lunedì 8 ottobre 2012

Saggezza e vecchiaia sono correlate?

E' opinione comune che saggi non si nasce, saggi si diventa. La saggezza o sapienza, sembra essere un qualcosa che si acquisisce di pari passo con l'età come una sorta di ricompensa del lungo evolversi della mente. Una specie di risarcimento per controbilanciare l'avvizzimento, la presbiopia, la perdita dei denti e della memoria retrograda. E' il paradosso esistenziale dell'invecchiamento: compensa ciò che si perde. Più si invecchia, più si ha la possibilità di sviluppare un investimento oculato delle energie psicofisiche, si controllano meglio gli impulsi e si diviene più capaci di autocritica.
Saggezza è, potremmo dire, il contrario dell'audacia e della sventatezza, è osservare l'11° comandamento, quello che recita "non esagerare!"
Saggezza è sensatezza, è accortezza, è prudenza, è sapersi risparmiare, è saper tesaurizzare, è, se del caso, piegare la gobba oggi per raddrizzarla domani. E' anche non mancare ai riti di passaggio, come direbbe il Malaussène di Pennac, "accettando i mutamenti ma non le mutazioni, ingrossando senza gonfiare, maturando senza avvizzire, evolvendo e valutando, progredendo senza rimbambire, invecchiando senza troppo ringiovanire, accettando di morire senza protestare". Perchè "è nulla il morire, spaventoso è il non vivere" (Gramellini "Fai bei sogni").
Saggezza è la capacità di valutare in modo corretto, ponderato ed equilibrato le varie opportunità scegliendo secondo ragione ed esperienza.
Saggezza è non farsi prendere dall'autocompatimento, ed è anche trovare il proprio modo di opporsi a certe realtà per trasformarle nel sogno che ci abita dentro, scartando le speranze che siano solo futili e illusorie per abbracciare convintamente il motto oraziano del carpe diem al fine di non sprecare nemmeno un giorno.
Mano a mano che decrescono la forza muscolare, la durata del sonno filato e in generale molte altre prerogative di gioventù, cresce invece, come una forma di risparmio, l'attitudine naturale ed istintiva a lasciar perdere dove non valga la pena di accanirsi, utile a concentrarsi solo laddove vi sia una buona probabilità di riuscita, di successo.
La saggezza è una possibilità che ci si offre: sta a noi scegliere se sia un dono o una menomazione che ha il sapore della resa. Forse aumenta la capacità di sopportazione mano a mano che diminuisce l'impazienza. E' come se la mente si abituasse a fare, perennemente e in automatico, un bilancio tra l'essenziale e il superfluo per suggerirci di volta in volta dove valga la pena di investire energie, anche quelle che servono ad arrabbiarsi e indignarsi, o a perdonare senza per questo dimenticare come fa l'ingenuo.

Secondo gli stereotipi più diffusi, la saggezza è impersonificata dal gufo con gli occhiali o dalla tartaruga (vedi "La spada nella roccia" di Walt Disney e "Momo" di Michael Ende).
Entrambi questi animali rappresentano inequivocabilmente la vecchiezza (per il richiamo ad una longevità straordinaria, alla rugosità e alla lentezza dell'incedere nella tartaruga, o per la latenza di risposta nell'apparente tendenza al black-out nella letargia del gufo, oltrechè per l'inesorabile perdita di una precipua caratteristica, l'acutezza della vista (quantunque compensata con la capacità di essere maggiormente pre-videnti) in entrambi.
Protetta dal suo freddo carapace, nel quale è pronta a ritirarsi in piena autonomia autistica, la tartaruga incarna al meglio la rappresentazione del vecchio, non tanto in quanto creatura ctonia e tenebrosa per via di quei suoi occhietti ostili che le conferiscono un'espressione maligna e poco affidabile (il che giustifica certo timore repulsivo che talora certi vecchi incutono segnatamente nei bimbi piccoli), ma in quanto creatura lenta che sembra bastare a se stessa, capace però, all'occorrenza, di improvvise accelerazioni e di scatti imprevedibili ("mettere il turbo" se trova il cancello aperto, addentare svelta con il suo temibile rostro un cibo prelibato) alternati alla prudente placidità del sonno letargico. Questo animale, come il gufo che sembra dormiente ma è capace di un guizzo con un solo colpo d'ala, può avere, talvolta, la miccia corta. Tale e quale al vecchio che, invecchiando, rivela paradossalmente più energia, più carattere e non già più morte, come il vecchio a cui "l'età arrugginisce il giorno a prima sera, ma sveglia l'animo fin dalle prime luci dell'alba" (Erri De Luca, "I pesci non chiudono gli occhi").
E' dunque più d'ogni altra la lentezza, come nei due animali summenzionati, a caratterizzare il vecchio e insieme saggio perchè, forse, proprio nel procedere del pensiero che si fa più lento e pertanto riflessivo, questi trova tutto l'agio di annodare fili perduti e tempi morti in un'unità di senso, come già accade nella scrittura, che di per sé è necessariamente ripensamento. E "la lentezza pensosa corrisponde alla levità, a quella leggerezza pensosa che può far apparire la frivolezza come [invece] pesante e opaca". La speculazione dell'intelletto all'insegna della leggerezza può consentire di innalzarsi alla contemplazione universale; l'agile salto improvviso della mente del sapiente, o del poeta-filosofo, il suo festinare lente, lo solleva dalla pesantezza del mondo e da quelle sue caratteristiche di apparente vitalità dei tempi, "rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante", che invece rimandano il saggio ad immagini pre-videnti dove c'è movimento veloce ma non c'è vita, immagini statiche e mortifere, "come un cimitero d'automobili arrugginite" (per usare le parole di Italo Calvino nel suo "Lezioni americane").

La saggezza dunque corrisponde, come si diceva, ad un'acquisizione di energia e al pieno sviluppo del "carattere" inteso come sommatoria delle qualità distintive di un individuo, come "stile estetico dai tratti durevoli, quale si esprime in gusti e comportamenti individualizzati, [e] forza strumentale capace di influire su ciò che ciascuno apporta al pianeta", corrisponde altresì al coraggio di essere curiosi, di liberarsi dalle convenzioni indagando la verità (la aletheia dei Greci)". (vedi Hillman, "La forza del carattere"). In questa straordinaria, eccitante avventura, il vecchio esplora maggiormente col pensiero, mentre il giovane esplora con il corpo in movimento. Se è saggio, il vecchio sa dedicarsi all'otium come attività necessaria alla ri-flessione su se stessi e sul passato, a quel movimento circolare dell'anima verso se medesima, verso le origini ricche di senso della sophìa, necessarie al negotium, nel rispetto di quel sano amour propre di cui parlava Rousseau, così diverso dall'egoistico amour de soi meme. Se nel corso della vita hai imparato a divertirti con te stessa, dice un personaggio femminile non più giovane di Manuela Serrano nel suo "Dieci donne", continuerai a farlo. E il divertimento del vecchio, inteso come possibilità di provare piacere, consiste anche, e soprattutto, nell'esercizio del pensiero e dell'immaginazione. Nel saggio essa è orientata alla trasformazione sociale, per un superamento di una coscienza egologica a favore di una coscienza ecologica.

Saggezza è quella virtù dell'anima che sa mantenersi il più possibile lieta, relativizzando, pensando positivo, venerando il dio delle piccole cose, giudicando ciò che è bene lasciar perdere da ciò che vale la pena di perseguire. Si può far questo a qualunque età, naturalmente, ma a partitre dai 60 anni, diventa più facile. L'esperienza conta molto perchè acuisce il giudizio.
In gioventù si è disposti a credere, a prestar fede, in maniera affrettata e imprevidente. La curiosità è grande e pressante e, per muoversi agevolmente tantopiù sotto la pressione dell'urgenza, si ha bisogno di un terreno il più possibile spianato e libero da ostacoli. La curiosità giovanile non è ancora una modalità intellettuale del desiderio, è più un prurito. In gioventù ci si infervora ed è più facile avere un atteggiamento fideistico; se si ravvisassero tutte le difficoltà e le insidie (ovvero il concetto di Lupo Alberto che la sfiga è sempre dietro l'angolo) interverrebbe di sicuro la paralisi, che di sicuro non orienta la conoscenza.
Con l'età matura si è più prudenti, in genere si è imparato a ridimensionare le aspirazioni, ad economicizzare le energie e, dunque, gli investimenti. Si è imparato a discernere con più facilità, ed anche ad essere più attenti agli altri e ai loro bisogni, forse perchè questi ultimi potrebbero diventare i nostri e, secondo la strana matematica dell'amore, declinato in tutte le sue forme anche nell'amicizia, chi più spende e si spende, più avrà la possibilità di ottenere la solidarietà e la generosità dell'altro a sua volta.
Se si è imparato ad essere previdenti per amore di sè e dell'altro, ci si esporrà ad un rischio, per quanto possibile, calcolato.
La saggezza implica rinunciare al muro contro muro, nelle relazioni come nelle discussioni che siano improntate all'ignoranza e al fanatismo. Di fronte alla rigidità, anche del pensiero, di certuni, il saggio contrappone la morbidezza e l'accoglienza più che una fiera e accanità ostilità, ben sapendo che in taluni casi è meglio soprassedere. Diviene più esperto nell'arte della diplomazia. Chi era più saggio, Galileo Galilei o Giordano Bruno? Entrambi erano certi, ad onta di quanto dichiarato nella Bibbia, che fosse la Terra a girare intorno al Sole, ma il primo, duro e puro, non potè evitare di farsi bruciare al rogo, il secondo, abiurando, ebbe salva la vita e potè ugualmente affermare e diffondere la sua teoria attraverso i suoi scritti. Saggezza è pertanto anche disincanto.
La saggezza quale "prima condizione della felicità" (vedi "Antigone" di Sofocle), è un fenomeno psicologico e sociale.

Secondo E. Goldberg , neuropsicologo di fama mondiale ne "Il paradosso della saggezza", non è affatto vero che cervello e funzioni mentali abbiano necessariamente a deteriorarsi con l'età, al contrario sviluppano la capacità di riconoscere modelli, capaci di integrare pensiero ed esperienza usando meglio l'emotività, l'empatia e l'intuizione.
La saggezza, che è altro dal talento, dalla genialità, dalla creatività e dal pensiero originale, secondo questo studioso, corrisponde piuttosto a "doti di competenza, expertise e riconoscimento di modelli cognitivi intesi come classi di oggetti o di problemi che catturano l'essenza di una vasta gamma di situazioni specifiche e di azioni le più efficaci associate ad esse", ma non solo. E' conoscenza esperta, che consente di connettere il nuovo con il vecchio applicando l'esperienza precedente alla soluzione di un nuovo problema; essa non trascura mai, insieme agli aspetti intellettuali, gli aspetti morali, spirituali e pratici. E'conoscenza, oltre che dichiarativa (classificativa, descrittiva, che risponde alla domanda "cos'è?"), anche prescrittiva (che risponde alla domanda "cosa dobbiamo fare?"), e ci dice pertanto come agire, orientandoci nella scelta del comportamento più opportuno.
La sola competenza disgiunta dalla conoscenza prescrittiva che ci metta nelle condizioni di decidere come agire rispetto alle cose e non solo di classificarle, può efficacemente combattere i fenomeni neurodegenerativi e la neuroerosione (la neurogenesi, dopo tutto, per quanto in forma sempre più rallentata, sappiamo che continua per tutta la vita), ma non può garantire la saggezza.

