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giovedì 22 dicembre 2022

ELFI vs BABBO NATALE


L'elfa di mia nipote si chiama Chiara 

Nel giro di pochissimi anni alle vecchie tradizioni natalizie che vedono imperare sopra tutte Babbo Natale, il buon vecchio dalla lunga barba bianca vestito di rosso, in molti posti come qui in Romagna, si va sostituendo o comunque aggiungendo il culto degli Elfi. Questi come è noto sono i suoi piccoli aiutanti, riconoscibili per le caratteristiche orecchie a punta sotto al cappello a cono rosso, lungo e stretto. Sono ammirati ed amati per il particolare carattere bonario e divertente oltre che l'inesausta vivacità nonostante le loro piccole dimensioni. A volte pasticcioni, scherzosi sempre, inclini al buon umore e nel contempo talora dispettosi, un po' come i bambini.

Chiara ama disegnare
Credo sia in atto una sorta di rivoluzione delle tradizioni natalizie che potremmo definire come il riscatto degli Elfi. Questi piccoli vitalissimi personaggi magici fino a ieri sono stati marginali in quanto “sudditi” di Babbo Natale, ma, di recente, sembrano acquisire sempre maggiore autonomia mano a mano che vanno spodestando l'indiscusso primato del Vecchio barbuto. Da personaggi subalterni e infimi, di poco o nessun conto se presi singolarmente in quanto la loro forza sta nel numero, questi simpatici esseri stanno assumendo un rilievo maggiore di là come di qua dall'Oceano, sempre più attenzionati e amati dalla pubblicità ma anche sicuramente dai bambini. Ancora una volta dall'America va prendendo piede anche qui in Europa una nuova usanza, una sorta di culto dell'elfo domestico, questa specie di nume tutelare vive nella cameretta di bambine e bambini. Abita entro questa un suo piccolo spazio, definito da un porticina, che originariamente era una mensola, come racconta il libro Elf on the shelf dal quale ha preso il via la tradizione di cui sto raccontando. Di qui si diparte ogni fine-giornata, col favore del buio, per espletare la sua funzione di controllore del bambino o bambina che affianca. Dovrà infatti verificare che i bimbi siano davvero meritevoli, riferendone in seguito a Babbo Natale. Il piccolo, simpatico, impertinenete soggetto è attivo in Italia durante tutto il periodo natalizio della Vigilia, dal 1 al 24 Dicembre quando finalmente, passata la Festa, risoltosi l'avvento, alla Vigilia della distribuzione di tutti i doni il giorno di Natale, attraversando per l'ultima volta la sua porticina magica (foto) dalla quale ha fatto il suo ingresso, farà ritorno al Polo Nord di dove è venuto. Notte dopo notte, scorrazzando indisturbato per casa mentre tutti dormono, talvolta si abbandona a giochi sfrenati e combina marachelle. Sembra però consapevole della sua natura talora incontenibile e della sua gioiosità e giocosità sfrenata. Per questo risarcisce i suoi involontari dispettucci veniali con piccoli doni a favore del controllato cucciolo umano di casa. E' così che la mattina ogni bambino può trovare traccia del passaggio dell'Elfo nella forma di qualcosa fuori posto, di un messaggio o altro, nonché talvolta in forma di un regalino reperibile vicino al pupazzetto che lo rappresenta e che si fa ritrovare, nel suo spazio, on the shelf o altrove, non sempre nel luogo e nella postura in cui lo si era lasciato la sera precedente. In questa rinnovata tradizione non abbiamo più il celeberrimo Babbo Natale come elemento magico centrale ripetto a tutto e a tutti con gli Elfi suoi aiutanti, per l'appunto quali corollario. Abbiamo invece il piccolo Elfo che diviene protagonista, in scena per il tempo lungo di quasi un mese. Nel suo essere visibile in forma di pupazzetto personale l'Elfo è distinguibile e distinto da ogni altro suo simile ma, nel contempo, pur risultando apparentemente inanimato in quanto di stoffa, viene percepito in qualche modo vivente, almeno una volta al giorno, dopo che al mattino del suo esistere si può meritare la prova. Piccolo com'è, tiene la scena per quasi tutto il mese di dicembre. Può essere caratterizzato nel sesso, femmina o maschio a seconda dei casi, a discrezione di chi lo possiede o di chi lo ha scelto, di come si è fatto trovare ed è apparso in camera, emozionante epifania prenatalizia. Nel piccolo spazio domestico che questi occupa, accanto ad una porticina e a una scaletta, l'Elfo è come una bambola o, se vogliamo, una marionetta. Può essere vestito e acconciato nonché adattato a una piccola abitazione o messo a cavallo di un destriero, al pari di una Barbie. Di giorno quindi è ciò che appare, di notte invece, e in ciò consiste la sua magia, lontano dagli sguardi si anima e prende vita. 

