e spingerci verso le cose, verso le situazioni, verso gli altri, verso le opportunità, per ottenere il maggior livello di serenità e appagamento possibile, le occasioni non mancheranno.
Occorre individuare ed esercitare le proprie potenzialità, quelle in cui ci riconosciamo perchè rispondenti alle nostre particolari inclinazioni; in questo modo ci potremo sentire pieni di vita e di energia.
Nella scelta ci orienterà il daimon. Per qualcuno si tratterà di esercitare una qualche attività manuale e pratica, per qualcun altro la passione per la natura, la musica, l'arte, o una qualunque delle varie helping professions, ecc. Se ci dedichiamo a ciò che ci gratifica e appassiona, la nostra vita migliora e si riempie di significato.
Quando ci si immerge in attività concernenti le proprie potenzialità sarà come nel gioco quando il tempo e lo spazio sono a geometria variabile, la fame e la sete stimoli silenti che non urgono e la serenità creativa e l'energia ci sostengono all'insegna della leggerezza (nella letteratura anglosassone questo stato è definito "flow").
La felicità consiste dunque nel vivere esperienze sintoniche con la propria natura profonda, è industriarsi in maniera appassionata rallegrandosi del proprio operato, sta nel gusto di fare più che nella valutazione delle cose fatte, con creatività, attraverso l'incontro .
Victor Frankl, psicanalista, scampato ad un campo di concentramento, definì una particolare forma di sofferenza : la nevrosi noogena, non già frutto di un conflitto emotivo tra il principio del piacere ed il principio di realtà (Freud), ma provocata da un problema spirituale, un conflitto etico, una crisi esistenziale (di origine noetica, dal greco "nous": mente) che compromette la stima di sè. Per quest'autore "ogni uomo alimenta infatti un sentimento di autostima che oscilla in relazione ai valori che incarna. Ad un valore elevato corrisponderà un'autovalutazione elevata". Ogni epoca, infatti, ha le sue nevrosi specifiche e necessita di terapie specifiche. "L’uomo di oggi - commenta Frankl - più che frustrato sessualmente, risulta essere esistenzialmente frustrato. Non prova più tanto il senso d’inferiorità (di cui parla Adler), quanto un sentimento di futilità, di mancanza di significato e di vacuità : il "vuoto esistenziale". E, nell'intento di colmare questo vuoto di senso, potrà lasciarsi vivere (trascinando un'esistenza grama o dipendendo dal Prozac o perseguendo il più sfrenato edonismo), potrà deprimersi fino al suicidio (aggressività autodiretta) o fino all'omicidio (aggressività eterodiretta), oppure potrà cercare consolazione, compensatoria quanto illusoria, nell'uso di una qualche droga (ivi compresa la compulsione al gioco d'azzardo).
Un filosofo e psicanalista - Miguel Benasayag - insieme allo psichiatra Gérard Schmit, ha pubblicato di recente un saggio dal titolo "Le passioni tristi. Sofferenza psichica e crisi sociale", laddove la definizione di "passioni tristi" rimanda al conio del filosofo Spinoza. I coautori hanno ragionato su quella che appare essere la motivazione dominante che spinge i richiedenti aiuto ai Servizi di consulenza psicologico-psichiatrica: la tristezza. Pervasiva della società contemporanea, conseguente al diffuso e permanente sentimento di insicurezza e precarietà, non rappresenta il disagio del singolo (della stragrande maggioranza dei singoli), ma è diventato disagio della civiltà, sinonimo di crisi sociale in cui il futuro si profila come minaccia e non già come speranza.
A tutti è noto che "di doman non c'è certezza", il guaio è che sembra diventato difficile, quando non impossibile, coltivare la speranza, quella "spes ultima dea" senza la guida della quale ogni umano sforzo appare inutile.
Recuperare la speranza (che altro non sarebbe, stando al parere di Aristotele, se non un sogno fatto da svegli); questo è ciò che ci necessita per superare l'empasse esistenziale. E ciò si rende possibile a partire dalla costruzione dell'autostima, di un adeguato concetto di sè capace di comprendere i propri punti di forza, ma anche paradossalmente i personali, del tutto umani, punti di debolezza e limiti. Perchè è pur vero che "ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera", ma a queste sole condizioni: "chi vuol esser lieto sia".
Solo così potremo superare l'utopia modernista dell'onnipotenza umana in una società dove, per dirla con Nietzsche, dio è morto, e, parafrasando Woody Allen, pure Marx è morto e anche noi non ci sentiamo tanto bene. Solo così potremo superare lo scontro di filosofie e di approccio che è presente nella società tanto quanto, oramai, nella coscienza individuale di ciascuno di noi (e che ci fa pretendere, per esempio, cibo genuino “come una volta” e nel contempo l’ultimo modello di telefonino con servizi tecnologici sempre più evoluti); solo così potremo districarci opportunamente, in quest' Era della Contraddizione e dell’Incoerenza che ci vorrebbe consumatori passivi condannati ad una fretta perenne che non lascia tempo alla ri-flessione (etimologicamente, al ripiegamento all'indietro per connettere il presente con ciò che abbiamo visto, in un volgersi all'interno verso immagini ed esperienze psichiche), abbandonando l'eccessiva inclinazione al negotium a favore dell'otium come tempo per meditare soffermandoci ad elaborare i pensieri.