Nell'introduzione che Mattew Fox fa del suo volume "In principio era la gioia", la saggezza (o sapienza, wisdom in lingua anglosassone) viene considerata nell'accezione dei nativi americani come ciò che consente alle persone di poter vivere. Vivere, non sopravvivere. E vivere "significa anche bellezza, libertà di scelta, dare alla luce, avere una disciplina, celebrare con gioia" procedendo congiuntamente, al di là dei particolarismi e dell'individualismo con l'aiuto di tutti, nell'interesse di tutti, in una visione ecologica.
Secondo questo autore la saggezza è promuovere un risveglio scientifico che riconosca la Terra come elemento prezioso in cui trovare la presenza immanente di Dio, recuperando così la tradizione spirituale che mette al centro il creato. Saggezza è andare oltre la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, è ripensare a cosa significhi il lavoro; è affrontare la crisi con giudizio (dal greco krinein, giudicare dopo aver passato al vaglio) traendone l'opportunità di superarla preservando la dignità individuale anzichè distruggendola e distruggendo con essa i rapporti sociali. Ogni tipo di crisi (energetica, del cibo, del lavoro, ecc.) può essere superata attraverso un ecumenismo globale e il recupero della dimensione universalista delle religioni, ovvero della spiritualità. Si rendono necessari, a suo dire, i movimenti di giustizia e liberazione, ivi compresi i movimenti femministi, perchè la sapienza viene specialmente dagli anawim, coloro che sono dimenticati e oppressi, e dalla prospettiva di ridare dignità alle minoranze che, in quanto tali, hanno perduto il diritto al lavoro, alla gioia, alla dignità, alla spiritualità, alla partecipazione del sacro, ecc.
Affrontare la crisi con giudizio può anche voler dire, con riferimento a quella alimentare, giudicare il vegetarianesimo una fonte di approvvigionamento proteica più economica e sensata e meno inquinante di quella che includa la carne; può voler dire tendere ad un approvvigionamento di energia pulita, ad un non spreco dell'acqua, alla non indiscriminata cementificazione, e così via.
E' necessario, sostiene ancora, recuperare la speranza (perchè, come dice Erik Fromm, quando , questa è debole ci si accontenta delle comodità o della violenza) lottando contro la cupa ideologia del peccato originale e insegnando che al principio era la gioia, e non il peccato delle origini. Il senso di colpa acquisito ab origine, per quanto inconscio e oscuro, non consente alcuna scelta, alcuna saggezza. La vita, dice, deve essere vissuta con passione, gioia e creatività, incoraggiata dalla bene-dizione laddove sia il bene ad essere originario, e non già dalla male-dizione di una colpa a priori e di un peccato, affinchè sia la benedizione che tutto origina e tutto mette in moto.
Per tutto ciò, "occorre pertanto una trasformazione educativa che superi l'identità patriarcale, con i suoi correlati di cinismo e di pessimismo, che superi l'identità dualistica e violenta delle contrapposizioni; occorre affidarsi, oltre che al sapere, al sentire, [non si vede bene che col cuore..., dice il Piccolo Principe], recuperando l'eros nel suo significato originario. L'eros inteso come amore tra gli esseri umani, ma anche come amore per tutti i doni meravigliosi della Terra, dalle balene agli oceani, dai fiumi alle montagne, dagli orsi agli uccelli, dai lupi alle foreste,..., dall'aria pulita alla salute del nostro corpo,..."(introduz. di Vito Mancuso nell'op. cit.di Fox), è ciò che occorre per promuovere una maggiore spiritualità, in comunione tra la natura e gli esseri umani.

Vorrei concludere con una preghiera Cherokee che tutti, alle soglie della vecchiaia, dovremmo recitare: "concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio per cambiare quelle che posso e la saggezza per riconoscerne la differenza".  

lunedì 26 marzo 2012

Preferire il gatto

Siamo tutti consapevoli che l'umanità si divide in due schieramenti, quello che dice di preferire il gatto, l'altro che dice di preferire il cane.
Nella mia vita ho amato gli uni e gli altri, ma la mia preferenza va, d'istinto, inequivocabilmente, al gatto. Da sempre me ne chiedo il motivo, ed è mia intenzione qui cercare di rispondervi, non senza l'ausilio di poeti e letterati che ne hanno cantato... l'incanto.
Scrive Rousseau: "E' segno del carattere, se non vi piacciono i gatti, siete inclini all'istinto umano del dispotismo . Il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali." Gli fa eco Mark Twain "può acconsentire ad essere il vostro compagno, non sarà mai il vostro schiavo." William S. Burroughs, analogamente, asserisce che chi odia i gatti rispecchia uno spirito brutto, stupido, grossolano e bigotto e aggiunge: "un gatto non offre servigi, offre se stesso". Neruda lo sintetizza così: "Orgoglioso, cammina solo e sa quel che vuole", in sintonia con Pessoa che, con un'analoga sintesi in una sua famosa poesia dedicata all'amato felino scrive: "gatto che giochi per via / come fosse il tuo letto /...senti solo quel che senti; / sei felice perchè sei come sei, / il tuo nulla è tutto tuo."
Proiezioni? Può darsi, naturalmente. Ma che il cane sia un animale gregario che ha bisogno del branco e rispettoso delle gerarchie, a differenza del gatto, sembra ampiamente suffragato dagli studi degli etologi. D'altronde ce lo insegna anche la Storia. Il cane è stato addomesticato già 30.000 anni or sono, nel mentre il gatto è di domesticazione assai più recente: 9.000 anni se l'aver reperito i resti di questo felino sepolti accanto ad un umano in una tomba nell'isola di Cipro può essere giudicata testimonianza d'una affezione "domestica", 5.000 se prendiamo a testimonianza il suo culto, i geroglifici e i suoi resti nelle tombe dell'antico Egitto. E' del tutto comprovato, inoltre, che il cane fosse già sociale (come il lupo) prima di diventare socievole.
E' stato scritto che il cane è credente, il gatto ateo, e anche che il cane ha bisogno del padrone nel mentre il gatto è padrone egli stesso. Del "mistero" del gatto hanno scritto in molti. "Occhi d'agata e metallo", così lo canta Baudelaire. Sentite Pinin Carpi: "Sul suo distacco la ragione slitta, numeri d'oro stanno nei suoi occhi" e ancora "al buio diventa un tepore accarezzato".
Come resistervi quando il conflitto tra ragione e sentimento si fa insanabile e l'istintintualità della piacevolezza del tatto, alla ricerca di calore e morbidezza, cullata dal carezzevole ron-ron, sommesso e monotono pulsare di un cuore d'onde, ha il sopravvento?
"..La tua gattina...Non la senti vibrare come un cuore sotto alla tua carezza?" Così recita un verso di Umberto Saba.
Il compianto Giorgio Celli, famoso accademico, etologo e divulgatore anche televisivo recentemente scomparso, chiamava il gatto "decima Musa". Non fanciulla, non residente sulle pendici del Parnaso, ma silenziosa presenza che si aggira ovunque fra noi, tra i giardini e i tetti.
Già: una musa, la Musa, ispiratrice di molti tra poeti e scrittori.
Forse perchè ci ispira pazienza, forse perchè incarna l'armonia e la bellezza proprie dell'Arte.
Forse perchè la sua eleganza e sobrietà hanno un potere tranquillante. Il suo essere l'animale del silenzio, elemento essenziale all'ispirazione, spesso abbandonato al piacevole sonno dei giusti ma sempre pronto a ritornare prontamente vigile, ne fa un simbolo della fantasticheria creativa, del pensiero silente che si concretizza in parola scritta. Un perfetto simbolo dell'otium, favorevole, anzi necessario, al negotium.
Personalmente amo il gatto per la sua imperfetta domesticità, per il perenne conflitto che sembra albergare in esso tra la sua esigenza di animale libertario e solitario mai del tutto confidente, e l'attrazione innata per le coccole di tipo materno cui ama affidarsi invece anima e corpo.
Tra l'altro, non mi è possibile sciogliere il dubbio amletico se sia il gatto a farsi adottare da noi o noi a farci adottare da lui. Mi spiego. Avete presente il suo muso? La fronte spaziosa e bombata? Gli occhi grandi, tondi, l'espressione placida, indifesa e gaudente di quando lo accarezzate? Sono caratteri neotenici, quegli stessi che, enfatizzati per esempio in Bambi, hanno fatto la fortuna di Walt Disney e dei suoi cartoni animati. Hanno caratteri neotenici nei tratti, infantili e commoventi, atti a suscitare benevolenza come d'istinto i cuccioli, che permangono nell'adultità. Ma sono anche neotenici "della mente, neotenici etologici, che hanno conservato nella vita adulta non solo il ricordo, ma la possibilità di comportarsi come i gattini che erano" (Giorgio Celli). Ne è testimonianza il loro pervicace mantenimento di un gesto del tutto infantile, quello di "impastare" alternativamente con le zampine, quando, occhi chiusi e in sollucchero, ripropongono la beatitudine di quando suggevano il latte materno e, così facendo, ne promuovevano "la mungitura". E noi umani, d'istinto, li adottiamo volentieri.
Ma altrettanto volentieri ci facciamo adottare e siamo loro grati se ci trattano come prole inetta allorquando ci insegnano ad acchiappare una preda commestibile. Non possiamo che essere loro grati quando ci depositano sullo zerbino fuori dall'uscio il cadavere di un volatile o quando, per esempio, ci consegnano un topino, mezzo morto di paura nel cuore d'una notte di mezz'estate ai piedi del letto ed hanno la pretesa, liberandolo dalle fauci per poi riacchiapparlo dinanzi al nostro sguardo, di insegnarci come s'ha da fare.
Altra testimonianza del loro carattere neotenico è quel corollario di suoni e versi , di differente musicalità ma sempre "sinuosi", giocati spesso sui suoni acuti, infantili e accattivanti appunto.

