Nei primi anni della mia infanzia aspettavo con ansia la nascita del Bambinello, e il giorno in cui finalmente l'avrei deposto nella sua culla-mangiatoia, e l'arrivo della Befana con i suoi doni. Babbo Natale mi era sconosciuto. Apparve più tardi, all'incirca, se non ricordo male, all'epoca in cui cominciavo a padroneggiare la scrittura, erano nate le mie sorelle gemelle e si era agli inizi degli Anni '60. Lo sentii come un usurpatore, una sorta di reificazione di un personaggio da "Carosello", un'invenzione consumistica che non riuscì mai a suscitare la mia spontanea simpatia e men che mai ad avere il fascino indiscusso dell'evento magico, dello stupore che di anno in anno si sarebbe rinnovato invece nell'attesa della buona vecchina. Diciamo che lo accettai, così moderno, così straniero, così Americano con i suoi jinglebells, soltanto per interesse: avrei goduto del doppio dei doni. Ma non ebbi mai per lui la stessa struggente e partecipata tenerezza che provavo per quel Bambinello, fulcro luminoso del presepe, che pure portava doni ai bambini buoni, nè ebbi mai l'identica simpatia che riservavo alla Befana che, sotto le mentite spoglie di una vecchia e brutta strega, tradiva un animo del tutto amorevole e generoso.
Pur non avendo alcuna cognizione antropologica o cosmologica, riconoscevo Gesù Bambino, per quanto oscuramente, come prototipo del "puer aeternus" il cui avvento, invocato da tutti i popoli anche prima della cristianità, era atteso come simbolo di rinascita e continuità della vita, frutto della sacra unione tra il vigore solare e la fecondità della Terra, Grande Madre di tutti, in un periodo dell'anno in cui, a causa del solstizio d'inverno, per tutti si rinnova la paura dello spegnimento dell'Astro Luminoso e della conseguente infecondità del suolo terrestre.
Pur non conoscendo la storia dei Veneti, la "mia gente", come popolo migratore adoratore del Sole che fin dalla preistoria procedette lungo il cammino dell'Astro fino al punto in cui non era possibile andare oltre nella regione bretone di Finistère (finis terrae), e pur non riconoscendo nel superstite rito dei falò praticato nella notte dell'Epifania la testimonianza di quell'adorazione, attendevo con ansia quella notturna festa campestre che avrebbe illuminato a giorno una delle notti più fredde e buie dell'anno. Mi sfuggiva totalmente il significato del rito propiziatorio dell'accensione del fuoco dei falò come forma di aiuto nei confronti del Sole che veniva in questo modo esortato a riscaldarsi e a risplendere per riprendersi dalla sua crisi invernale. Ignoravo la genesi ed il significato del rito alimentare della comunione del dolce tipico di questo periodo, i cui ingredienti corrispondevano simbolicamente a ciascuna delle principali risorse alimentari della Terra Veneta, come scambio propiziatorio. Eppure partecipavo trepidante dell'attesa e dell'incanto delle Feste Natalizie assaporandone la magia e i misteri perchè di questi (la Nascita, i doni dei Magi, la Stella Cometa, l'Albero, il Vischio, i Doni, "la Pinsa" prima che il Panettone...) partecipavo, intuendone, in qualche modo, il significato simbolico-augurale del rinnovarsi di un ciclo.
Non risolsi mai il mistero di come facesse la Befana a calarsi nel camino, di come potesse portare nella stessa notte tanti doni a tutti i bambini del mondo, di come riuscisse a riconoscere i meritevoli, o di come facesse a sopravvivere, senza scoppiare di indigestione e senza ubriacarsi di brutto, se in casa di ciascuno si andava rifocillando con una fetta di dolce (la tipica "pinsa" fatta di farina di grano e mais ricca di frutta secca) e un bicchiere di vino. Ma tant'è: il mistero è mistero, l'importante è crederci.
La magia vera, l'attesa partecipata e l'apparizione (epifania appunto) unica possibile in cui potessi credere (verificavo al mattino le tracce effettive tra la cenere del caminetto, piattino e bicchiere vuoti), erano possibili solo grazie alla Befana che mi rappresentavo come la mamma di tutte le nonne e bisnonne del mondo, un'adorabile vecchina, quintessenza della femminilità materna, eroicamente capace di sopportare uno sforzo titanico (figuriamoci caricare nel sacco quel mare di doni tra cui magari anche una biciclettina) in una notte sola, per tutti i bambini del mondo, fin dai tempi dei tempi...