La ricerca della felicità è sostenuta dal desiderio che, come ci ricorda Platone, implica una lacuna, una mancanza (dal lat. de-sidera: in mancanza di stelle da cui trarre auspìci per il futuro). Esso, per sua natura, tende a volare sulle ali della fantasia, con il rischio di condurci lontano dalla realtà e da tutte le sue implicazioni fino a trasfigurarla alterandola pesantemente.
Ciò non deve succedere; esso deve potersi mantenere vivo e pressante, costituendo l'agente propulsivo più forte dell'azione umana nonchè il principio della vita psichica, ma, nello stesso tempo, per la ricetta del conseguimento di piacere e soddisfazione, deve passare attraverso la realtà con una attenzione estetica (dal greco "aìsthesis"= sensazione che dal "sensibile" conduce al "bello"). Nel caso la soddisfazione del desiderio venga pretesa nell'estinzione rapida e immediata di quella "mancanza", il piacere conseguito sarà allora di tipo an-estetico poichè anestetizza dalla "cura" del mondo e, come nei bambini, intenti per definizione a pretendere una soddisfazione immediata, egocentrica e non mai differita del piacere, così nei tossicomani, l'appetito si farebbe divorante, insaziabile, ed il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivelerebbe sempre più insoddisfacente, impedendone il godimento.
Come l'estesia del parto (dolore) finisce nell'an-estesia (fine del dolore) e rende possibile la soddisfacentissima epifania del risultato (il bel neonato), così dalla buona sensazione (fine del dolore) si può pervenire alla sensazione del buono (aver fatto qualcosa di buono che corrisponde al risultato del parto). Come si vede dall'esempio paradigmatico del parto, il conseguimento del risultato si rende possibile solo attraverso l'esperienza della fatica (o sforzo), ed essa è tipica della condizione umana, come ci suggerisce, in maniera mirabilmente sintetica, il libro della Genesi -nei passi 3, 16 e 3, 19- dove si preconizza che, dal momento della fuoriuscita dall'Eden, la donna partorirà con fatica e l'uomo mangerà il pane guadagnato col sudore della sua propria fronte[2]
Per restare nella metafora potremmo dire che, per il conseguimento del ben-essere o della felicità, la gratuità non paga. Senza compiere alcuno sforzo, ogni uomo non potrà che cantare tristemente o rabbiosamente: "I can get no satisfaction". Non per caso, una forma di aneidonia e invidia (e dunque di infelicità) si osserva paradossalmente anche in coloro i quali "hanno troppo in maniera troppo facile" chè, condannati all'assuefazione, ai piaceri e ad una facile ricchezza, finiscono con il contrarre "hedonic treadmill", una "ruota di mulino edonistica" che, girando continuamente, impedisce in maniera inesorabile la corresponsione della soddisfazione a tanta facile abbondanza, costringendoli ad un piacere sempre maggiore per poter provare un grado costante di soddisfazione minima.
Di contro è anche vero che bambini del cosiddetto terzo mondo sembrano essere perfettamente soddisfatti e felici, o perlomeno mai ingrugnati e nevrotici come spesso accade di vedere alle nostre latitudini, anche se poveri o indigenti. Chiunque abbia fatto un viaggio in Africa, e, attraversando lunghi tratti di strada assolati e deserti a bordo di una jeep, si sia imbattuto nel gioioso "assalto" di un gruppo di bambini di ogni età festosi e comunicativi, per quanto seminudi e sporchi, intenti a giocare a ridosso di un qualche agglomerato di umili capanne, o in altri, ordinati nelle loro divise scolastiche, intenti a percorrere talvolta lunghissime distanze da o per la scuola, tutti ugualmente e serenamente scherzosi, sorridenti e divertiti tra loro come di fronte all'estraneo, sa di che parlo.
Ai nostri occhi, tanta sincera gioiosità appare quantomeno strana. Il segreto della loro "naturale" felicità risiede con ogni probabilità in almeno tre fattori fondamentali: 1) il senso di appartenenza alla loro comunità, 2) la condivisione delle condizioni socio-economiche oltrechè del sistema valoriale, delle credenze, dei riti, delle speranze come delle paure, ecc. e 3) la capacità di servire la propria comunità di appartenenza sentendosi investiti di un ruolo che si riveli utile e necessario (andare a prendere acqua o legna, badare al bestiame, aiutare gli anziani, i più piccoli o i malati, ecc.).
Fin da bambini è dato loro di avere ben chiara la propria identità; possono coltivare una positiva stima di sè (sentendosi belli, buoni e bravi secondo la mia personale teoria delle 3 "B" - cfr. questo blog -), sentendosi pienamente parte della loro comunità (villaggio, tribù, nazione) in un clima di reciprocità, comunicazione e comunione.
Queste tre condizioni sono naturali e necessarie per ogni essere umano che, va ricordato, è un animale sociale.
Non dimentichiamo che l'uomo è artefice (costruisce con mano) della sua propria fortuna e la fortuna, che aiuta chi osa e non chi rimanga immobile nell'attesa, contempla sempre l'esercizio di una sana aggressività intesa non già nel suo significato semantico, bensì in quello etimologico di andare-verso (dal latino: "ad-gredior") come necessaria pressione ad agire che, come tale, tiene lontano dalla de-pressione, rendendo possibile un godimento appetitivo della vita attraverso il coinvolgimento dell'alterità e del mondo, nella cura e nel rispetto della libertà propria e altrui.