Nell'arco della mia vita, non mi è mai mancata la compagnia di un gatto. Nemmeno quando, neonata sazia di latte materno, venivo riposta nella mia culletta di vimini, seminascosta da veli di tulle. Acciambellato ai miei piedi, sempre rispettoso e mai invadente, ronfava placido, d'abitudine (dormivamo 16 ore al giorno tutti e due), un grosso gattone persiano di colore grigio. Ch'io sappia era il primo di una lunga serie di gatti, immancabilmente grigi, cui mia nonna avrebbe dato sempre il nome di Nichi, forse in omaggio a Nikita Kruscev di cui avevo occasione di sentir parlare al giornale-radio, dopo l'inconfondibile trillo che fungeva da stacchetto nelle trasmissioni degli anni '50, gli anni della mia primissima infanzia trascorsa nella casa dei nonni paterni. So per certo che per me furono, uno dopo l'altro, "Nichi-Nichi". Non so perchè ma mi piaceva raddoppiarne il nome. Carattere neotenico anche il mio, probabilmente.
Anche quando divenni studentessa universitaria, nello spazio angusto del mio alloggio patavino, mi faceva compagnia un meraviglioso, dolcissimo meticcio persiano grigioperla. Dietro la suggestione di un racconto del mio Prof. di Psicologia Fisiologica a proposito d'un suo paziente afasico che aveva residuato come unica possibilità verbale il bisillabo "pachi", gli detti nome Pachi-Pachi.

In seguito, quando dopo dodici anni di una anomala "libera-professione" finalmente entrai di ruolo come psicologa presso una delle neoistituite Unità Sanitarie Locali, in totale astinenza da gatto da un tempo insopportabilmente lungo, ritornata ad abitare la casa che fu dei miei nonni e mi vide bambina, mi lasciai sedurre da un bigliettino appeso nella bacheca del vicino negozio di animali: "Regalo gattino...". Fu così che, nella mezzora di pausa pranzo, trovai il tempo per andarmi a prendere una spendida gattina (di madre siamese e padre persiano grigio) di appena due mesi. Non potendo fare altro di meglio, ritornata in tutta fretta al lavoro, la ricoverai semplicemente ai piedi della scrivania sperando che il bambino mutacico, che avevo come primo appuntamento del pomeriggio, non se ne avvedesse o non ne ricevesse turbamento. Quel bambino di soli 8 anni era da tempo una "vecchia conoscenza" del Servizio Materno-Infantile; l'avevo "ereditato" da qualche tempo da un collega uscente che lo considerava un "caso disperato". Nessuno, a scuola o fuori casa, gli aveva mai sentito profferire verbo, in casa era normalmente loquace. Era un bimbo timidissimo, di corporatura gracile e mingherlina che vestiva pantaloncini corti di lana, modello d'antan, e un'inseparabile cappellino (una piccola calotta con un'enorme visiera) che ne metteva in mostra le grandi orecchie a sventola. Il collega mi raccontò che la prima volta in cui gli si sedette in fronte, al di là dell'orribile scrivania in metallo e fòrmica, su quella stessa seggiola modello-scuola-media-anni-'70 troppo alta per lui e dalla quale le sue livide ed esili gambine non potevano che penzolare, ebbe anche la sventura di lasciarsi scappare la pipì, della quale lo psicologo si avvide perchè insospettito da un ritmico gocciolìo che ben presto si era concretizzato in un'enorme pozza gialla sottostante.
Fu grazie alla gattina che si sbloccò. La raccolsi da sotto la scrivania dove si era rannicchiata, tutta tremante e spaesata, catapultata d'emblée in un mondo ostile dove non c'erano più né la calda pelliccia di mamma, né i giocosi fratellini, e gliela presentai. Fu una forte emozione per quel bambino, e amore a prima vista. Verso quell'animaletto, preda della paura e dello smarrimento che anche lui stesso doveva conoscere assai bene, entrò immediatamente in solidale empatia. Infatti esordì sbottando, con una voce decisa e tonante dal tono grave, quasi cavernoso: "ne ho una anch'io a casa, una gatta grande però... !". Da quel momento fu un fuoco di fila di domande: "dove l'hai presa? ce l'ha la mamma? e poi dove la porti?..." . Da quel giorno ebbi la sua fiducia e la possibilità di dialogarci serenamente fino a quando, ben presto, non se la sentì di incominciare a parlare anche a scuola ed io, felicemente orgogliosa della mia trasgressione di quel giorno, certa della sua guarigione per la quale non mi arrogavo alcun merito, lo dimisi.
Quella stessa gatta, di lì a un anno, fu la mia più grande compagnia nel periodo forse più delicato della vita quando, per nove lunghi mesi, non si sottrasse mai un istante dall'accudirmi amorevolmente, alleviando egregiamente la mia solitudine e le mie ansie gravidiche. Era la mia ombra, anche in bagno. Più di una volta, accadde che si avvicendasse a me nel fare la pipì, centrando perfettamente il buco della tazza. Avevo l'impressione che giudicasse lo scendere le scale, fino alla sua lettiera, un'inutile e rischiosa perdita di tempo: avrebbe dovuto separarsi da me. Mi consolava soprattutto la notte quando, perennemente appollaiata sul mio pancione, la sentivo fissarmi con benevolenza attraverso le palpebre socchiuse dei suoi occhi accesi di fosforo nel mentre mi cullava ronronnando con il suo instancabile motorino a bassi giri.
La chiamai Eminé come il personaggio femminile di un pregevole film turco di cui non ricordo, purtroppo, né il titolo né il regista, che in una notte insonne ebbi l'occasione di veder passare in TV. Nella pellicola, struggente testimonianza dei costumi arretrati di certi pastori dell'interno della Turchia, si narra di una giovane donna maltrattata la quale, legata per punizione nella stalla adiacente casa, considerata emblematicamente alla stregua di una bestia da soma, finisce col morire di dolore e di stenti. Il film si chiude dopo che marito e figlio, responsabili del disumano trattamento, la trovano morta, e al suono delle loro voci che ne invocano il nome, ahinoi troppo tardivamente, risponde l'eco che rimbalza tutt'intorno sulle pareti brulle dei monti dell'Anatolia.
Eminé, detta Emi per brevità, era capace di strabilianti comportamenti empatici. Una sera non seppi trattenermi, mi colse un pianto irrefrenabile, tra lacrime e striduli singhiozzi. In conseguenza di ciò la vidi "andare nel panico". Non sapeva più cosa inventarsi, quali strategie mettere in atto a scopo consolatorio. Mi si strusciava freneticamente tra le gambe col rischio, e forse l'intenzione, di farmi perdere l'equilibrio fino a che non mi fossi seduta. Dopodichè mi venne delicatamente addosso. Era quello che voleva: un vis-àvis, per arrivare a leccarmi febbrilmente le lacrime, lamentandosi lei stessa con un mugolìo nervoso, acuto e intermittente, che non le avevo mai sentito prima. Dovetti smetterla per far smettere in lei tutta quell'agitazione febbrile. Capii in seguito che quello era il lamento preoccupato tipico della madre che chiama a raccolta i cuccioli, lo stesso che le sentii qualche anno dopo, quando ebbi a trasferirmi lontano dalla mia città natale, confinata in una desolata campagna, tutte le volte che uscivo dall'area del giardino di proprietà. Capii che stava riservandomi il meglio delle sue cure materne. Da quel momento non seppi più esattamente chi avesse adottato chi. Fu una straordinaria compagna di giochi per tutti i primi 11 anni di vita di mia figlia. La totale fiducia in noi (al nostro rientro aveva fiducia anche nella nostra automobile, certa che questa l'avrebbe scansata prima che lo dovesse fare lei stessa), identica a quella che riponevamo peraltro in lei, venne meno solo dopo che un vicino di casa, pur di non rallentare la sua folle corsa, la tirò sotto come un birillo, seduta com'era, a lato della stradina sterrata, intenta a fiutare gli umori serotini d'una incipiente primavera.

Tornando agli Autori, vorrei ricordare le parole di E. Hemingway: "Un gatto semplicemente conduce al successivo (ne ospitò fino a 30! n.d.s.)..." e ancora: "I gatti dimostrano di avere un'assoluta onestà emotiva. A differenza degli uomini, non riescono a nascondere i propri sentimenti." Non t'ingannano e non li inganni, aggiungo io. Sanno quando li fai soffrire nell'intento di aiutarli. Lo sanno come lo sapeva la Emi quando bastava che io le fossi accanto e lei offriva fiduciosa, al Veterinario e alla sua immensa siringa, l'incavo della sua zampina anteriore per la trasfusione. Lo sanno, come lo sapeva il povero Rodolfo Valentino detto Rudy, afflitto da chissà quale orribile malattia che lo rese glabro e rugoso come E.T., che sopportava di buon grado il fracasso dell'aerosol. Lo sanno perfettamente, come lo sapeva la Panduki che molto dovette soffrire tra aspirazioni, chirurgia, cannule e drenaggi a causa di una brutta infezione al polmone -vero Panduki che mi stai camminando sui tasti mentre scrivo?-. Sanno, dicevo, perchè capiscono le tue intenzioni. Non puoi ingannarli facilmente, se finisci con l'abusare della loro fiducia anche solo per un paio di volte, rischierai di dover uscire fuori dalla loro vita per sempre. Quella stessa fiducia non te l'accorderanno più. In questo, trovo, sono del tutto dissimili dal cane.
Possono essere imprevedibili solo se affetti e afflitti da una psicopatologia che li renda nevrotici.

Molti anni or sono regalarono a mio padre una gatta persiana grigio-smoke, bellissima. Se ne disfarono una coppia di sorelle troppo impegnate con il lavoro fuori casa allorquando si accorsero che la loro anziana genitrice, che odiava i gatti (chissà perchè me la figuro con radi capelli, barbuta e baffuta come una vera-strega), era solita rinchiudere la povera bestia, tutto il tempo fino al rientro delle figlie, nello sgabuzzino buio dove riponeva scope e detersivi. Minnie (la gatta si chiamava così) era psicopatica. Trasferita che fu nella nuova casa, ricordo che riparò sotto a un trumeau, dove stette rintanata per giorni senza mangiare e senza bere, fino a che, col passare del tempo, poco alla volta, si fece coraggio e ne uscì fuori. Di rado, quando l'uno o l'altro di noi della famiglia stava seduto sul divano, osava acciambellarglisi sulle ginocchia e mostrava di gradire le carezze. Anche le sue fusa tuttavia erano prudenti, col silenziatore. Purtroppo però poteva accadere che d'improvviso venisse assalita da qualche antico fantasma. Della strega baffuta? Chissà. E schizzava via in men che non si dica come l'avesse punta un calabrone, senza preavviso, senza segnali premonitori. La prima volta che uscì in giardino fu memorabile. Si avventurò sul prato con estrema circospezione. Il contatto con l'erba che mio padre aveva rasato con cura da poco, le dette un'insolito fastidio: ad ogni passo si scrollava le zampette, una a una, peggio che se stesse camminando su cocci di vetro. Ma la cosa più stupefacente avvenne quando un merlo la sorvolò da dietro, trillando contento a volo radente, finendo con l'atterrare a pochi passi dal suo muso. Un qualunque altro felino ne avrebbe approfittato per poi leccarsi i baffi. Lei ne rimase atterrita e letteralmente si appiattì, le quattro zampe divaricate, stesa come un tappeto di pelle bovina, in preda allo choc.