E poi Babbo Natale, beh sì, lo si poteva anche chiamare "Papà" Natale, ma non sarebbe stato il suo Vero Nome, e dalle mie parti, nel Veneto, non si è mai sentito nessun bambino chiamare il proprio genitore di sesso maschile "babbo" (lo faceva solo Pinocchio che infatti era Toscano), ma sempre e solo "papà". E poi, Lui, portava i doni indiscriminatamente a tutti i bambini e non soltanto a quelli meritevoli, deponendoli sotto lo scintillante albero di Natale, nel salotto buono o tinello, in quella stanza più fredda adiacente la cucina, dove il nonno passava il tempo a fumare e a leggere il Corriere della Sera, appisolandosi a lungo per smaltire la fatica post-prandiale ma dove noi, tutti noialtri, non si stava quasi mai congiuntamente, se non certe sere, a guardare certi programmi TV di alto gradimento (Campanile sera, Lascia o Raddoppia, il Festival di Sanremo, Non è Mai Troppo Tardi del compianto Maestro Manzi...).
Sinceramente non c'era paragone tra il calore della cucina, stanza muliebre, dove avrebbe posto i suoi doni la Befana, e la freddezza del tinello, stanza maschile, dove li avrebbe posti Babbo Natale. Il tinello infatti era una stanza abitata perlopiù dall'anziano Capostipite, buona tuttalpiù per accogliere gli ospiti in visita, il più frequente dei quali era il Medico di Famiglia che vi compiva le sue taumaturgiche liturgie (la più magica tra tutte mi sembrava essere la misurazione della pressione arteriosa, nel mentre bisognava osservare un religioso silenzio carico soltanto dei sottili soffi dello sfigmomanometro, dal cui esito sembravano dipendere la vita come la morte).
Altro era la cucina, cuore pulsante della casa dove si affaccendavano perennemente le donne: la nonna, la mamma, fintanchè fu possibile permettersela anche la cameriera, e la bisnonna Antonietta che col suo sorriso perennemente benevolo trascorreva il tempo, quando non leggeva il Corriere della Sera in seconda lettura (toccava prima al nonno), confezionando pizzi e centrini all'uncinetto alla rapidità della luce (e come ci riuscisse con quel suo occhio spento, appannato e ceruleo, resta uno dei tanti misteri).
Credevo nella Befana come in Gesù, che per tutta l'infanzia mi raffiguravo Bambino, un bambino che cresceva con me e che immaginavo diventasse sempre più buono e giusto, più di quanto riuscissi a credere in Dio, un Padre che non mi riusciva di raffigurarmi se non come presenza immanente vagamente inquietante a causa della sua potenza punitiva. E a dir la verità li pregavo entrambe, Gesù sommessamente o con parole interiori specialmente la sera, la Befana una volta all'anno e con richieste orali rivolte ai "Grandi" della famiglia "per interposta persona", almeno fino a che non mi fu possibile vergare, direttamente a Lei, una composta letterina.
Pensavo alla Befana come ad una Grande Madre Giusta che, alla fine di ogni anno, avrebbe tirato le somme anche con me, valutando se sarei stata meritevole del carbone buono per la stufa oppure del carbone buono da mangiare offerto insieme ai doni.
Naturalmente temevo la sorpresa di una calza riempita col carbone da bruciare, quello stesso che un carretto recapitava di quando in quando a casa in forma di uova e di lingotti che venivano fatti scivolare giù per la bocca di lupo che se li inghiottiva fragorosamente per stiparli direttamente in cantina.
Ma in cuor mio sapevo che sarebbe stata una possibilità remota, più teorica che altro, e dunque mi aspettavo con più probabilità il carbone dolce (esisteva in tocchi irregolari bianchi o neri e ah, com'era buono quello scuro vagamente mentolato...!). Sapevo che ne avrebbe stipato la calza appesa alla cappa del camino, rendendone la sagoma inconfondibilmente bitorzoluta, con sporgenze acute per gli spigoli dei grossi tocchi di carbone, più piccole e comunque spigolose per le caramelle Baratti o Rossana, bollose per le arance e i mandarini.
Confidavo soprattutto nei Regali, che peraltro non erano mai mancati, e che sempre mi era dato di trovare più numerosi e ricchi di quelli che avevo sperato e richiesto.