In ogni caso, la felicità non è una cognizione (qualcosa che si sa) ma è un'esperienza dell'animo, qualcosa che si sente. E' senza dubbio conseguente alla capacità di provare gioia, e la capacità di provare gioia è strettamente correlata alla resilienza, ovvero alla forza d'animo intesa come facoltà di superare gli alti e bassi della vita ritornando ad uno stato di serenità.
Naturalmente il termostato emotivo che ci riporta ad uno stato di normale serenità, pur dipendendo in parte dal temperamento innato che ci rende più o meno inclini a provare gioia o tristezza, non è fissato alla nascita in maniera irreparabile. Certo può abbassarsi significativamente nel corso dell'infanzia, a causa per esempio di un deficit di accudimento o di fattori traumatici, perchè la percentuale di serenità e gioia nelle prime relazioni costituisce una sorta di imprinting nella formazione dei percorsi neurali della felicità (è un campo di esplorazione, questo, assai recente che implica lo studio del cervello e della sua biochimica, applicato alle emozioni e denominato neuroscienza affettiva), ma può anche essere "educato", creando una diversa e maggiore competenza emotiva.
E' dunque possibile affinare la capacità di vedere il lato positivo delle cose operando una "ristrutturazione" cognitiva e quindi emotiva.
Lasciamoci sedurre dagli incanti della vita, dalla confidenza, dalla partecipazione, impariamo a relativizzare piuttosto che assolutizzare sia il piacere che il dolore tenendo a bada le tempeste emotive, senza ripudiare il desiderio per timore della delusione e senza spingerlo al parossismo, ma piuttosto assecondandolo e incanalandolo verso vie sostenibili, in maniera da perseguire obiettivi compatibili con le nostre possibilità e perciò raggiungibili.
E' necessario superare l'autismo sociale che altrimenti ci condanna alla solitudine e allo smarrimento, confidando nelle potenzialità rigenerative dei legami personali, confidando nell'Amore declinato in tutte le sue espressioni (sociale, parentale, di coppia, amicale...), coltivando la compassione (da cum-pateo, sono disposto a soffrire insieme con) ma anche la forza dell'immaginazione e il coraggio della sfida, in modo da coniugare Eros con Psyche.
Non va dimenticato che proprio la neuroscienza sociale ci suggerisce che i legami sociali svolgono un ruolo nella ristrutturazione del nostro cervello e che nel contatto sguardo-sguardo (ma anche voce-voce e pelle-pelle) i cervelli entrano in risonanza e la qualità delle innumerevoli interazioni quotidiane influisce sulla biochimica e sulla organizzazione dei circuiti neuronali: è proprio il caso di dire che quando sorridi, il mondo sorride con te e tu stesso puoi innescare una reazione circolare, per così dire, di contagio emotivo.
Come già sostenevano i latini : "(homo) faber est suae quisque fortunae" perchè l'uomo è fabbro (nel senso di artefice che fa con gli arti) della propria sorte potendo costruire e la propria fortuna e la propria sfortuna. Tutt'e due queste, e non soltanto "la sfiga" come direbbe Lupo Alberto, sono sempre in agguato.
Fronteggiare una novità implica sempre una crisi e la crisi una scelta tra elementi conflittuali[3] Il nuovo costituisce nel contempo sia una minaccia che un'opportunità: è la storia del bicchiere pieno a metà che può essere percepito mezzo pieno o mezzo vuoto. Direi che conviene cercare di leggerlo come un'opportunità; nell'un caso e nell'altro avremmo la probabilità di avere ragione al 50% . Perchè non rischiare, allora? Proviamo a dar credito a Tucidide quando affermava che "il segreto della felicità è la libertà, è il coraggio!"
Per concludere, volendo sintetizzare una possibile "ricetta per raggiungere la felicità intesa come eudaimonìa", ciò che necessita è il coraggio di essere se stessi imparando a sviluppare una sana assertività la quale implica eminentemente tre cose: conoscenza di sè (del proprio mondo interiore inteso come insieme delle proprie attitudini, dei propri bisogni, dei propri punti di forza e debolezza, nella aretè-kata métron), autostima (sicurezza di sè, rispetto per la propria persona, per la propria individualità ed unicità) e rispetto del prossimo. Il comportamento assertivo consente dunque l'edificazione di rapporti interpersonali costruttivi e trasparenti, senza che ci sia prevaricazione dell'altro e senza che ci si lasci prevaricare, a favore della libertà propria nel rispetto della libertà altrui.

Bibliografia


D. Goleman, Intelligenza Sociale, Rizzoli, 2006
J. Hillman, Il mito dell'analisi, Adelphi, 1979
U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, L'ospite inquietante, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2007
U. Galimberti, Le cose dell'amore, Feltrinelli, 2005
U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009
R. Bodei, Ira, Il Mulino, 2010
P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, 1984
G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010
D. De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi, 2010
A. Testa, Le vie del senso, Carocci, 2004
Seneca, L'arte di essere felici e vivere a lungo, Newton, 2006
J. Franzen, Libertà, Einaudi, 2011
E. De Luca, E disse, Feltrinelli, 2011
I.S. Turgenev, Padri e figli, Garzanti 2003
S. Kierkegaard La malattia mortale, Mondadori
F. Dostoevskij, I demoni, Einaudi, 2006




[1] Vedi http://cultureeuropee.irrepiemonte.it/orienteoccidente/ap_7.htm.