Sono dunque un'irriducibile catòfila (mio padre, a dire il vero, mi etichettò semplicemente "gattara", e non a torto, quando, abitando allora in campagna, arrivai ad ospitare 17 gatti tra residenti e non) e sui gatti potrei scrivere pagine e pagine. Nel corso degli anni ho avuto modo di osservarne i comportamenti, le relazioni parentali e amicali, le abitudini, l'ampio spettro di differenze tra individuo e individuo a partire dalla "voce" che li distingue nettamente uno dall'altro, e questo ha senz'altro favorito questa mia predilezione. Ma...nasce prima l'uovo o la gallina?

L'attrazione fatale, l'amore incondizionato verso questo animale è antecedente o secondario alla "conoscenza sul campo"? Si fonda su somiglianze caratteriali e affinità istintuali o è frutto della frequentazione privilegiata? Difficile rispondere.
Tutto quello che so e che posso dire con certezza è che, se guardiamo alla Storia, dobbiamo riconoscere che il nostro amico felis catus non sempre ha goduto dell'odierna benevolenza. Anzi, per secoli e secoli è stato temuto e cacciato, torturato e arso vivo come il povero Giordano Bruno, giudicato eretico perchè, forse proprio come il gatto, irriducibilmente fedele a se stesso. Non dimentichiamo che la "fortuna" di Galileo, che pensava come lui, consistette nell'abiurare. Dagli inizi del Medioevo fino al 1800 con l'Illuminismo, questa bestiola, della quale peraltro già gli Egizi e poi i Fenici riconoscevano l'utilità nel tenere a bada la proliferazione dei topi, distruttori e inquinatori di granaglie e veicolo di terribili epidemie pandemiche come la peste, fu fatta oggetto di odio e di vere e proprie persecuzioni. Forse fu soltanto il Poverello d'Assisi a spezzare una lancia "eretica" (il suo, ai tempi, fu quantomeno un pensiero divergente) con coraggio, anche a favore del gatto. Non ci sfugga che quest'ultimo da sempre è stato associato alla strega (diabolico camuffamento del Maligno in vesti femminili) perchè considerato il suo più fedele amico. Se il Medioevo può considerarsi periodo favorevole alle Arti in generale, resta il fatto che fu davvero buio nel promuovere un'oscurità ed un oscurantismo massimo per quella che era la condizione della donna e del gatto che ne veniva considerato simbolo.
Si sa dello sterminio di gatti e "padrone" ad opera del Papa Gregorio IX che, all'uopo, promulgò un editto (era il 1233). Tanto perchè non cadesse nel dimenticatoio, anche il Papa Innocenzo VIII, con il tristemente famoso Malleus Malleficarum del 1486, scomunicò ufficialmente tutti i gatti e le loro "amiche" , dando precise indicazioni circa quali fossero "i sintomi" atti a far sospettare di stregoneria e decretando "il meglio dell'efficienza" della Santa Inquisizione.
L'ultima traccia rinvenuta scritta in cui si ha notizia di un gatto giustiziato, risale al 1712.
Si può inoltre osservare come nel corso di questi stessi secoli passati, da quando sempre più si andarono sviluppando gelosie ed odio nei confronti dell'Islam, che da sempre invece ama e rispetta profondamente il gatto nel mentre stigmatizza il peggio dell'umano con l'espressione "figlio d'un cane" o "di 7 cani", e da quando si diffuse la triste cultura maschilista e sessista e sessuofobica che sovrappose l'immagine della donna impura, creatura potenzialmente diabolica, sovrapponibile a quella dell'animale che meglio la rappresentava, va da sé che il gatto non godette di alcuna protezione.
Se aggiungiamo inoltre che certe caratteristiche che accomunavano vistosamente il felino alla strega potevano rendere ragione anche epifenomenicamente delle affinità tra i due, come le movenze sensuali, l'amore per la pulizia (che nel medioevo era tassativamente proibita tanto che fu fatto scempio di gran parte delle strutture sanitarie pubbliche costruite dai Romani), e lo sguardo magnetico e intelligente (l'intelligenza e l'indipendenza del giudizio e affettiva può far paura anche oggi), allora comprendiamo senza troppo stupore come ci siano voluti secoli interi per riaccreditare l'incolpevole bestiola.
Se inoltre consideriamo certe caratteristiche, come la luminosità notturna dei suoi occhi, la elettrostaticità del pelo, le capacità "divinatorie" di prevedere cambiamenti climatici (col suo orecchio è in grado di percepire cambiamenti di pressione atmosferica e di concentrazione d'umidità nell'aria che lo assimilano fatalmente a Satana "Principe dell'aria") e se aggiungiamo alla sua scaltrezza la flessibilità serpentiforme dei movimenti dlla sua coda ed anche la sua silenziosità nell'apparire e scomparire, dunque la sua "invisibilità" tantopiù se il manto è nero, il raffronto con l'iconografia del Maligno è reso possibile al massimo grado.
Molto più semplicemente, dell'innegabile affinità tra gatto e donna, come peraltro del loro millenario affiatamento reciproco, si potrebbe trovare ragione semplicemente considerando che, nel mentre il cane serviva "in esterno" affiancando l'uomo nella caccia o nella pastorizia, il gatto serviva "all'interno" per la caccia ai topi (e per mettere quantomeno in allarme contro serpenti, scorpioni e altri piccoli animali, tanto silenziosi quanto pericolosi) che fin dall'antichità potevano insidiare l'ambiente domestico, quello spazio intorno al focolare dove da sempre vivevano le donne con i loro bambini.
Mi viene in mente un'osservazione di Desmond Morris a proposito della paura innata (robe da paleocorteccia e non già da neocorteccia) che le donne, più che gli uomini, hanno nei confronti dei topi e in genere dei piccoli animali. E' un'antica paura, ancora inscritta nelle strutture profonde del cosiddetto cervello primitivo, funzionale a proteggere la prole dalle pericolose insidie che, quatte quatte, potevano mettere in serio pericolo l'incolumità e la vita dei cuccioli umani raccolti nell'interno della grotta assieme alle loro madri. L'uomo, cacciatore o raccoglitore che fosse, viveva più all'esterno.

Che sia, anche questo, un motivo dell'innata sintonia tra me e il gatto? Delle due l'una: o è perchè son donna, oppure potrebbe essere perchè son strega. Oppure, e sempre plausibilmente, perchè sono anch'io, dopotutto, un animale tendenzialmente solitario e libertario, inguaribilmente neotenico e materno (ho sempre pensato che queste due caratteristiche siano strettamente correlate, se non inscindibili). O forse invece, assai più banalmente, perchè io stessa conosco la facilità con cui noi umani riusciamo a stringere un profondo legame affettivo col cane, creatura dipendente e fedele per antonomasia. Nessun altro animale riesce a darci facilmente quella stessa sensazione di esclusività e di insostituibilità nel rapporto. Ecco allora che ritengo sia possibile prevedere che il nostro amico cane potrà godere a lungo e più facilmente di una più diffusa predilezione, mentre considero che il gatto, più difficile da comprendere, rispettare e amare, sia maggiormente esposto alle variabili culturali che potrebbero, ancora una volta nella storia, non giocare a suo favore. L'amore di cui il felino domestico ha bisogno si fonda sul rispetto, quello che ci orienta in maniera privilegiata verso il cane, talvolta, sul senso del possesso. Se avete una personalità tendenzialmente autoritaria, dispotica o gregaria (due facce della stessa medaglia), di quella tipologia che venne attentamente studiata dai sociologi Horkheimer e Adorno subito dopo la barbarie della seconda guerra mondiale e del nazismo, non cimentatevi col gatto. Potreste non capirvi proprio e arrivare ben presto ai ferri corti. E a dolersene maggiormente, per certo, sarebbe il gatto.

lunedì 19 marzo 2012

Discorso sul padre

Ho l'impressione che volendo sintetizzare cosa voglia dire essere padre ed esplicare in cosa consista la "funzione paterna" ci si trovi spesso in difficoltà (per primi proprio gli uomini, padri compresi) più di quanto non avvenga nel cercare di definire cosa siano, o debbano essere, la madre o la funzione materna. Ciò per alcune ragioni del tutto evidenti, la prima della quali è senz'altro quella che potremmo definire come "evaporazione della famiglia" come istituzione fondata sul matrimonio.
Usciti come siamo da una società con struttura spiccatamente e diffusamente patriarcale, tutti noi, in particolar modo quelli in grado di essere già nonni, ci sentiamo particolarmente in difficoltà a causa dei cambiamenti di ruolo avvenuti di recente all'interno della famiglia dove, di sicuro, l'immagine vetusta e autoritaria del padre-padrone o del padre autoritario ("ho detto di no perchè no" e "fai così perchè te lo dico io"), sono solo un ricordo od una mitologia lontana e inattuale.
Oggi il padre, nelle società occidentali, non è più autoritario ed in qualche caso fatica persino ad essere autorevole; il suo ruolo non è più così dissimile da quello svolto dall'altro genitore che parimenti, ha perso o va perdendo vieppiù d'autorità.
Fatica anche a fornire modelli di comportamento e di identificazione. Spodestato com'è, nella società superorganizzata, di un ruolo certo che lo vedeva in qualche modo privilegiato, costretto all'esercizio della professione lontano dagli occhi dei figli e, qualche volta, lontano da ogni comprensibilità, è condannato a non poter assolvere nè il compito di fornire una costante presenza affettiva, nè quello pedagogico di trasmettere, attraverso l'esempio, una prassi di vita.
Il padre odierno rischia di risultare sbiadito, assente, dimenticato.