Con la sua amica Anna combina malestri
Disponendo di tutta la necessaria autonomia delle cose animate si muove indisturbato e sovrano, e allaccia giochi con animali domestici e altri pupazzi perchè questo rientra nella sua precipua natura. Potremmo dire che il ruolo dei simpatici Elfa o Elfo ha quasi soppiantato quello del gentile bonario Vecchio vestito di rosso con lunga barba bianca e occhiali, assumendo un simpatico rilievo fino al protagonismo. E' infatti grazie al lungo lavorìo di questi magici piccoletti con le caratteristiche orecchie a punta che Babbo Natale saprà se il bimbo sia meritevole e che di conseguenza deciderà di lasciare o meno i suoi doni. Nello stesso tempo il bambino avrà modo di vivere a lungo la magia di un rapporto privilegiato con “il suo” piccolo personaggio, simile al folletto, che lo conosce bene e che continuamente gli fa pervenire un feedback in forma di segni, di piccolissimi doni quotidiani e talvolta di brevi messaggi. C'è qualche Elfo che addirittura scrive sorprendenti testi in rima baciata! Ciò che incanta e seduce è proprio lo stretto rapporto tra bambino ed elfo, quasi come fosse un avatar, in cui ciascuno può identificarsi. Non dimentichiamo poi che il pupazzino con cui di giorno si può giocare, lo stesso che si può portare in cartella a scuola a guisa di amico/a o di oggetto transizionale, che diversamente si può portare con sé quando si andasse in visita da un coetaneo, ha uno stretto rapporto anche con i genitori. Saranno questi ultimi infatti a muoverne i fili giorno dopo giorno, con fantasiosa e affettuosa disponibilità. L' Elfo dunque è diventato un personaggio dal ruolo tutt'altro che marginale. Piace ai bambini che in esso si identificano e in esso confidano, piace ai genitori in quanto tramite per lo stabilirsi di un tanto segreto quanto stretto legame con il figlio, e consente infine ai genitori di confrontarsi fra di loro e collaborare con altri genitori. Quando si esaurisce la fantasia quotidiana si possono .cambiare idee circa, per es, quali possano essere nuovi minuscoli regalini, quali nuovi dispettucci si possano inscenare, ecc. E' un tempo dell'attesa condiviso fra grandi e piccini e, tutto sommato, volendolo, anche fra genitori, in amicizia e buonumore. Per concludere, direi che questa nuova liturgia natalizia, una nuova tradizione iniziata da un tempo relativamente breve e sviluppatasi in alcuni territori più che in altri che si va imponendo ed estendendo sempre più a macchia di leopardo, può essere accolta favorevolmente. Personalmente spero anzi che prenda piede stabilmente e diffusamente, sembrandomi positiva per le sue caratteristiche di laicità, “democraticità”, partecipazione e collaborazione. Dopotutto è anche un inno alla frugalità, non contando tanto il peso specifico del regalo, del tutto inconsistente, quanto la sorpresa e la corrispondenza al desiderio di riconoscimento o premio, al di là del suo valore commerciale. Il fatto poi che garantisca per la durata di venticinque giorni il rinnovarsi di un piacevole stupore che riempie il tempo dell'attesa premiando il bimbo se il comportamento sia stato adeguato, la fa apprezzare particolarmente anche come mezzo educativo. 