[2] Questa traduzione fedele dall'ebraico antico è ad opera di Erri De Luca.

[3] La parola cinese per "crisi" è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione, secondo alcuni fallace, che i caratteri di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti che i due caratteri significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità". Molti linguisti considerano questa idea una colorita pseudoetimologia, poiché da solo non significa necessariamente "opportunità". In effetti, wēi significa approssimativamente "pericolo, pericoloso; mettere in pericolo, rappresentare un pericolo; periglioso; precipitoso, precario; alto; paura, timoroso" (come in wēixiăn, "pericoloso"), ma la parola polisema non significa necessariamente "opportunità". La composizione jīhuì significa "opportunità", ma è solo una parte di essa; assume numerosi significati, tra cui "macchina, meccanico; aeroplano; occasione adatta; punto cruciale; perno; momento incipiente; opportuno, opportunità; occasione; collegamento chiave; segreto; inganno". Mair suggerisce che in wēijī sia più vicino a "punto cruciale" che a "opportunità". Da: www.wikipedia.it.

domenica 27 marzo 2011

La gelosia patologica


Dal greco zelos -emulazione, invidia, rivalità-, divenuto zelus in epoca medievale -zelo, ardore, rivalità - la gelosia è un fenomeno noto a tutti, fin dalla più tenera infanzia.
Essa si manifesta come un'emozione nel caso di una rapida epifania tendente in tempi brevi all'estinzione, oppure come un sentimento allorquando si stabilizzi in uno stato affettivo-cognitivo pervasivo e duraturo, facilmente evocato anche da minimi eventi esterni o da rappresentazioni mentali auto-generate che finiscono con il permeare l'esperienza psichica in maniera stabile.
In tutti i casi può essere considerata una passione -dal gr. pàthein e lat. pàteo- per il carattere di sofferenza che sempre ne accompagna il vissuto. Comporta sofferenza interiore (con emozioni di dolore, tristezza, paura e rabbia), sintomatologia neurovegetativa (ansia, accelerazione del battito cardiaco come della respirazione, sudorazione e tremore alle mani, rapido afflusso di sangue al cervello, pupille in midriasi...), aspetti cognitivi tipici (rancore, preoccupazione, autoaccusa, autocommiserazione), ma anche, nel contempo, un'impulso ad agire. Si tratta di forme di aggressività manifesta - dal lat. adgredior, andare verso - (dal piangere, parlare del problema, far uso dell'umorismo, implorando benevolenza e comprensione, fino al passare alla vendetta in un parossismo d'ira priva di discernimento), che conducono dalla mansuetudine coatta all'ira cieca.
Va sottolineato che la gelosia può essere scatenata da cause oggettive e reali ma anche dalla (distorta) percezione di una minaccia immaginata.
E' una forma di aggressività intraspecifica (cioè tra membri della stessa specie) funzionale alla sopravvivenza della specie, dunque con una precisa funzione adattiva e, dall'etologia animale, sappiamo quanto essa sia importante ai fini dell'accoppiamento, della riproduzione del proprio patrimonio genetico, nello stabilire un ordine gerarchico, e nel circoscrivere un territorio di risorse preziose per la sopravvivenza. Nell'animale questa "sana aggressività" si configura come un istinto che promuove e consente l'adattamento all'ambiente. L'aggressività dei cervi che, nella stagione degli amori, si sfidano a cornate, e lo spinarello che si scaglia indistintamente contro un qualsiasi altro maschio in "livrea nuziale", che noi interpretiamo come "gelosia", altro non è che un comportamento ritualizzato, istintuale, di difesa della coppia - della riproduzione e della prole -, che prevede schemi di azione fissi (attaccare qualunque sagoma di spinarello che abbia una vistosa chiazza ventrale rossa che costituisce il distintivo tipico del maschio nell'accoppiamento); essendo ritualizzato non comporta ammazzamenti.
Nell'umano, il comportamento geloso, come ogni comportamento, si attiva a partire da motivazioni primarie (fame, sete o sesso) e da motivazioni secondarie (miranti al successo con prestazioni di alto livello e tese al superamento degli altri, al bisogno di autorealizzazione, al desiderio affiliativo o di attaccamento e di contatto con l'Altro - per vincere la paura della separazione e relativa solitudine -).
Gli umani non copulano, ma fanno l'amore, soddisfacendo così i bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza e amore, di stima, di autorealizzazione, cognitivi - sete di conoscenza - ed estetici - desiderio di bellezza -. Si scelgono, s'innamorano, si corteggiano, si promettono fedeltà... Nella norma, hanno un enorme potere di controllo conscio sulle loro pulsioni e ricorrono a strategie di comportamenti ritualizzati dell'aggressività con modificazioni del comportamento dettate dall'apprendimento ( ad es. adottando tutti quegli accorgimenti strategici di camuffamento che enfatizzino i caratteri sessuali secondari - nel maschio, ad es., spalle larghe imbottite -, e/o che abbiano un carattere impositivo fisico - gare sportive - o mentale - giochi da tavolo, imbonimenti verbali fino alla bugia -, e di acquietamento fra estranei - saluto, togliersi il cappello, porgere la mano od un regalo, chiedere permesso se si invade lo spazio altrui...-)
Va detto che la pulsione, nell'uomo, è fortemente influenzata da componenti psicologiche le quali, a loro volta, risentono di influenze sociali, culturali e cognitive.