Un'importante funzione che gli riconosciamo, al di là dei costumi e dell'organizzazione sociale, è quella di prototipo dell'Altro (quell'Altro-da-sé la cui vita autonoma ci attira e desta la nostra simpatia) rappresentativo di tutti gli "altri" con cui il bambino dovrà nel tempo confrontarsi. E' in sostanza il primo Altro capace di insinuarsi nella coppia madre-figlio favorendone la separazione, processo questo che in seguito renderà possibile al cucciolo d'uomo l'individuazione. Rappresenta il primo sguardo esterno alla diade fusa (perlopiù con-fusa e sim-biotica almeno sino al 2°anno di età) capace di prospettare un orizzonte al di là della frattura che genera abbandono.
Favorisce il distacco, il cammino verso l'autonomia e il senso di sé del bambino, rendendogli possibile l'esperienza dell'allontanarsi e del ritornare dalla mamma (cfr. la funzione del gioco simbolico del rocchetto descritto da Freud). Sarà nel contempo limite e contenimento, promozione e disciplina del desiderio altrimenti onnipotente, tracotante, pervaso di egocentrismo e di hybris, argine al dilagare del narcisismo primario che, con crescente frequenza, rischia di trasformarsi e consolidarsi pericolosamente in un narcisismo secondario.
Il sentirsi escluso dalla coppia genitoriale, anche se amato, obbliga il figlio ad elaborare e risolvere la propria solitudine al di fuori appunto da quella coppia. Ecco che il padre, promuovendo il contenimento e l'accettazione del limite, introdurrà le Regole come strumenti di orientamento atti a disciplinare il desiderio individuale e a rendere disponibili a riconoscere la pluralità dei punti di vista necessari al riconoscimento del sé.
Donald Winnicott diceva che mentre la madre rappresenta la stabilità del focolare domestico, il padre rappresenta la vivacità della strada. Sarebbe un veicolo di transito, dunque, dalla sicurezza di casa all'attraente e avventurosa incertezza degli incontri.
E' chiaro che nell'intraprendere il cammino lungo la strada della vita autonomamente vissuta, bisogna saper vincere la nostalgia, essendo essa un sentimento che ti fa voltare indietro distraendoti dal guardare avanti verso nuove conoscenze, verso il futuro. Orfeo, incapace di distaccarsi da Euridice, simbolo dell' Oggetto Primario narcisisticamente investito, nel voltarsi indietro, finì col pietrificarsi, come gli era stato predetto. E Orfeo, figlio del Dio Apollo -quel dio esso stesso eterno- figlio appena cresciuto e quindi "non-padre", è in qualche modo, infatti, drammaticamente orfano, destinato, come ci racconta il mito, a non poter procedere.
Al padre dunque possiamo riconoscere una importante funzione anti-nostalgica capace di consentire la separazione dalla madre puntando lo sguardo in avanti verso la crescita, verso nuovi investimenti affettivi, verso l'idea dell'avvenire come possibilità, da conquistarsi certo con fatica e sforzo, resistendo alla tentazione di mollare o cedere, e, così facendo, nella possibilità di trovare alfine soddisfazione.
Il padre è colui che consente di "essere lontano" senza provare uno smarrimento totale, potendo dare quegli strumenti di orientamento a chi, crescendo, dovrà trovare da sè la propria strada sostenuto da un sempre rinnovato desiderio ("de-sidera" sotto le stelle che indicano la strada). E deve funzionare da modello adulto verso cui si possa tendere.
E' chiaro che il modello è tale solo a patto che non venga giudicato irraggiungibile. Non deve perciò trovarsi troppo in alto su di un piedistallo su cui poggi come figura ideale ed esemplare, ma deve offrirsi come modello umano, coi suoi stessi limiti e le sue proprie ferite di cui egli stesso conservi memoria.
Il padre, attraverso il prendersi cura, la presenza, la dedizione, l'attenzione particolare che significa accettazione e valorizzazione della diversità del figlio nella sua unicità, attraverso la parola come testimonianza di un'eredità e come elemento del dialogo che sia, etimologicamente, partecipazione nella diversità piuttosto che dogma (nel dialogo nessuno mai ha l'ultima parola, "chiedete e vi sarà dato"), attraverso l'assunzione di responsabilità che vengono insegnate al figlio, offrirà in tal modo una testimonianza umana capace di orientare (orientarsi è trovare la Stella Polare che indichi l'Oriente) mostrando la rotta.
Vorrei ricordare che ciascuno si può orientare solo in relazione a se stesso, attraverso un movimento direzionale e direzionante su quel punto, in rapporto al proprio corpo e ai tre possibili sensi: alto-basso, destra-sinistra, davanti-dietro, e la rotta (dal lat. rupta) è una rottura funzionale all'attraversamento, continuamente screziato tra possibilità e impossibilità.
Il padre perciò, come il pensiero-guida filosofico e non dogmatico, è causa e rimedio del disorientamento, è guida infinita.
Non si limiterà ad istruire, ma, mantenendosi critico, insegna a essere critici, offrendo la disponibilità a riconoscere la pluralità dei punti di vista, che le persone sono diverse e la diversità è legittima e va rispettata. Offrirà testimonianza e quindi eredità; avendo la capacità di trattenere i ricordi di una vita, di non disperdere le orme, mostrando la "rotta", il sentiero, si rivelerà capace di raccogliere tracce per produrre nuove tracce. Attraverso non già l'ira, ma bensì il perdono (che non è mai estrema e incondizionata indulgenza, né oblio totale, ma piuttosto oblio parziale e volontario attraverso la memoria ed è inoltre sempre reciproco, da padre a figlio e da figlio a padre attraverso un costante reciproco riconoscimento) e attraverso la raccomandazione, il padre incoraggerà la capacità di scegliere, dunque di prendere posizione. Educherà al rispetto delle differenze, alla conoscenza e sopportazione dell'incertezza come conseguenza dell'apprendimento che, più si estendono le conoscenze, più ci dovrebbe indurre a superare la barriera della verità assoluta per prestare ascolto alle molteplici diversità, ciascuna delle quali, raccontando la sua propria verità, risulta relativa. Se saprà educare all'accoglienza delle diversità, queste non saranno più vissute come una minaccia; un buon padre avrà dunque educato alla tolleranza e, ancor meglio, alla com-prensione (da comprehendere -contenere) laddove la comprensione è mezzo e fine della comunicazione e del dialogo.

Per espletare la funzione paterna non occorre che vi sia consanguineità (la paternità non si regge sulla genetica come ben ci insegna la storia di Giuseppe falegname e di suo figlio Gesù).
Un uomo funziona come genitore quando vi è reciproco riconoscimento del ruolo padre-figlio e figlio-padre, quando sia possibile l'eredità del Nome non come eredità acritica che presupporrebbe un'altrettanto acritica idealizzazione del genitore, ma come possibilità di succedere al padre sapendo di poterne fare a meno, consci che nessun padre può mettere al riparo la nostra vita dal rischio dello smarrimento, della disavventura e del lutto, in un'autonomia che si possa servire di quel Nome come di un'eredità e di un valore di testimonianza.
Dice Massimo Recalcati che "un padre della testimonianza non può trasmettere cosa sia una via giusta o quale sia il criterio universale della felicità, perchè nessuno possiede questo sapere. Ciò che un padre della testimonianza può trasmettere è casomai proprio l'impossibilità stessa di questo sapere perchè è solo sullo sfondo di questa impossibilità che si apre la possibilità di incarnare il proprio desiderio come vitale e capace di fruttificare. Se invece questo impossibile viene scansato, forcluso, aggirato nel nome di un sapere sulla vita e sulla morte totalizzante e senza mancanze, non si dà trasmissione alcuna ma solo persuasione ideologica."
Il figlio che voglia "farsi un nome" facendosi da sè, da solo, narcisisticamente, senza confrontarsi con l'Altro e senza accettarne il supporto, è destinato al fallimento in una smodata e boriosa tracotanza mai costruttiva. Questo ci viene ricordato dal racconto mitologico di Icaro che, trascurando i premurosi suggerimenti del padre Dedalo intenzionato a ricordargli quali fossero, di necessità, gli umani limiti, spinto da un'eccessiva fiducia in se stesso, proprio su quegli umani limiti si autocondanna a sbattere pesantemente "il muso per terra, fino a ...rimetterci le penne". Ci viene ricordato anche nel testo biblico con il racconto della costruzione della torre di Babele, nonché nel brano di un testo del compianto Gaber che recita: "mi son fatto tutto da me, mi son fatto tutto da me, mi son fatto tutto di merda...", così come nell'espressione del tossicomane "mi faccio".
Non è possibile realizzare se stessi escludendo l'Altro, negandosene ogni vincolo, ogni discendenza, ogni debito simbolico, negandone la funzione virtuosa del limite. E nemmeno è possibile realizzare se stessi mantenendo un troppo stretto e troppo a lungo durevole legame con il cordone ombelicale che ingloba e mantiene la dipendenza (con, cioè, la madre-coccodrillo di lacaniana memoria).
Crescita e sviluppo potranno venire favoriti dal padre attraverso lo scambio del discorso (del logos come pensiero pensato e detto), da me a te e da te a me, ovvero attraverso la dialettica del dialogo. E non si deve dimenticare che la dialettica è conflitto, dal momento che presuppone il riconoscimento dell'alterità implicando che ciascuno dei dialoganti è responsabile di ciò che dice e per quello che dice. Ma è un conflitto reciprocamente educativo, perchè pone nelle condizioni l' uno e l'altro di ascoltare le ragioni altrui in un costruttivo confronto. I figli hanno bisogno di genitori in grado di sopportare il conflitto rappresentato primariamente dalla differenza generazionale. Un legame familiare sufficientemente buono, in seno al quale si renda possibile l'identificazione e il contrasto, è "quel legame che sa assicurare una certa oscillazione tra appartenenza ed erranza, tra provenienza e avvenire." ( M.Recalcati)
Un buon padre, che riconosca l'unicità del figlio per venirne a sua volta riconosciuto, è colui il quale insegna attraverso l'esempio che, nella vita, è necessario "continuare a provarci" senza darsi per vinti, in una continua sfida ai propri limiti personali ma non già agli umani limiti, dal momento che la condition humaine è per definizione una condizione che ci limita, essendo tutt'altro che onnipotente (diversamente avrebbe natura divina), e perciò contempla fatica e sacrifici come fondamentali elementi che consentono la soddisfazione.

Un breve cenno alla recente produzione cinematografica e narrativa potrà esser utile a meglio identificare cosa si debba intendere per "ruolo paterno".