Si diverte con i suoi amici pupazzi
Mi sembra possa essere uno sprone a vivere con gioia e levità, ad agire con meraki, direbbero i greci. Meraki, to meraki, non si può tradurre con un solo vocabolo corrispondente chè in italiano non esiste, per comprenderne il significato bisogna utilizzare più d'una frase. Potremmo dire che meraki è un modo di stare al mondo secondo una filosofia di vita propria, “su misura”, che risulti appagante. E' agire sostenuti dalla passione esercitando la propria creatività provando piacere e, beninteso, ognuno, il meraki, può provarlo anche nel mentre sta stirando con la radio sintonizzata su un canale di musica classica che dia sfondo ai pensieri. E' avere contezza di stare realizzando in qualche modo il proprio dàimon nella consapevolezza di essere vivi, in una vita vissuta “al timone” secondo le proprie inclinazioni, confidando nella riuscita e progredendo senza sforzo con soddisfazione. Essere un meraklìs, uno intriso di meraki, significa procedere con quel sentimento di levità e contentezza che orienta i muscoli facciali al sorriso esprimendo benessere, cercando di fare le cose nel modo migliore, e riuscendo perciò a trarne estro creativo e soddisfazione. Il piccolo Elfo è in qualche misura un magister vitae che insegna senza insegnare, mai supponente o punitivo. L'Elfo piace e si piace. Conosce l'importanza della collaborazione, nel suo cuore non albergano sentimenti di rivalità con “i fratelli” elfi, né di scontento per il proprio ruolo che non sente subalterno, ma piuttosto soltanto “altro” nella rappresentazione del Natale. Non prova sentimenti di rivalsa nei confronti buon vecchio Babbo cui dona infatti il proprio aiuto nella fabbricazione e distribuzione di quei regali richiesti in forma di letterina e che ogni anno infatti anche grazie a lui, verranno evasi puntualmente. Sa di essere necessario alla magia del Natale in quanto aiutante di un vecchio che da solo non riuscirebbe mai a caricare la slitta e tantomeno a recapitare i doni a ciascun bambino meritevole del mondo. Questi magici, simpatici, infaticabili piccoletti che nottetempo adorano giocare, conoscono bene l'indulgenza di chi rimetterà in ordine il risultato del loro divertirsi talvolta goffo e pasticcione, e ne confidano. 

Arriva e riparte da questa porticina magica
 Anzi, consapevoli della loro maldestrezza o imperizia, non dubitano che le loro marachelle verranno accolte dagli altri abitanti della casa con assoluta benevolenza e divertita indulgenza. Peraltro, grazie ai loro regalini, per quanto piccoli e di scarso valore, risarciscono e sanno farsi eventualmente perdonare. Oltre tutto, è notorio che ciò che piace ai bambini non è tanto il regalo in sé, quanto la scoperta di cosa sta dentro. Degli ovetti Kinder si desidera la sorpresa mentre spesso l'involucro di cioccolato che la contiene viene disdegnato.  

lunedì 16 maggio 2011

Felicità - Breve discorso sul Ben-Essere, ovvero sulla felicità intesa come Eudaimonìa