Nessuno (o scarso) stupore se presso i Kiribati (tribù che vive in un atollo del Pacifico) l'uomo geloso ha facoltà di tranciare il naso alla compagna ritenuta infedele, col coltello o con un morso, con un gesto che va sotto il nome di koko: lì è d'uso, considerato "normale" per quella società e cultura. Nessuno stupore che fino al 1981 (solo 30 anni fa !) in Italia fosse ammesso il "delitto d'onore" che rendeva pressocchè lecito l'assassinio della coniuge, figlia e/o sorella per salvaguardare l'onore del maschio. In ambedue i casi vi era il riconoscimento dell'offesa arrecata e la riparazione, ancorchè cruenta, non causava riprovazione sociale.
Poichè la gelosia riguarda ciò che si ha e che si teme di perdere, essa va ad evocare i fantasmi primigenii della vulnerabilità, della perdita, dell'abbandono e della solitudine con cui ciascuno di noi fa i conti nel momento della separazione dalla propria madre fino alla rescissione, fattuale prima e metaforica poi, del cordone ombelicale inteso come totale dipendenza.
La gelosia, nella sua estrinsecazione comportamentale, è strettamente correlata alla qualità (culturale) nella gestione dell'aggressività. Diversamente dall'istinto che è un comportamento fissato dall'ereditarietà, caratteristico della specie, la pulsione invece è una costituente psichica che produce uno stato di eccitazione che spinge l'organismo all'attività, anch'essa geneticamente determinata ma suscettibile di essere modificata nell'esperienza individuale. (U.Galimberti)
M. Mead ha osservato che in alcune società tradizionali della Nuova Guinea il comportamento aggressivo si manifestava in modo assai diverso: gli Arapesh, allevati con grande affetto e con frequenti contatti corporei, da grandi risultavano particolarmente miti, pacifici e bendisposti, mentre i Mundugumor, allevati con un atteggiamento poco amorevole da parte delle loro madri avvezze a lasciarli da soli per tempi lunghi entro le ceste e scarsamente disposte ad allattarli volentieri, mostravano, una volta adulti, comportamenti estremamente aggressivi e crudeli.
E' evidente che la diversità consiste in una diversa gestione culturale dell'aggressività. I primi, che pur non essendo anaggressivi evitano di venire alle mani durante le liti, sono esortati a dare sfogo alla rabbia dirigendo la loro aggressività su cose neutre (sassi, pietre, ceppi di legno) che vengono scagliate a terra con tutto l'impeto desiderato, o a rotolarsi nel fango, battendo i piedi, urlando ecc. ma senza andare a confliggere con altre persone in uno scontro fisico.
L'impronta culturale e l'educazione che ne deriva fanno la differenza, incidendo significativamente nella gestione dell'aggressività che può essere canalizzata in forme diverse e diretta o no verso altri esseri umani. Esistono infatti culture che addirittura promuovono la degenerazione dell'aggressività in violenza enfatizzando la competizione a scapito dell'empatia e della cooperazione. Anche la tecnologia, così come pubblicità e media con le loro micronarrazioni mitiche, mostrano il loro potenziale deresponsabilizzante teso a distanziare il gesto dalle conseguenze dell'azione violenta (armi) o a manipolare le coscienze sollecitando in maniera subliminale ma potente le pulsioni sessuali e aggressive proponendole spesso congiuntamente e condizionandone così l'enfatizzazione della loro base biologica a discapito di quella culturale.
La privazione d'amore, oltre a deformare in senso aggressivo la personalità, la rende asociale e non permette lo sviluppo di lealtà, abnegazione, dominio di sè, coraggio, nè di tutte quelle caratteristiche altruistiche che presuppongono l'identificazione dell'individuo con gli altri membri del gruppo. Potremmo dire che genitori poco affettuosi formano personalità aggressive e che, al contrario, genitori affettuosi creano una disposizione identificatoria positiva e l'attitudine ad imitare il modello da loro offerto. Pertanto il bambino allevato in maniera equilibratamente affettuosa, conoscerà più probabilmente una gelosia "normale", gestita secondo un'aggressività sana.
Quand'è che la gelosia perde i connotati di reazione ed emozione sana ? Quand'è che diventa un sentimento (un feeling costante) malato?
Forse, potremmo dire, quando intacca la percezione del Sè, dell'Amato e dell'Altro-(Rivale), tingendosi di invidia, che è quel sentimento mai pago e distruttivo che riguarda tutto ciò che si vorrebbe avere ma non si ha e quando fa scaturire la perenne scontentezza di chi, sperimentando una condizione di inferiorità e pur mettendo in atto tutte quelle difese massive di cui può arrivare a disporre, esperisce sentimenti sempre ambivalenti, non coerenti e mai appaganti.