Vorrei allora suggerire alcune produzioni cinematografiche a partire dal più recente " Scialla! " (regia di Francesco Bruni, 2011) dove si narra di un ragazzino, cresciuto fino a quel momento dalla sola madre, che si trova in piena tempesta adolescenziale (pigro e indisciplinato, mosso da uno spudorato irrefrenabile umorismo, in difficoltà anche scolastiche), il quale incontrerà un Professore di ripetizioni (cui immaginiamo non per caso lo affiderà proprio sua madre), svagato, sub-depresso, altrettanto svogliato e in crisi esistenziale. Dall'incontro tra i due, dopo un' avventurosa e a tratti burrascosa frequentazione, nascerà un solido legame, di cui entrambi beneficieranno. La funzione di padre nell'adulto, curiosamente, viene sollecitata prima del riconoscimento del legame di sangue, che pure esisteva da sempre a loro insaputa. In questa pellicola mi sembra si sia riusciti a testimoniare la necessità che il desiderio dei protagonisti sia condiviso: biunivoco, sincrono e simmetrico, come sempre accade nelle relazioni affettive. Ecco allora che, forse, per essere padre bisogna che anche il figlio ti riconosca come padre, abbia cioè il "desiderio di padre" e, congiuntamente, la possibilità di assegnare la propria fiducia nel padre così da riconoscerlo ed apprezzarlo in quel ruolo.
Vorrei citare il bellissimo " Nuovo cinema Paradiso " (regia di Giuseppe Tornatore, 1988) che ci racconta la storia una "paternità" generosa, oblativa, quella dell'adulto Alfredo, il proiezionista del "Paradiso" e di Totò, che fin da bambino coltivava la passione per il cinema trascorrendo il meglio della sua infanzia accanto al vecchio amico, trasgredendo il divieto materno, nel mentre scorrevano le immagini del fantastico mondo di celluloide. Insieme, i due sosterranno l'esame di licenza elementare. In cambio dei risultati della prova, Alfredo gli insegnerà i trucchi del proprio mestiere. La loro assidua frequentazione viene meno allorquando Totò, ritornato da Roma dove aveva prestato il servizio militare, si sentirà consigliare dal buon Alfredo, ormai cieco, di inseguire i suoi sogni, lasciando la Sicilia e trasferendosi a Roma. "Ognuno di noi, gli dice Alfredo, ha una stella da seguire ...ora sei più cieco di me. Sei giovane, il mondo è tuo, non voglio più sentirti parlare, voglio sentir parlare di te !". Ed è dopo di ciò che il ragazzo parte per la sua strada, per fare ritorno in Sicilia anni e anni dopo, quando il vecchio è ormai morto. In eredità gli è stata lasciata la raccolta di tutti quegli spezzoni censurati dal prete, gestore e supervisore inflessibile delle proiezioni dei primi anni. Il beneficiario, ormai regista egli stesso, ne prenderà visione divertito e nel contempo commosso nell'assaporare l'enorme portata simbolica del dono ereditato: una trasgressione protratta e condivisa tra loro due soltanto.
Uno dopo l'altro, vorrei segnalare ancora i capolavori cinematografici di Clint Eastwood "Million dollar baby" (2005) e "Gran Torino" (2009) in cui un allenatore nell'uno, ed un vicino di casa nell'altro, finiscono con l'affiliarsi rispettivamente una giovane pugile e un giovane coreano. La giovane, nel primo, pur apparendo sotto le mentite spoglie di una "causa persa", riconosciuta nel suo desiderio di diventare un pugile professionista, apprezzata dal coach in quanto non dissimile da com'era lui anni prima per la stessa coraggiosa e pervicace vocazione di gioventù, verrà amata di un amore paterno infinito e struggente. Allo stesso modo, anche il giovane coreano, nel secondo, minacciato dalle continue provocazioni di un gruppo di delinquenti intenti ad irretirlo e dei quali avrebbe ben presto rischiato di diventare succube, viene "salvato" e aiutato a crescere proprio da quell'anziano vicino di casa apparentemente misantropo. Questi è uomo burbero, scettico, inaridito dalla vedovanza e dalla solitudine di cui nemmeno il figlio biologico si prende cura, ma ciò non gli impedirà di entrare in amicizia con il ragazzo: ne nasceranno un po' alla volta stima e affetto reciproci. Dopo averlo avviato sulla strada delle conoscenza e dell'adultità attraverso il lavoro, gli farà dono della sua automobile d'epoca, la prestigiosa e amatissima "Gran Torino", ma anche e soprattutto, infine, della sua stessa vita, per consentire quella di lui nel rispetto di se stesso e dei valori morali condivisi.

Vorrei anche menzionare una piacevolissima commedia di qualche anno fa (diretta da Peter Cattaneo nel 1997 ): "Full Monty", che include già dal titolo, l'ambivalenza semantica di un'espressione tipicamente bellica traducibile come "servizio completo". Qui si raccontano le vicende di un gruppo di operai cassintegrati delle acciaierie Sheffield che, oppressi dalla disoccupazione che rischia di aver tolto loro per sempre, assieme alla possibilità di una sopravvivenza economica, anche l'identità e l'autostima, tentano l'estremo riscatto improvvisandosi esperti spogliarellisti. Leader di questo manipolo di patetici irriducibili è Gaz, giovane padre che, impossibilitato a sostenere la spesa degli assegni di mantenimento e quindi altrimenti condannato a perdere la custodia del figlio, tenterà di evitare il tracollo economico ed emotivo di sé e di quell'armata brancaleone, disciplinando ed allenando il gruppo (sono indimenticabili le fatiche del casting!) ad organizzare lo spettacolo sotto lo sguardo complice e partecipato del giovanissimo figlio. Per questo suo procedere nell'intento senza alcun mascheramento, mostrandosi al figlio del tutto trasparente nella sua caparbietà che potrebbe sembrare puerile, riuscirà a mettersi contro dapprincipio tanto la ex-moglie quanto il Servizio Sociale vigilante, fino a che la tenace voglia di non sentirsi vinto tra "i vinti", non avrà la meglio, consentendo a tutti un meritato riscatto: lo spettacolo otterrà un meritato successo. Il racconto che vede lo snodarsi delle spassose avventure di tragicomici antieroi, genuini nella loro nudità vestita solo del loro coraggio e della loro determinazione, diviene dunque divertente metafora della rivincita del perdente, dell'insegnamento a non mollare costi quello che costi, sostenuta dall'amore filiale e resa possibile dall'amore paterno.

E ancora: il ben riuscito film francese di Francois Dupeyron "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano"(2003) con un del tutto convincente Omar Sharif come protagonista nel ruolo di "padre".
Ibrahim è un vecchio immigrato turco proprietario di una botteguccia, nella Parigi degli anni '50, dove si vendono generi alimentari. Vi si narra dei suoi ultimi e sereni anni di vita in cui, conosciuto Momo, un adolescente di origine ebraica rimasto "orfano" di entrambi i genitori (per diversi motivi i due si defileranno lasciandolo in balia di se stesso), si assumerà affettuosamente e responsabilmente cura del ragazzino fino ad adottarlo. Il rapporto che si instaura tra i due è affettuoso e tenero e gioverà al ragazzo che, ricevuti dall'anziano i fiori della sua saggezza, uno dei quali, ricorrente, è "sorridere rende felici", imparerà a coltivarli come fertili consigli per la sua vita "da grande". Gioverà nel contempo anche al vecchio che potrà, grazie al figlio, vivere appieno la propria vita ricevendo a sua volta dal figlio lo sprone ad imparare cose cui aveva rinunciato nel passato (come concedersi l'acquisto di un'auto sportiva, non prima di essere finalmente riuscito a superare l'esame di guida per conseguire la patente) e riuscendo a dare alla propria vita un senso profondo. Il film si chiude nel momento in cui, in compagnia del ragazzo, fatto ritorno al suo villaggio natio, Ibrahim passerà per così dire il testimone all'amato figlio, senza dolore e senza rimpianto.

Vorrei da ultimo menzionare il romanzo di Cormac McCarthy "La strada" (Einaudi, 2008), in cui i protagonisti sono un padre e un bambino, sopravvissuti in un mondo di pochi, sparuti e abbruttiti consimili, disumanati e incrudeliti nello scenario da incubo di un mondo asfittico, incenerito da una misteriosa catastrofe. In un panorama ormai senza speranza, tuttavia, questo padre saprà tener desta la fievole luce di un orizzonte possibile, in nome dell'amore, dell'amore speciale che lega un padre a un figlio. In un mondo ormai prossimo al collasso, dove chiunque pronuncerebbe il verso: "lasciate ogni speranza o voi ch'entrate", questo padre resiste. "E' così che fanno i buoni. Continuano a provarci, non si arrendono mai", dice al figlioletto lasciandogli in eredità gli strumenti per mantenere accesa la fiamma della vita e la luce della speranza. Nel finale, egli soccomberà, ferito a morte. Mentre si appresta a passare il testimone e si congeda da suo figlio, lo indirizzerà verso una comunità di "buoni" dove c'è una donna che se ne prenderà cura, non prima di averlo tranquillizzato con le parole: "Quando non ci sarò più tu potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò. Vedrai." Un'eredità davvero preziosa, la sua. La più preziosa di tutte. "Non si vede bene che col cuore", si legge ne "Il Piccolo Principe", "l'essenziale è invisibile agli occhi... "

giovedì 9 febbraio 2012

Chiacchiere di Carnevale



Dato il titolo ambiguo, conviene spiegare che mi accingo a chiacchierare tra me e me o tutt'al più con i miei pochi e benevolenti lettori, con pensieri in libertà, non importa se scomposti e slegati. Questa forzosa clausura, data l'eccezionale nevicata tutt'ora in corso, per la seconda settimana consecutiva, e che si accompagna ad un gelo letteralmente polare (ho capito perchè si dice "buriana", dal burian, freddissimo vento artico che deposita la neve in scomposti turbinii), di necessità ci tiene lontani dai nostri simili e dalla possibilità di scambiare anche solo quattro parole con anima viva. Mai come in questi giorni mi sento desiderosa di contatti umani com'è peraltro nella natura di noi animali sociali afflitti dalla nostra ontologica solitudine cui solo le parole parlate, lette o scritte, danno consolazione.
Data la stagione in cui "semel in anno licet insanire" e un latente desiderio di dolcetti carnevaleschi (chiacchiere, crostoli o galani a seconda delle diverse regioni), il titolo si è, per così dire, scritto da solo.
C'è poco da disambiguare però: le chiacchiere spolverate di zucchero vanigliato dovranno attendere, impossibili a farsi senza le uova che, come moltissimi altri generi alimentari freschi, mancano già da qualche giorno sugli scaffali dei supermercati. Non restano che le altre, quelle fatte di parole.
E anche qui, dato l'isolamento, tocca accontentarsi di interlocutori illusorii: il foglio bianco andrà benissimo.

Disambiguare le parole per dare loro il giusto senso...