Ciò che ogni studente di liceo classico ricorda, è che la parola eudaimonìa veniva sbrigativamente tradotta, nelle versioni dal greco antico, con felicità. E spesso ciò che intendiamo per felicità corrisponde al benessere, alla gioiosa soddisfazione, od alla consapevolezza della piena realizzazione di sè e delle proprie aspirazioni; un ben-essere contrapposto al mal-essere.
Intesa così, la parola rimanda al significato etimologico del termine greco.
Con una certa approssimazione si può dire che raggiungere l'eu-daimonìa sia possibile a patto di essere in un accordo armonico con il dàimon che affianca ognuno di noi come uno spirito-guida che gli dèi possono accordarci, semprechè noi si sia disposti ad ascoltarlo, per perseguire il bene (anzitutto ciò che per noi stessi è bene); e a patto di passare inevitabilmente attraverso il "Γνώθι σεαυτόν" (conosci te stesso) alla ricerca di riconoscimento, senza il quale non si costruisce alcuna identità, e l'educazione, che permette a sua volta una lenta acquisizione, mediante riconoscimenti, della gioia di sè.
Sarebbe dunque una sorta di amico divino che è dentro di noi, una sorta di possibilità a priori assegnata a ciascuno, capace di guidarci istintualmente verso il bello ed il buono come valore etico (kaloskagathòs) e, come tale, è essenzialmente uno stato d'animo spirituale, una qualità interiore che rende l'uomo sereno (beatus). La qualità interiore, poi, si estrinseca e regola la condotta, l'ethos, in una modalità etica.
Se nel corso della vita il proprio dàimon ha una buona (dal greco "eu") realizzazione, allora sarà possibile raggiungere la felicità, la quale pertanto non consiste nel raggiungimento di cose (denaro, status simbol,...) al di fuori di noi, ma piuttosto nella buona riuscita di sè o, meglio, nella realizzazione del Sè. Il dàimon è una sorta di fatalità interna, di destino individuale che vale la pena di assecondare procurandogli opportune fatalità esterne. Già Democrito ricordava che la felicità ed il suo contrario sono fenomeni dell'anima (psyche), talchè questa prova piacere o dispiacere a seconda che si senta o no realizzata.
Corrisponde all'augurio tibetano "tashi delek", traducibile con "lieta benignità e pace universale", inteso come auspicio ad ascoltare il buon dàimon, liberandosi dall'ignoranza, dalle sovrastrutture, dall'ingordigia e dall'attaccamento alle illusioni smodate e narcisistiche che sono alla base dell'invidia, della rabbia e dell'odio e, a ben riflettere, anche a quello romano antico di "salve" che sta per "salute a te", una salute olistica, fisica e psichica.
La felicità intesa come eudaimonìa corrisponderebbe pertanto alla realizzazione delle proprie potenzialità e abilità, nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, trovando la piena realizzazione in quella che Alan S. Waterman definisce "espressività personale", intesa come possibilità di svolgere il proprio personale processo di individuazione (divenire ciò che si è) dando voce a quelle inclinazioni ed abilità che costituiscono, per ciascuno di noi, il "vero sè", e che sono a fondamento del benessere individuale.
Ma per una piena e soddisfacente autorealizzazione, e ancora una volta gli antichi Greci ci vengono opportunamente in soccorso, è necessaria la virtù (areté) secondo misura (katà métron), con cui dar forma alla propria forza imparando a governare se stessi dandosi delle leggi piuttosto che dovendo subire passivamente la legge degli altri. Come osserva Aristotele, la felicità come disposizione dell'anima (eudaimonìa) è già il vivere bene (eu zen), e la vita buona (secondo bontà) è il fine della vita.
Nella rivendicazione dei diritti naturali con cui si apre la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 leggiamo che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il «diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce così che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza. Viene dunque recepito il catalogo dei diritti di matrice giusnaturalistica e ad esso si aggiunge la felicità come fine ultimo che ciascun individuo è chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte. Un ordine politico razionale deve ruotare intorno ai concetti di libertà e di diritto: la libertà, la quale consiste nella possibilità per ciascun individuo di ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà migliore purché non renda pregiudizio alla libertà degli altri , ed il diritto, che deve recepire e codificare questo valore[1]
Un recente studio studio di Harvard, che rileva come la somma totale della bontà della natura umana soverchi abbondantemente quella della cattiveria, ha un incipit che comincia più o meno così: "questa ricerca fornisce il primo grande indizio a favore dell'esistenza di un "possibile universale psicologico"; gli esseri umani ereditano una tendenza, ancora più forte di quella ad essa contraria, verso la tenerezza, la compassione, la cooperazione..., soprattutto verso chi è in difficoltà e, da questo impulso altruistico, ricavano benefici psicologici...", come a dire che, a ben cercarla, sarebbe possibile testimoniare sperimentalmente un'identica base nell'animo umano: il senso etico innato. Potrebbe essere il "buon dàimon"?
A quanto so, nel vocabolario ebraico non esiste il corrispondente di felicità, esistono invece cinque diverse accezioni di "gioia", cinque diversi stati dell'anima che rendono possibile il ben-essere. Mi sembra saggio e meno fuorviante.
Felicità, in ogni caso, non può essere uno stato perenne, ma semmai occasionale e raro, quasi mistico.

Come promuovere la felicità (intesa come eudaimonìa)