Nel caso di un Io fragile, la persona ricorre per sovracompensazione alla tendenza ad incolpare gli altri sempre e comunque per le proprie mancanze o per ogni motivo per il quale si senta minacciato, legittimando se stesso, anche a costo di alterare la realtà, a prendersi ogni merito del proprio successo. Così facendo si auto-preserva dal sentirsi inadeguato, fragile ed inutile preferendo, più o meno consciamente, sentirsi arrabbiato o indignato.
Questo meccanismo viene chiamato "distorsione autotutelante" ed è strettamente correlato al pensiero paranoico.
La paura dell'abbandono ingenera tristezza, rabbia, vergogna e disistima di sè; altera le percezioni e la memoria (nel geloso ad oltranza, si ha un aumento abnorme e selettivo dei processi attentivi che divengono parossistici e ruminativi), altera il pensiero in quanto diviene pensiero dominante o "delirio di riferimento" (ogni comportamento della persona amata diviene testimonianza e conferma dei sospetti non essendo mai considerato come casuale o neutro). Il desiderio ambivalente della maggior vicinanza e conoscenza dell'Altro (magari funzionale a scoprirne eventuali difetti e debolezze per meglio dominarlo controllandolo), unitamente al desiderio di segno opposto di rabbia, odio e ostilità, provoca smarrimento e disorientamento tali che fanno vivere il soggetto sotto costante minaccia di annientamento.
La distorsione autotutelante serve appunto a preservare illusoriamente l'Io ideale dalla minaccia di un Io fragile e compromesso qual è l'Io effettivo.
E' chiaro che più l'Io è fragile, minacciato da una bassa autostima e da credenze svalutative quali l'essere debole, poco amabile, inutile, inferiore, cattivo e destinato alla solitudine e al fallimento, più avrà la tendenza ad incolpare gli altri spostando fuori di sè ogni "responsabilità". Verranno usati massivamente meccanismi di difesa dell'Io quali la negazione (nego di avere dei problemi che mi faccia male riconoscere), la rimozione (accantono o dimentico ciò che in qualche modo mi nuoce) e la proiezione (non sono io che ho voglia di tradirti o che tradisco, sei tu che sei puttana).
Questo stato di fragilità, nel suo complesso, provoca reazioni intense , esagerate ed inappropriate rispetto alla realtà oggettiva della situazione, nella quale finisce col riproporsi l'Erlebnis di un antico, inestinto conflitto e dell'infedeltà ad un amore (quello materno) che doveva essere esclusivo.
L'origine di questa difesa sembra dunque collocarsi nella prima infanzia e nella non risoluzione del processo che dalla dipendenza conduce all'autonomia. Tutto resta fermo com'era intorno ai 3 anni, nella fase in cui non è stato ancora affrontato l'edipo nè si è sviluppato il narcisismo secondario che, sostenuto dal senso di realtà e dall'accettazione delle "norme del Padre", renderebbe possibile l'organizzazione del Sè reale. Il geloso patologico, angelo e demone, bloccato da mancanza di vera empatia, con spiccati sentimenti arcaici infantili, egocentrici, megalomanici e preedipici, è sostanzialmente impossibilitato a scegliere un qualsiasi movimento autonomo per trovare una collocazione nel triangolo edipico. Costretto a vivere di espedienti e furbizia nell'impossibilità di fare una scelta di movimento (salvare mamma dallo strapotere che papà esercita su di lei possedendola) per schierarsi al fianco di lei difendendola e affrontando l'ira funesta del padre talmente grande e forte da sembrargli onnipotente . Paralizzato nella sua paura di bambino e nella sua infantile impotenza, il narcisista non sceglie e non si schiera, rimanendo condannato a patire la minaccia soverchiante di una presenza paterna castrante. Impedito dal proprio senso di fragilità, inferiorità e inadeguatezza, condannato a vivere con il dolore della propria insufficienza, verrà spinto a svalorizzare tutto e tutti nella illusoria soddisfazione di sentirsene superiore e migliore. Nel contempo sarà altresì condannato a dimostrare perennemente le proprie qualità eccelse che gli permettano di affrontare le situazioni problematiche della vita, che peraltro lo fanno sentire perennemente sull'orlo del fallimento, mettendolo così in un antagonismo irrisolto con il padre come referente adulto edipico. Egli è in tal modo condannato ad una perenne gelosia e rivalità, e per questo condannato nel contempo ad una vita vissuta all'insegna del sembiante (apparire piuttosto che essere). Ancorato al proprio sembiante, ovvero ad un'immagine di sè compiacente -ipertrofico ma fragile nel medesimo tempo-, e in continua fase di manipolazione dell'Altro nel tentativo strenuo e vano di soddisfare la sua immagine dell'Io. Impossibilitato a ricordare così come a dimenticare, confinato nel personaggio che non può scegliere, così come da bambino non ha scelto di liberare la madre dai soprusi subìti nella scena primaria per opera della violenza paterna, si vede costretto a rinunciare a crescere. Crescere infatti significa affermare la propria individualità e libertà di scelta permettendo anche all'Altro la facoltà di scegliere a sua volta. Ma se il bambino che c'è in lui (l'animale orientato verso i bisogni urgenti del suo corpo per raggiungere il piacere, che non ha conoscenza del buono e del cattivo, che non distingue ancora la realtà dall'illusione o dal fantasma persecutorio e che non sa scegliere se ribellarsi od obbedire resistendo all'immediata soddisfazione dei bisogni e controllando in maniera opportuna la propria aggressività), gli fa temere che la mamma lo stia trattando come un oggetto che le appartiene nel mentre il padre gli è ostile, quello stesso bambino, una volta adulto, non consentirà libertà nè scampo all'Oggetto del proprio amore e quest'ultimo non avrà altra scelta che sottomettersi. D'altronde, per definizione, l'Altro è stato scelto (dall'alto in basso), ed il manipolatore-ultrageloso, identificandosi nell'imago della Madre primitiva determinata a distruggerlo per eliminarlo dal triangolo edipico come Altro incomodo oppure determinata a modellarlo sull'immagine che essa ha di lui, nello scontro di volontà che teme, fa emergere da adulto tutto il suo narcisismo perverso, improntato sul dominio e fondato sull'ostilità crescente del mors tua vita mea (vorrei distruggerti prima di venire fagocitato da te quale mantide religiosa che rischia di fagocitarmi).