Consideravo al momento, nella buriana dei miei pensieri, che è il contesto a fare la differenza tra i due o più significati che talvolta una stessa parola può avere. E' cioè sempre il contesto che disambigua il testo, e questa è una precipua caratteristica, intrinseca, del linguaggio.
Esistono parole, tantissime in verità, che hanno più d'un significato: fiasco, stufa, pesca, merlo, temporale, mento, collo, fronte, molare, faccia, volto. Fiasco come tipo di bottiglia ma anche come insuccesso, stufa come apparecchio utile a scaldarsi o sinonimo di "stanca", pesca come frutto o come sistema per catturare il pesce, merlo come uccello dal piumaggio nero o dettaglio di finitura di una torre guelfa, temporale come fenomeno atmosferico o zona del cranio o ancora relativo al tempo inteso come Xronos, collo come anche pacco postale, fronte come anche zona di guerra in prima linea, molare, faccia e volto come anche verbi. Normalmente non rileviamo alcuna ambiguità perchè, di norma, è il resto della frase a suggerirci il senso giusto di ogni parola, talchè il con-testo regola il senso. Qualcosa di simile accade quando le parole interagiscono con le immagini (e dunque con contesti) differenti. La stessa figura, cosiccome una stessa parola, assumerà diverso significato a seconda dello sfondo sul quale si staglia, della contiguità con elementi diversi dello stesso campo, ma anche del colore con il quale viene scritta, delle dimensioni, del tipo di carattere o grafia e degli elementi paratestuali in generale.
Di queste faccende sono competenti, oltre ai linguisti, i pubblicitari e gli studiosi della comunicazione in generale e, oltre a loro, tutti coloro i quali sanno bene che il gran problema è comunicare per poter...comunicare (come dire e cosa dire per esprimersi e farsi capire).
Ovviamente le ambiguità di senso possono essere utilizzate, nella comunicazione, anche a scopo manipolatorio, con la precisa intenzione di ingannare o fuorviare, oppure possono più semplicemente essere usate secondo forme retoriche che rimandano al linguaggio persuasivo, oppure possono essere utilizzate nel linguaggio comico o surreale.
Credo, in ogni caso, convenga avere conoscenza di tali meccanismi, vuoi per usarli in maniera opportuna impossessandosene, vuoi per poterci difendere da chi questi meccanismi li usa in modo discutibile.
A tal fine voglio suggerire un prezioso libello dal titolo "Le vie del senso" -come dire cose opposte usando le stesse parole- ed. Carocci, scritto da Annamaria Testa.
Sempre per contiguità, mi viene in mente un'altra lettura estremamente interessante: "La manomissione delle parole", dove l'autore -Gianrico Carofiglio- mette in guardia dall'uso improprio o deliberatamente mistificatore che sempre più spesso ne viene fatto. Di per sé, dice , le parole hanno un grande potere, talmente grande da poter essere considerate strumento per cambiare il mondo. Ma spesso, tuttavia, le abbiamo esaurite e consunte consumandole con usi impropri, eccessivi, inconsapevolmente o consapevolmente distorcenti. Se ne abbiamo abusato, dobbiamo restituire loro la "verginità, il senso, la dignità e la vita". Dobbiamo riflettere sul significato, ad es. di parole quali : giustizia, vergogna, responsabile, onore, dignità, ecc. Dobbiamo anche riflettere su tutti i linguaggi tecnici come per es. il linguaggio politico, quello medico o quello giuridico che si prestano più di altri a venir usati come lingua sacerdotale tesa a renderne ardua la comprensibilità per i non specialisti e che rischiano di configurarsi perlopiù come anti-lingua, come "terrore semantico" e forme compiaciute dell'esercizio del potere, come strumenti cioè, come li definiva Calvino, "utili più a non dire che a dire", tanto è vero che costituiscono linguaggi a sé, infarciti di neologismi incomprensibili ai più.
Le parole (dal greco " logos" ) fondano l'azione (la quale implica sempre una scelta) e la inscrivono in un panorama di senso, perchè il logos si estende ad indicare anche il discorso, ovvero il mettere insieme le parole che distinguono le cose tra di loro ed i rapporti esistenti fra le cose. Il logos, proprio dell'essere umano che parla e capisce, che si connette al verbo lego (raccontare, mettere insieme secondo un ordine razionale, scegliere), "è parola, pensiero, capacità di scegliere, abilità di raccontare". E noi umani, dotati della facoltà di parola, materializzatasi per la prima volta come simbolo grafico su di una tavoletta di pietra o su di un papiro passando da suono a rappresentazione, attraverso l'uso di questa, possiamo esplorare le profondità del nostro essere e le profondità del mondo, partecipando di entrambi, da uomini liberi.
La stessa parola "logos" può essere tradotta in modi diversi. Uno di questi, che corrisponde all'incipit del Vangelo di Giovanni, viene per solito tradotto con "Verbo" ne "In principio era il Verbo". Ci ha provato Goethe, nel suo Faust, traducendola con "potenza creativa", ma anche, progressivamente, con Parola, Pensiero, Energia, ed infine Azione. Hitler, saltando tutti i passaggi, ebbe a scrivere di apprezzare Goethe per questa sua definizione di logos come "azione". Dice Carofiglio: "è una deformazione inquietante: il significato di logos, privato del valore della parola e del pensiero, diviene azione senza senso, azione senza pensiero,...un -fare- astratto e indeterminato che, proprio per il fondarsi sul primato dell'azione e non del pensiero rischia di essere, nel migliore dei casi, un contenitore vuoto. Ne consegue, fatalmente, il disprezzo retorico e pericolosissimo, per le -parole- che invece fondano l'azione e la iscrivono in un panorama di senso." Una traduzione, quella che piaceva al dittatore, riduttiva, che ne tradisce l'intento di un impiego autoritaristico e manipolatorio.
Mi viene in mente ora che Mattew Fox, nel suo "Original blessing" (tradotto in Italiano con "In principio era la gioia" e con l'ottima prefazione del teologo Vito Mancuso), traduce la parola originaria "dabhar" come parola-energia creativa di Dio, ovvero come parola che implica anche atti concreti. Ecco allora, dice, che "il creato è il primo dei sacramenti, e la creazione non è nel passato, come dicono i fondamentalisti nel loro tentativo perverso, ancorchè inconscio, di imprigionare Dio (e quindi la sua creazione). La creazione continua, è una realtà in corso, essa è in noi e noi siamo in essa"... e "la Natura stessa è "scrittura primaria" dove "la dabhar fa appello sia all'emisfero destro del cervello -emisfero creativo- (gioco, affetto, amore), sia a quello sinistro -del linguaggio- (termini, conoscenza, verità). Non soltanto parole, dunque, ma fatti. Non soltanto un parlare, ma un vero e proprio creare."
In principio fu quindi, per Fox, una bene-dizione (e non la maledizione, non il peccato "originale", che origina e mette in moto), fu la teoria e la pratica che dice il bene: una bene-dizione originaria: non il dolore, ma la gioia, non la religione (come fredda conformità dottrinale) ma la spiritualità.
E la spiritualità, nell'intento del prefattore all'opera " è da intendersi come libertà, fiducia nella vita, capacità di critica, giudizio personale, amore per la bellezza, comunione con la natura e gli esseri umani". Non dovrebbe essere questo, anche, il senso del dialogare?
Oppure al principio di tutto fu la voce, e di essa la sua espressione primigenia: il canto, che con i suoi suoni melodici ancorchè inarticolati è linguaggio dell'anima e del sentimento, come ebbe a ipotizzare in un suo mirabile spettacolo l'attore di origine ebraica Moni Ovadia ? In fin dei conti la prima espressione vocale del neonato non è forse il canto, quello del gorgheggio modulato, ma anche del pianto ed in seguito della lallazione? Forse, come sostengono i maestri della Cabala, in principio era la voluttà di un canto (la prima parola ebraica della genesi "bereshit", in principio può essere anagrammata in "taeb shir", voluttà di un canto) chè creazione e rivelazione si manifestano attraverso il suono, sia esso quello dell'esplosione primigenia o relativo all'opera del Creatore, o ancora al sublime estro creativo del caso. Potente e ammaliante come il canto delle sirene che sconvolse Ulisse ma benigno come la voce di una madre che culla il figlio ancora in grembo, il canto accompagna lo stupore della creazione (anche artistica) e ci induce a ritenere che la nostra origine e l'origine dell'Universo che ci circonda cantino.
n canto, lo deducono dalla prima parola ebraica della
Ritornando a Carofiglio, leggo riportato l'incipit del famoso discorso di Barack Obama alle primarie : "...il nostro destino è scritto non per noi, ma da noi, da tutti gli uomini, da tutte le donne che non vogliono accontentarsi del mondo com'è: che hanno il coraggio di rifare il mondo come dovrebbe essere. ..."
Questo mi sembra essere il senso dell'espressione "scrivere la storia"; per scriverla, come dice Carofiglio, con l'autonomia, con la responsabilità, con la capacità di ricordare il passato e raccontarlo, -chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla-, con l'arte e il coraggio di leggere e raccontare le storie, possiamo cambiare il mondo, immaginare, "cercare" di rifarlo come dovrebbe essere,...ribellandoci, se del caso, al mondo "as it is" così com'è ... avendo il coraggio di essere rivoluzionari, di dire no." ... "Dire (o raccontare) -da logos- e scegliere -da lego- sono azioni, nella loro intima essenza, straordinariamente simili. "La parola ha in sé, nella sua radice, un potere vastissimo: essa crea e definisce la nostra rappresentazione del mondo, e dunque il nostro mondo, così come siamo capaci di conoscerlo. Allo stesso modo, l'atto della scelta trasforma la potenza in atto e dà forma a ciò che è indefinito. E nel definirlo, trasforma, cambia il mondo. Sia esso il nostro mondo privato e interiore, o quello esterno in cui entriamo in rapporto con i nostri simili. Scegliere -e dire- implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui possiamo dare un nome. Ci consente di passare dall'ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza indecifrabile alla possibile salvezza."
L'ipocognizione, l'incapacità di dare un nome alle cose e alle emozioni, corrisponde ad una situazione tragica. Paradigmatico è il caso dei Tahitiani studiati da B. Levy che, incapaci di dare un nome al dolore spirituale, quando lo provavano, ricorrevano al suicidio. L'incapacità di designarlo, di identificarlo, dando quindi voce alla loro intensa sofferenza psichica, li spingeva al gesto estremo e, con esso, all'estremo mutismo. La violenza, del resto, auto o alloplastica che sia, è muta, ed è la conseguenza della miseria di parole, come anche Daniel Pennac (nel suo efficacissimo "Diario di scuola" ) ha testimoniato.
Nell'antica Grecia, culla di civiltà e della democrazia, sapevano bene che essere politici e vivere nella polis voleva dire che tutto si decideva con le parole e la persuasione, e non con la forza e la violenza.