Posto che l'era della tecnica, dopo il dominio della filosofia romantica come tratto tipico dell'antropologia occidentale, è l'epoca della disillusione e del nichilismo in cui l'umana hybris - dal greco antico "Ǜβρις"- (la tracotanza che abbiamo osato al fine di sentirci "animali superiori" al centro dell'universo), ha già squagliato le ceree ali a quelli tra noi che, immemori di Icaro, ambivano un posto in prima fila nell' Empireo, serve ora in maniera più che mai urgente trovare una qualche risposta al "disagio della civiltà". Serve superare il paradigma tecnico-scientifico che mira ai risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure senza proporsi alcun fine da realizzare. Serve poter ridare senso all'esistenza, dopo esserci smarriti in quell'orizzonte dispiegato dalla ragione e dalla conoscenza nel quale ci troviamo dis-orientati.
Orientarsi, ritrovare l'oriente, il senso, per sopportare e superare le difficoltà del vivere quotidiano cosiccome la frustrazione del sentirsi smarriti in un universo valoriale in disfacimento, equivale ad avere uno scopo. Abbiamo bisogno di sapere che il nostro procedere, muoverci ed adoperarci non è vano, nè può essere solo un insensato procedere verso l'ineluttabile fine.
La nostra società fondata su tanti piccoli ego che hanno come unico orizzonte il proprio ombelico, ovvero fondata sull'individualismo, sulla reificazione financo dei sentimenti, sull'efficienza e il tornaconto, sulla mercificazione e sul denaro (che, come dice Massimo Fini, dal punto di vista individuale costituisce un credito, ma preso globalmente è un debito sempre più colossale e disastroso), di certo non aiuta.
Credere che la felicità abbia a che vedere con l'umore e con i di-vertimenti (distrattivi cui tendiamo quando volgiamo lo sguardo in un illusorio e improbabile altrove) è fuorviante.
Ma se noi riflettiamo sul fatto che la felicità non è nelle cose e non sta al di fuori di noi bensì dentro di noi, allora potremo esercitarci opportunamente a conquistarcela.
Dopotutto il piacere (Voluptas) è la mèta del processo evolutivo modellato sull'unione di Eros (Amore) e Psiche (Anima). Voluptas nasce dall'incontro di Eros e Psiche; dalla conoscenza e dalla passione anche carnale nasce, come meravigliosa sintesi, sia la sensuale voluttuosità sia una beatitudine trascendente i sensi, in una parola: il ben-essere.
Prendendo in mano le redini della nostra vita nell'intento di realizzare le nostre potenzialità e abilità naturali, identificato un qualunque stimolo adatto a noi capace di sostenerci nella motivazione e spingerci verso le cose, verso le situazioni, verso gli altri, verso le opportunità, per ottenere il maggior livello di serenità e appagamento possibile, le occasioni non mancheranno.
Occorre individuare ed esercitare le proprie potenzialità, quelle in cui ci riconosciamo perchè rispondenti alle nostre particolari inclinazioni; in questo modo ci potremo sentire pieni di vita e di energia.
Nella scelta ci orienterà il daimon. Per qualcuno si tratterà di esercitare una qualche attività manuale e pratica, per qualcun altro la passione per la natura, la musica, l'arte, o una qualunque delle varie helping professions, ecc. Se ci dedichiamo a ciò che ci gratifica e appassiona, la nostra vita migliora e si riempie di significato.
Quando ci si immerge in attività concernenti le proprie potenzialità sarà come nel gioco quando il tempo e lo spazio sono a geometria variabile, la fame e la sete stimoli silenti che non urgono e la serenità creativa e l'energia ci sostengono all'insegna della leggerezza (nella letteratura anglosassone questo stato è definito "flow").
La felicità consiste dunque nel vivere esperienze sintoniche con la propria natura profonda, è industriarsi in maniera appassionata rallegrandosi del proprio operato, sta nel gusto di fare più che nella valutazione delle cose fatte, con creatività, attraverso l'incontro .
Victor Frankl, psicanalista, scampato ad un campo di concentramento, definì una particolare forma di sofferenza : la nevrosi noogena, non già frutto di un conflitto emotivo tra il principio del piacere ed il principio di realtà (Freud), ma provocata da un problema spirituale, un conflitto etico, una crisi esistenziale (di origine noetica, dal greco "nous": mente) che compromette la stima di sè. Per quest'autore "ogni uomo alimenta infatti un sentimento di autostima che oscilla in relazione ai valori che incarna. Ad un valore elevato corrisponderà un'autovalutazione elevata". Ogni epoca, infatti, ha le sue nevrosi specifiche e necessita di terapie specifiche. "L’uomo di oggi - commenta Frankl - più che frustrato sessualmente, risulta essere esistenzialmente frustrato. Non prova più tanto il senso d’inferiorità (di cui parla Adler), quanto un sentimento di futilità, di mancanza di significato e di vacuità : il "vuoto esistenziale". E, nell'intento di colmare questo vuoto di senso, potrà lasciarsi vivere (trascinando un'esistenza grama o dipendendo dal Prozac o perseguendo il più sfrenato edonismo), potrà deprimersi fino al suicidio (aggressività autodiretta) o fino all'omicidio (aggressività eterodiretta), oppure potrà cercare consolazione, compensatoria quanto illusoria, nell'uso di una qualche droga (ivi compresa la compulsione al gioco d'azzardo).