Nella prospettiva cognitiva in cui il soggetto è indotto a percepire le valutazioni interpersonali come negative ed ingiuste, scatterà la difesa del sentirsi vittima di una persecuzione e come tale dell'essere autorizzato al rifiutare ogni critica condannando anzi il persecutore che ne risulterebbe la fonte. (Non è colpa mia, ma è colpa dell'Altro).
Ciò che interessa qui è tracciare un'esamina di ciò che costituisce il quadro della gelosia patologica.
Patologia è appunto sinonimo di vulnerabilità come condizione che si viene a creare a séguito di unvulnus, inferto dalla rinuncia al mito del possesso esclusivo dell'oggetto d'amore: la madre.
La gelosia adulta, alimentata da queste dolorose esperienze primarie non estinte che risuonano come un'eco costante al fondo della coscienza, può dunque manifestarsi con tutta l'amplificata percezione dell'infedeltà di un amore che si sperava eterno ed esclusivo.
Quando essa è patologica diviene perciò un sentimento costante, più o meno intenso, dal carattere delirante, fondato cioè su convinzioni soggettive piuttosto che oggettive. E' basata su inferenze illusorie piuttosto che su prove circostanziali sufficienti, e ricorda il desiderio spietato di un neonato che nulla sa dei desideri e delle esigenze di sua madre, talchè prova esclusivamente bisogno e non già empatia, compassione e comprensione. Sentendosi inevitabilmente e perennemente sottomesso finisce con l'inglobare nel suo inconscio l'immagine della madre-strega.
Il geloso patologico è un essere monco, incompiuto, in stato di perenne dissociazione che, al fine di prescrivere e assolvere la propria inettitudine e rendere legittima ogni propria debolezza, dipendenza e paura, si autoincensa e autogiustifica in maniera del tutto opportunistica e furbesca, spostando fuori di sè ogni responsabilità anche a costo di spostare progressivamente fino ad azzerarlo, il confine tra finzione e realtà, incorrendo nel serio rischio di non riuscire più a distinguere l'una dall'altra.
Esiste come disturbo a sè stante - annoverato come delirio di gelosia - ed è classificato tra i disturbi deliranti, ma esiste anche come sintomo correlato in altre forme di psicopatologia: per esempio nell'etilismo cronico, o come disturbo affettivo nella Depressione Maggiore oltrechè nel Disturbo Paranoide di Personalità.
Ciò che interessa qui è forse maggiormente quest'ultimo, ma è identificabile anche nella Personalità narcisista o Disturbo narcisistico della personalità, nel carattere schizoide, nella sindrome borderline, nella psicosi, nella caratteropatia, nella modalità "as if" pseudo-normale (personalità "come se").
Poco importa l'inquadramento nosografico, ciò che importa qui è cercare di comprendere il fenomeno gelosia nelle sue forme "esagerate" e perciò deliranti, al fine di riconoscerlo soprattutto quando si sviluppi nell'albero delle psicosi, piuttosto che come ramo che cresca nell'albero delle nevrosi dove la percezione della sofferenza è linfa che non perde mai di vista la reale consistenza e qualità del terreno dal quale trae nutrimento.
Data la crescente diffusione del narcisista patologico, personalità intrigante di conquistatore di successo, spesso ben dotato intellettualmente e culturalmente, verboso incantatore, paradigmatico dongiovanni, inesausto cupìdo sotto le cui frecce è facile cadere avvedendosi di essere vittima delle sue manipolazioni di solito quando è ormai tardi per non aver dovuto pagare un prezzo assai alto in conseguenza alla propria dabbenaggine e a un malriposto senso materno, sarà proprio di quest'ultimo che tratteremo qui.
Il narcisista patologico è un partner molto pericoloso che, in virtù dell'alto livello di testosterone - ormone maschile per eccellenza che governa sia la sessualità che l'aggressività -, mette in atto comportamenti di conquista destinati al subitaneo successo, ma non alla durata del rapporto. Egli infatti è incline a trattare un'altra persona come un semplice oggetto della propria libidine. Poichè nei suoi tratti caratteriali, assieme a un atteggiamento manipolatore, egocentrico e vanesio vi è una ridotta capacità empatica, il narcisista tende a un rapporto Io-Esso anzichè ad un rapporto Io-Tu. Ma attenzione: egli è un abilissimo dissimulatore: costruisce il proprio Sè attraverso una costante performance di presentazione al pubblico secondo un'attenta scelta di maschere con le quali tende a rappresentarsi recitando se stesso come in una commedia in cui egli domina la scena ed è esente da critiche. E' un esperto commediante logorroico, incline all'autocommiserazione, alla pigrizia, al tergiversare (ci penserò domani), alla non-scelta (chi non fa non falla), al servilismo, alla menzogna cronica inversamente proporzionale alla quantità di parole, storie e bugie che riesce a emettere, incline alla lamentela, alla polemica, alla diffamazione e al tradimento.