martedì 3 gennaio 2012

Preferivo la Befana


Nei primi anni della mia infanzia aspettavo con ansia la nascita del Bambinello, e il giorno in cui finalmente l'avrei deposto nella sua culla-mangiatoia, e l'arrivo della Befana con i suoi doni. Babbo Natale mi era sconosciuto. Apparve più tardi, all'incirca, se non ricordo male, all'epoca in cui cominciavo a padroneggiare la scrittura, erano nate le mie sorelle gemelle e si era agli inizi degli Anni '60. Lo sentii come un usurpatore, una sorta di reificazione di un personaggio da "Carosello", un'invenzione consumistica che non riuscì mai a suscitare la mia spontanea simpatia e men che mai ad avere il fascino indiscusso dell'evento magico, dello stupore che di anno in anno si sarebbe rinnovato invece nell'attesa della buona vecchina. Diciamo che lo accettai, così moderno, così straniero, così Americano con i suoi jinglebells, soltanto per interesse: avrei goduto del doppio dei doni. Ma non ebbi mai per lui la stessa struggente e partecipata tenerezza che provavo per quel Bambinello, fulcro luminoso del presepe, che pure portava doni ai bambini buoni, nè ebbi mai l'identica simpatia che riservavo alla Befana che, sotto le mentite spoglie di una vecchia e brutta strega, tradiva un animo del tutto amorevole e generoso.
Pur non avendo alcuna cognizione antropologica o cosmologica, riconoscevo Gesù Bambino, per quanto oscuramente, come prototipo del "puer aeternus" il cui avvento, invocato da tutti i popoli anche prima della cristianità, era atteso come simbolo di rinascita e continuità della vita, frutto della sacra unione tra il vigore solare e la fecondità della Terra, Grande Madre di tutti, in un periodo dell'anno in cui, a causa del solstizio d'inverno, per tutti si rinnova la paura dello spegnimento dell'Astro Luminoso e della conseguente infecondità del suolo terrestre.
Pur non conoscendo la storia dei Veneti, la "mia gente", come popolo migratore adoratore del Sole che fin dalla preistoria procedette lungo il cammino dell'Astro fino al punto in cui non era possibile andare oltre nella regione bretone di Finistère (finis terrae), e pur non riconoscendo nel superstite rito dei falò praticato nella notte dell'Epifania la testimonianza di quell'adorazione, attendevo con ansia quella notturna festa campestre che avrebbe illuminato a giorno una delle notti più fredde e buie dell'anno. Mi sfuggiva totalmente il significato del rito propiziatorio dell'accensione del fuoco dei falò come forma di aiuto nei confronti del Sole che veniva in questo modo esortato a riscaldarsi e a risplendere per riprendersi dalla sua crisi invernale. Ignoravo la genesi ed il significato del rito alimentare della comunione del dolce tipico di questo periodo, i cui ingredienti corrispondevano simbolicamente a ciascuna delle principali risorse alimentari della Terra Veneta, come scambio propiziatorio. Eppure partecipavo trepidante dell'attesa e dell'incanto delle Feste Natalizie assaporandone la magia e i misteri perchè di questi (la Nascita, i doni dei Magi, la Stella Cometa, l'Albero, il Vischio, i Doni, "la Pinsa" prima che il Panettone...) partecipavo, intuendone, in qualche modo, il significato simbolico-augurale del rinnovarsi di un ciclo.

Non risolsi mai il mistero di come facesse la Befana a calarsi nel camino, di come potesse portare nella stessa notte tanti doni a tutti i bambini del mondo, di come riuscisse a riconoscere i meritevoli, o di come facesse a sopravvivere, senza scoppiare di indigestione e senza ubriacarsi di brutto, se in casa di ciascuno si andava rifocillando con una fetta di dolce (la tipica "pinsa" fatta di farina di grano e mais ricca di frutta secca) e un bicchiere di vino. Ma tant'è: il mistero è mistero, l'importante è crederci.
La magia vera, l'attesa partecipata e l'apparizione (epifania appunto) unica possibile in cui potessi credere (verificavo al mattino le tracce effettive tra la cenere del caminetto, piattino e bicchiere vuoti), erano possibili solo grazie alla Befana che mi rappresentavo come la mamma di tutte le nonne e bisnonne del mondo, un'adorabile vecchina, quintessenza della femminilità materna, eroicamente capace di sopportare uno sforzo titanico (figuriamoci caricare nel sacco quel mare di doni tra cui magari anche una biciclettina) in una notte sola, per tutti i bambini del mondo, fin dai tempi dei tempi...
E poi Babbo Natale, beh sì, lo si poteva anche chiamare "Papà" Natale, ma non sarebbe stato il suo Vero Nome, e dalle mie parti, nel Veneto, non si è mai sentito nessun bambino chiamare il proprio genitore di sesso maschile "babbo" (lo faceva solo Pinocchio che infatti era Toscano), ma sempre e solo "papà". E poi, Lui, portava i doni indiscriminatamente a tutti i bambini e non soltanto a quelli meritevoli, deponendoli sotto lo scintillante albero di Natale, nel salotto buono o tinello, in quella stanza più fredda adiacente la cucina, dove il nonno passava il tempo a fumare e a leggere il Corriere della Sera, appisolandosi a lungo per smaltire la fatica post-prandiale ma dove noi, tutti noialtri, non si stava quasi mai congiuntamente, se non certe sere, a guardare certi programmi TV di alto gradimento (Campanile sera, Lascia o Raddoppia, il Festival di Sanremo, Non è Mai Troppo Tardi del compianto Maestro Manzi...).
Sinceramente non c'era paragone tra il calore della cucina, stanza muliebre, dove avrebbe posto i suoi doni la Befana, e la freddezza del tinello, stanza maschile, dove li avrebbe posti Babbo Natale. Il tinello infatti era una stanza abitata perlopiù dall'anziano Capostipite, buona tuttalpiù per accogliere gli ospiti in visita, il più frequente dei quali era il Medico di Famiglia che vi compiva le sue taumaturgiche liturgie (la più magica tra tutte mi sembrava essere la misurazione della pressione arteriosa, nel mentre bisognava osservare un religioso silenzio carico soltanto dei sottili soffi dello sfigmomanometro, dal cui esito sembravano dipendere la vita come la morte).
Altro era la cucina, cuore pulsante della casa dove si affaccendavano perennemente le donne: la nonna, la mamma, fintanchè fu possibile permettersela anche la cameriera, e la bisnonna Antonietta che col suo sorriso perennemente benevolo trascorreva il tempo, quando non leggeva il Corriere della Sera in seconda lettura (toccava prima al nonno), confezionando pizzi e centrini all'uncinetto alla rapidità della luce (e come ci riuscisse con quel suo occhio spento, appannato e ceruleo, resta uno dei tanti misteri).
Credevo nella Befana come in Gesù, che per tutta l'infanzia mi raffiguravo Bambino, un bambino che cresceva con me e che immaginavo diventasse sempre più buono e giusto, più di quanto riuscissi a credere in Dio, un Padre che non mi riusciva di raffigurarmi se non come presenza immanente vagamente inquietante a causa della sua potenza punitiva. E a dir la verità li pregavo entrambe, Gesù sommessamente o con parole interiori specialmente la sera, la Befana una volta all'anno e con richieste orali rivolte ai "Grandi" della famiglia "per interposta persona", almeno fino a che non mi fu possibile vergare, direttamente a Lei, una composta letterina.
Pensavo alla Befana come ad una Grande Madre Giusta che, alla fine di ogni anno, avrebbe tirato le somme anche con me, valutando se sarei stata meritevole del carbone buono per la stufa oppure del carbone buono da mangiare offerto insieme ai doni.
Naturalmente temevo la sorpresa di una calza riempita col carbone da bruciare, quello stesso che un carretto recapitava di quando in quando a casa in forma di uova e di lingotti che venivano fatti scivolare giù per la bocca di lupo che se li inghiottiva fragorosamente per stiparli direttamente in cantina.
Ma in cuor mio sapevo che sarebbe stata una possibilità remota, più teorica che altro, e dunque mi aspettavo con più probabilità il carbone dolce (esisteva in tocchi irregolari bianchi o neri e ah, com'era buono quello scuro vagamente mentolato...!). Sapevo che ne avrebbe stipato la calza appesa alla cappa del camino, rendendone la sagoma inconfondibilmente bitorzoluta, con sporgenze acute per gli spigoli dei grossi tocchi di carbone, più piccole e comunque spigolose per le caramelle Baratti o Rossana, bollose per le arance e i mandarini.
Confidavo soprattutto nei Regali, che peraltro non erano mai mancati, e che sempre mi era dato di trovare più numerosi e ricchi di quelli che avevo sperato e richiesto.
Ogni anno ricevevo la conferma di essere stata buona secondo una valutazione che superava le mie stesse aspettative.
Ricevere o non ricevere i doni era dunque questione di merito, non di fortuna.
Nel mio Olimpo hanno convissuto a lungo queste tre divinità e di sicuro il posto privilegiato lo ha occupato la Befana.

Oggi mi chiedo se la credulità di tanti, troppi, tra i miei consimili che credono nella Dea Bendata, strofinando compulsivamente i Gratta e Vinci o il mouse durante una solitaria partita in uno qualunque dei giochi d'azzardo elettronici, non rappresenti una forma di permanenza del pensiero magico infantile, quello stesso che si affidava alla munificità indiscriminata di Babbo Natale piuttosto che all'equità meritocratica della Befana.
In una società sempre più senza Padre, per dirla con Mitscherlich, e dove Dio è morto, per dirla con Nietzsche e anche coi Nomadi, in questi tempi affannati e caotici in cui anche la Madre (Gea senza troppa Igea) sembra stare poco bene, ci si affida sempre più a quella Dea che, in quanto bendata, del tutto ciecamente potrebbe calare dal camino una Fortuna in qualunque giorno dell'anno. Poichè non sarebbe questione di merito, ma piuttosto di capacità di illusione (da "in-ludere", giocare dentro, sfidando il Caso), è giocoforza che i giocatori migliori siano paradossalmente i più svantaggiati (di certo non meno meritevoli, ma certo meno abbienti e più desiderosi di doni).
Ed ecco che il gioco d'azzardo come fenomeno compulsivo, anzichè decrescere, aumenta, e aumenta in maniera inversamente proporzionale al reddito mano a mano che anche il sogno Americano (altra eredità postbellica da Oltreoceano), come già ogni fiducia o fede nel Dono come premio ai meritevoli, va svanendo.