Un filosofo e psicanalista - Miguel Benasayag - insieme allo psichiatra Gérard Schmit, ha pubblicato di recente un saggio dal titolo "Le passioni tristi. Sofferenza psichica e crisi sociale", laddove la definizione di "passioni tristi" rimanda al conio del filosofo Spinoza. I coautori hanno ragionato su quella che appare essere la motivazione dominante che spinge i richiedenti aiuto ai Servizi di consulenza psicologico-psichiatrica: la tristezza. Pervasiva della società contemporanea, conseguente al diffuso e permanente sentimento di insicurezza e precarietà, non rappresenta il disagio del singolo (della stragrande maggioranza dei singoli), ma è diventato disagio della civiltà, sinonimo di crisi sociale in cui il futuro si profila come minaccia e non già come speranza.
A tutti è noto che "di doman non c'è certezza", il guaio è che sembra diventato difficile, quando non impossibile, coltivare la speranza, quella "spes ultima dea" senza la guida della quale ogni umano sforzo appare inutile.
Recuperare la speranza (che altro non sarebbe, stando al parere di Aristotele, se non un sogno fatto da svegli); questo è ciò che ci necessita per superare l'empasse esistenziale. E ciò si rende possibile a partire dalla costruzione dell'autostima, di un adeguato concetto di sè capace di comprendere i propri punti di forza, ma anche paradossalmente i personali, del tutto umani, punti di debolezza e limiti. Perchè è pur vero che "ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera", ma a queste sole condizioni: "chi vuol esser lieto sia".
Solo così potremo superare l'utopia modernista dell'onnipotenza umana in una società dove, per dirla con Nietzsche, dio è morto, e, parafrasando Woody Allen, pure Marx è morto e anche noi non ci sentiamo tanto bene. Solo così potremo superare lo scontro di filosofie e di approccio che è presente nella società tanto quanto, oramai, nella coscienza individuale di ciascuno di noi (e che ci fa pretendere, per esempio, cibo genuino “come una volta” e nel contempo l’ultimo modello di telefonino con servizi tecnologici sempre più evoluti); solo così potremo districarci opportunamente, in quest' Era della Contraddizione e dell’Incoerenza che ci vorrebbe consumatori passivi condannati ad una fretta perenne che non lascia tempo alla ri-flessione (etimologicamente, al ripiegamento all'indietro per connettere il presente con ciò che abbiamo visto, in un volgersi all'interno verso immagini ed esperienze psichiche), abbandonando l'eccessiva inclinazione al negotium a favore dell'otium come tempo per meditare soffermandoci ad elaborare i pensieri.
La ricerca della felicità è sostenuta dal desiderio che, come ci ricorda Platone, implica una lacuna, una mancanza (dal lat. de-sidera: in mancanza di stelle da cui trarre auspìci per il futuro). Esso, per sua natura, tende a volare sulle ali della fantasia, con il rischio di condurci lontano dalla realtà e da tutte le sue implicazioni fino a trasfigurarla alterandola pesantemente.
Ciò non deve succedere; esso deve potersi mantenere vivo e pressante, costituendo l'agente propulsivo più forte dell'azione umana nonchè il principio della vita psichica, ma, nello stesso tempo, per la ricetta del conseguimento di piacere e soddisfazione, deve passare attraverso la realtà con una attenzione estetica (dal greco "aìsthesis"= sensazione che dal "sensibile" conduce al "bello"). Nel caso la soddisfazione del desiderio venga pretesa nell'estinzione rapida e immediata di quella "mancanza", il piacere conseguito sarà allora di tipo an-estetico poichè anestetizza dalla "cura" del mondo e, come nei bambini, intenti per definizione a pretendere una soddisfazione immediata, egocentrica e non mai differita del piacere, così nei tossicomani, l'appetito si farebbe divorante, insaziabile, ed il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivelerebbe sempre più insoddisfacente, impedendone il godimento.