Questi suoi tratti caratteriali ne fanno un mirabile affabulatore. Finchè si sente al centro delle attenzioni va tutto bene; la sua megalomania lo farà sentire al riparo delle credenze valutative di base, che pure albergano in lui, all'insegna del "povero-me" (non essere amabile, risultare svantaggiato, inferiore, insultato, disprezzato, tradito, trascurato, ..), e porterà la sua partner in palmo di mano, quando invece per qualunque motivo si senta minacciato di abbandono o trascuratezza e le supercompensazioni che avrà adottato si renderanno inefficaci, anzichè sentirsi inadeguato, si sentirà arrabbiato e indignato. La distorsione autotutelante gli farà credere che il nemico sia all'esterno ed egli attiverà, tra le altre difese, un'incontenibile gelosia : usque ad sanguinem.
Come incoercibili sono i costrutti mentali che accompagnano l'esperienza passionale abnorme e prolungata nel tempo, ove i confini del sè fagocitano ed inglobano per così dire i confini dell'Altro, così i contenuti ideici coatti di una vischiosità epilettoide tenderanno ad autoalimentarsi in una sorta di delirio lucido, eliminando progressivamente ogni feedback con la realtà, fino a tradursi sul piano comportamentale in agìti irrispettosi ed oltraggiosi (di stretto, soffocante controllo data la sua diffidenza), suscettibili di diventare all'improvviso dispotici e brutali nei confronti dell'Altro. Da questo momento potrà venir fuori tutta la sua pericolosità. Senza risonanza ed empatia c'è cinismo ed un partner siffatto non avrà scrupoli a picchiare, ad avere reazioni scomposte e violente, e a riservare per sè "spazi di libero movimento"in molteplici relazioni extraconiugali che accortamente guarderà bene di tenere celate anche a costo di negare l'evidenza. Con ogni probabilità finirà col perdersi in una spirale di segreti e bugie, ed infine, quando avrà terminato di infierire sull'ultima vittima, semprechè questa abbia fortuna, impiegherà un tempo minimo a passare alla successiva. L'ostilità di cui è permeato gli precluderà ogni relazione normale fondata sulla complementarietà e l'uguaglianza.
Ecco allora che da persona intenta al mantenimento di standards comportamentali e culturali socialmente accettabili, la mefistofelica creatura può trasformarsi tutt'a un tratto in una spaventevole creatura che "arrossa e disfavilla", facile preda dell'ira priva di discernimento. Un vero diavolo (dadiaballein, dividere, calunniare) che separa inesorabilmente le meschinità umane dall'uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, dopo aver separato la passione dalla razionalità nell'accecamento del suo stravedere e dopo aver fatto emergere il "male" sottostante al "bene" fragile ed inautentico.
Il geloso patologico con personalità egocentrica è in ultima analisi incapace di oblatività, dà il suo amore finchè ne trae il proprio tornaconto; è furbo, è capace di pensieri e d idee in una dimensione solo cosciente e alessitimica (per così dire anestetizzato nelle emozioni e nel sentire), è cattivo nel senso etimologico (da captivo-prigioniero del proprio stato d'animo e del proprio falso-sè), come se si sentisse condannato all'imperativo ovidiano del "video meliora proboque, deteriora sequor" (vedo il meglio e l'approvo, ma seguo il peggio), come "cattiva" è la vedova, nel dialetto siciliano, in quanto oppressa dallo stato d'animo del prigioniero.
Come nella nota tragedia shakespeariana, dove Desdemona dimostra tutta la sua cecità di fronte alla gelosia che sta sconvolgendo Otello a causa dell' immagine idealizzata che si è creata di lui e che le impedirà di difendersi, così la vittima del geloso patologico rischierà il più delle volte di non accorgersi del carattere inautentico dell'immagine esteriore del Grande Seduttore e Amante Ideale sotto il quale si nasconde e "cova" null'altro che un pericoloso manipolatore.
Vale la pena di ricordare che, nell'atto finale della tragedia, Otello, dopo aver ammazzato la persona che più amava (la sua Desdemona, la quale peraltro gli ha inopportunamente offerto di sè l'immagine della donna-madre soccorrevole e consolatoria), si dà la morte egli stesso, nell'intento di "morire su di un bacio" attraverso cui suggellare illusoriamente un'unione per sempre, in un estremo, definitivo ricongiungimento.
Per concludere: siate prudenti e possibilmente lontani dall'Amante vittima del "soul murder", da quell'adulto cioè che vi lasci presumere di avere ancora una ferita narcisistica aperta e insanabile da renderlo bisognoso di un attaccamento troppo esclusivo dove non ci sia il necessario rispetto della reciproca autonomia.
L'amore presuppone fiducia (non diffidenza) e la fiducia richiede per sua definizione reciprocità avendo sempre bisogno di essere: bilaterale, sincrono e simmetrico.