Ogni anno ricevevo la conferma di essere stata buona secondo una valutazione che superava le mie stesse aspettative.
Ricevere o non ricevere i doni era dunque questione di merito, non di fortuna.
Nel mio Olimpo hanno convissuto a lungo queste tre divinità e di sicuro il posto privilegiato lo ha occupato la Befana.
Oggi mi chiedo se la credulità di tanti, troppi, tra i miei consimili che credono nella Dea Bendata, strofinando compulsivamente i Gratta e Vinci o il mouse durante una solitaria partita in uno qualunque dei giochi d'azzardo elettronici, non rappresenti una forma di permanenza del pensiero magico infantile, quello stesso che si affidava alla munificità indiscriminata di Babbo Natale piuttosto che all'equità meritocratica della Befana.
In una società sempre più senza Padre, per dirla con Mitscherlich, e dove Dio è morto, per dirla con Nietzsche e anche coi Nomadi, in questi tempi affannati e caotici in cui anche la Madre (Gea senza troppa Igea) sembra stare poco bene, ci si affida sempre più a quella Dea che, in quanto bendata, del tutto ciecamente potrebbe calare dal camino una Fortuna in qualunque giorno dell'anno. Poichè non sarebbe questione di merito, ma piuttosto di capacità di illusione (da "in-ludere", giocare dentro, sfidando il Caso), è giocoforza che i giocatori migliori siano paradossalmente i più svantaggiati (di certo non meno meritevoli, ma certo meno abbienti e più desiderosi di doni).
Ed ecco che il gioco d'azzardo come fenomeno compulsivo, anzichè decrescere, aumenta, e aumenta in maniera inversamente proporzionale al reddito mano a mano che anche il sogno Americano (altra eredità postbellica da Oltreoceano), come già ogni fiducia o fede nel Dono come premio ai meritevoli, va svanendo.
brava Licia!la tua descrizione mi ha fatto rivivere le stesse emozioni di quando ero bimba anch'io ed aspettavo con trepidazione l'arrivo della vecchina ed il carbone era dolce.
RispondiEliminaPinin
sei una grande scrittrice e una grande amica
RispondiEliminarita
Non ti smentisci mai!!!!!!!!!!Un oratrice nata!!!
RispondiEliminaBuona festa della befana!!!!!!!!
Complimenti Licia. Hai dato dignità ad un personaggio trascurato attraverso le tue parole. È un piacere leggerti.
RispondiEliminaSono appena tornata dall'Austria perciò rispondo solo adesso : leggerti è un assoluto piacere.
RispondiEliminaL'idea abbozzata a casa mia ....continua, per me, ad essere un obiettivo da raggiungere ...entro il 2012????
Mi auguro di sì.
Un abbraccio grande. Luisella
Cara Luisella, sì: l'idea è nata a casa tua, con te grazie a te. Sei la mia Musa ispiratrice!
Eliminacara Licia il tuo delizioso testo ha confermato una mia intuizione. Anch'io come te ho vissuto la stessa apprensione, le stesse attese per una entità fantastica a cui andavano affetto e simpatia. Babbo Natale ( da noi si dice babbo, non papà ) non ha mai riscosso la mia simpatia e non ricordo di avere ricevuto doni da quel tipo vestito di rosso a cui non scrivevo certo letterine. Ricordo le domande che mi ponevo " come fa a ricordarsi di tutti " e anche " come fa a passare dal camini " oppure dal tubo della stufa, per chi non aveva il camino, e tante altre, frutto anch'esse della stessa fantasia con cui circondavo di un'aura magica quel personaggio così amato. Le domande rimasero inevase e non volli credere mai alla rivelazione della mia sorellina che un giorno mi disse " la Befana è la mamma ! " Infatti la risposta era troppo semplicistica e non riusciva a risolvere il mistero. Poi oggi il tuo bellissimo e tenero scritto mi ha confermato nella mia iniziale intuizione : la Befana sei tu. Non lo dirò a nessuno, conserverò gelosamente questo segreto ad ogni costo, non voglio togliere un sogno bellissimo a quei tanti bimbi che hanno la fortuna di attenderla trepidanti anche questa sera. Baci
RispondiEliminaAll'amico Sauro: Befana come quintessenza di Mamma, come dispensatrice di carbone dolce e altri doni. Tanto più ora che la gioventù resta solo un ricordo, non mi dispiace affatto questa somiglianza, anzi questa nuova identità. Viva viva la Befana!
RispondiElimina