Come l'estesia del parto (dolore) finisce nell'an-estesia (fine del dolore) e rende possibile la soddisfacentissima epifania del risultato (il bel neonato), così dalla buona sensazione (fine del dolore) si può pervenire alla sensazione del buono (aver fatto qualcosa di buono che corrisponde al risultato del parto). Come si vede dall'esempio paradigmatico del parto, il conseguimento del risultato si rende possibile solo attraverso l'esperienza della fatica (o sforzo), ed essa è tipica della condizione umana, come ci suggerisce, in maniera mirabilmente sintetica, il libro della Genesi -nei passi 3, 16 e 3, 19- dove si preconizza che, dal momento della fuoriuscita dall'Eden, la donna partorirà con fatica e l'uomo mangerà il pane guadagnato col sudore della sua propria fronte[2]
Per restare nella metafora potremmo dire che, per il conseguimento del ben-essere o della felicità, la gratuità non paga. Senza compiere alcuno sforzo, ogni uomo non potrà che cantare tristemente o rabbiosamente: "I can get no satisfaction". Non per caso, una forma di aneidonia e invidia (e dunque di infelicità) si osserva paradossalmente anche in coloro i quali "hanno troppo in maniera troppo facile" chè, condannati all'assuefazione, ai piaceri e ad una facile ricchezza, finiscono con il contrarre "hedonic treadmill", una "ruota di mulino edonistica" che, girando continuamente, impedisce in maniera inesorabile la corresponsione della soddisfazione a tanta facile abbondanza, costringendoli ad un piacere sempre maggiore per poter provare un grado costante di soddisfazione minima.
Di contro è anche vero che bambini del cosiddetto terzo mondo sembrano essere perfettamente soddisfatti e felici, o perlomeno mai ingrugnati e nevrotici come spesso accade di vedere alle nostre latitudini, anche se poveri o indigenti. Chiunque abbia fatto un viaggio in Africa, e, attraversando lunghi tratti di strada assolati e deserti a bordo di una jeep, si sia imbattuto nel gioioso "assalto" di un gruppo di bambini di ogni età festosi e comunicativi, per quanto seminudi e sporchi, intenti a giocare a ridosso di un qualche agglomerato di umili capanne, o in altri, ordinati nelle loro divise scolastiche, intenti a percorrere talvolta lunghissime distanze da o per la scuola, tutti ugualmente e serenamente scherzosi, sorridenti e divertiti tra loro come di fronte all'estraneo, sa di che parlo.
Ai nostri occhi, tanta sincera gioiosità appare quantomeno strana. Il segreto della loro "naturale" felicità risiede con ogni probabilità in almeno tre fattori fondamentali: 1) il senso di appartenenza alla loro comunità, 2) la condivisione delle condizioni socio-economiche oltrechè del sistema valoriale, delle credenze, dei riti, delle speranze come delle paure, ecc. e 3) la capacità di servire la propria comunità di appartenenza sentendosi investiti di un ruolo che si riveli utile e necessario (andare a prendere acqua o legna, badare al bestiame, aiutare gli anziani, i più piccoli o i malati, ecc.).
Fin da bambini è dato loro di avere ben chiara la propria identità; possono coltivare una positiva stima di sè (sentendosi belli, buoni e bravi secondo la mia personale teoria delle 3 "B" - cfr. questo blog -), sentendosi pienamente parte della loro comunità (villaggio, tribù, nazione) in un clima di reciprocità, comunicazione e comunione.
Queste tre condizioni sono naturali e necessarie per ogni essere umano che, va ricordato, è un animale sociale.
Non dimentichiamo che l'uomo è artefice (costruisce con mano) della sua propria fortuna e la fortuna, che aiuta chi osa e non chi rimanga immobile nell'attesa, contempla sempre l'esercizio di una sana aggressività intesa non già nel suo significato semantico, bensì in quello etimologico di andare-verso (dal latino: "ad-gredior") come necessaria pressione ad agire che, come tale, tiene lontano dalla de-pressione, rendendo possibile un godimento appetitivo della vita attraverso il coinvolgimento dell'alterità e del mondo, nella cura e nel rispetto della libertà propria e altrui.
In ogni caso, la felicità non è una cognizione (qualcosa che si sa) ma è un'esperienza dell'animo, qualcosa che si sente. E' senza dubbio conseguente alla capacità di provare gioia, e la capacità di provare gioia è strettamente correlata alla resilienza, ovvero alla forza d'animo intesa come facoltà di superare gli alti e bassi della vita ritornando ad uno stato di serenità.
Naturalmente il termostato emotivo che ci riporta ad uno stato di normale serenità, pur dipendendo in parte dal temperamento innato che ci rende più o meno inclini a provare gioia o tristezza, non è fissato alla nascita in maniera irreparabile. Certo può abbassarsi significativamente nel corso dell'infanzia, a causa per esempio di un deficit di accudimento o di fattori traumatici, perchè la percentuale di serenità e gioia nelle prime relazioni costituisce una sorta di imprinting nella formazione dei percorsi neurali della felicità (è un campo di esplorazione, questo, assai recente che implica lo studio del cervello e della sua biochimica, applicato alle emozioni e denominato neuroscienza affettiva), ma può anche essere "educato", creando una diversa e maggiore competenza emotiva.
E' dunque possibile affinare la capacità di vedere il lato positivo delle cose operando una "ristrutturazione" cognitiva e quindi emotiva.
Lasciamoci sedurre dagli incanti della vita, dalla confidenza, dalla partecipazione, impariamo a relativizzare piuttosto che assolutizzare sia il piacere che il dolore tenendo a bada le tempeste emotive, senza ripudiare il desiderio per timore della delusione e senza spingerlo al parossismo, ma piuttosto assecondandolo e incanalandolo verso vie sostenibili, in maniera da perseguire obiettivi compatibili con le nostre possibilità e perciò raggiungibili.
E' necessario superare l'autismo sociale che altrimenti ci condanna alla solitudine e allo smarrimento, confidando nelle potenzialità rigenerative dei legami personali, confidando nell'Amore declinato in tutte le sue espressioni (sociale, parentale, di coppia, amicale...), coltivando la compassione (da cum-pateo, sono disposto a soffrire insieme con) ma anche la forza dell'immaginazione e il coraggio della sfida, in modo da coniugare Eros con Psyche.
Non va dimenticato che proprio la neuroscienza sociale ci suggerisce che i legami sociali svolgono un ruolo nella ristrutturazione del nostro cervello e che nel contatto sguardo-sguardo (ma anche voce-voce e pelle-pelle) i cervelli entrano in risonanza e la qualità delle innumerevoli interazioni quotidiane influisce sulla biochimica e sulla organizzazione dei circuiti neuronali: è proprio il caso di dire che quando sorridi, il mondo sorride con te e tu stesso puoi innescare una reazione circolare, per così dire, di contagio emotivo.
Come già sostenevano i latini : "(homo) faber est suae quisque fortunae" perchè l'uomo è fabbro (nel senso di artefice che fa con gli arti) della propria sorte potendo costruire e la propria fortuna e la propria sfortuna. Tutt'e due queste, e non soltanto "la sfiga" come direbbe Lupo Alberto, sono sempre in agguato.
Fronteggiare una novità implica sempre una crisi e la crisi una scelta tra elementi conflittuali[3] Il nuovo costituisce nel contempo sia una minaccia che un'opportunità: è la storia del bicchiere pieno a metà che può essere percepito mezzo pieno o mezzo vuoto. Direi che conviene cercare di leggerlo come un'opportunità; nell'un caso e nell'altro avremmo la probabilità di avere ragione al 50% . Perchè non rischiare, allora? Proviamo a dar credito a Tucidide quando affermava che "il segreto della felicità è la libertà, è il coraggio!"
Per concludere, volendo sintetizzare una possibile "ricetta per raggiungere la felicità intesa come eudaimonìa", ciò che necessita è il coraggio di essere se stessi imparando a sviluppare una sana assertività la quale implica eminentemente tre cose: conoscenza di sè (del proprio mondo interiore inteso come insieme delle proprie attitudini, dei propri bisogni, dei propri punti di forza e debolezza, nella aretè-kata métron), autostima (sicurezza di sè, rispetto per la propria persona, per la propria individualità ed unicità) e rispetto del prossimo. Il comportamento assertivo consente dunque l'edificazione di rapporti interpersonali costruttivi e trasparenti, senza che ci sia prevaricazione dell'altro e senza che ci si lasci prevaricare, a favore della libertà propria nel rispetto della libertà altrui.

Bibliografia


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[1] Vedi http://cultureeuropee.irrepiemonte.it/orienteoccidente/ap_7.htm.

[2] Questa traduzione fedele dall'ebraico antico è ad opera di Erri De Luca.

[3] La parola cinese per "crisi" è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione, secondo alcuni fallace, che i caratteri di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti che i due caratteri significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità". Molti linguisti considerano questa idea una colorita pseudoetimologia, poiché da solo non significa necessariamente "opportunità". In effetti, wēi significa approssimativamente "pericolo, pericoloso; mettere in pericolo, rappresentare un pericolo; periglioso; precipitoso, precario; alto; paura, timoroso" (come in wēixiăn, "pericoloso"), ma la parola polisema non significa necessariamente "opportunità". La composizione jīhuì significa "opportunità", ma è solo una parte di essa; assume numerosi significati, tra cui "macchina, meccanico; aeroplano; occasione adatta; punto cruciale; perno; momento incipiente; opportuno, opportunità; occasione; collegamento chiave; segreto; inganno". Mair suggerisce che in wēijī sia più vicino a "punto cruciale" che a "opportunità". Da: www.wikipedia.it.