Ho l'impressione che volendo sintetizzare cosa voglia dire essere padre ed esplicare in cosa consista la "funzione paterna" ci si trovi spesso in difficoltà (per primi proprio gli uomini, padri compresi) più di quanto non avvenga nel cercare di definire cosa siano, o debbano essere, la madre o la funzione materna. Ciò per alcune ragioni del tutto evidenti, la prima della quali è senz'altro quella che potremmo definire come "evaporazione della famiglia" come istituzione fondata sul matrimonio.
Usciti come siamo da una società con struttura spiccatamente e diffusamente patriarcale, tutti noi, in particolar modo quelli in grado di essere già nonni, ci sentiamo particolarmente in difficoltà a causa dei cambiamenti di ruolo avvenuti di recente all'interno della famiglia dove, di sicuro, l'immagine vetusta e autoritaria del padre-padrone o del padre autoritario ("ho detto di no perchè no" e "fai così perchè te lo dico io"), sono solo un ricordo od una mitologia lontana e inattuale.
Oggi il padre, nelle società occidentali, non è più autoritario ed in qualche caso fatica persino ad essere autorevole; il suo ruolo non è più così dissimile da quello svolto dall'altro genitore che parimenti, ha perso o va perdendo vieppiù d'autorità.
Fatica anche a fornire modelli di comportamento e di identificazione. Spodestato com'è, nella società superorganizzata, di un ruolo certo che lo vedeva in qualche modo privilegiato, costretto all'esercizio della professione lontano dagli occhi dei figli e, qualche volta, lontano da ogni comprensibilità, è condannato a non poter assolvere nè il compito di fornire una costante presenza affettiva, nè quello pedagogico di trasmettere, attraverso l'esempio, una prassi di vita.
Il padre odierno rischia di risultare sbiadito, assente, dimenticato.
Un'importante funzione che gli riconosciamo, al di là dei costumi e dell'organizzazione sociale, è quella di prototipo dell'Altro (quell'Altro-da-sé la cui vita autonoma ci attira e desta la nostra simpatia) rappresentativo di tutti gli "altri" con cui il bambino dovrà nel tempo confrontarsi. E' in sostanza il primo Altro capace di insinuarsi nella coppia madre-figlio favorendone la separazione, processo questo che in seguito renderà possibile al cucciolo d'uomo l'individuazione. Rappresenta il primo sguardo esterno alla diade fusa (perlopiù con-fusa e sim-biotica almeno sino al 2°anno di età) capace di prospettare un orizzonte al di là della frattura che genera abbandono.
Favorisce il distacco, il cammino verso l'autonomia e il senso di sé del bambino, rendendogli possibile l'esperienza dell'allontanarsi e del ritornare dalla mamma (cfr. la funzione del gioco simbolico del rocchetto descritto da Freud). Sarà nel contempo limite e contenimento, promozione e disciplina del desiderio altrimenti onnipotente, tracotante, pervaso di egocentrismo e di hybris, argine al dilagare del narcisismo primario che, con crescente frequenza, rischia di trasformarsi e consolidarsi pericolosamente in un narcisismo secondario.
Il sentirsi escluso dalla coppia genitoriale, anche se amato, obbliga il figlio ad elaborare e risolvere la propria solitudine al di fuori appunto da quella coppia. Ecco che il padre, promuovendo il contenimento e l'accettazione del limite, introdurrà le Regole come strumenti di orientamento atti a disciplinare il desiderio individuale e a rendere disponibili a riconoscere la pluralità dei punti di vista necessari al riconoscimento del sé.
Donald Winnicott diceva che mentre la madre rappresenta la stabilità del focolare domestico, il padre rappresenta la vivacità della strada. Sarebbe un veicolo di transito, dunque, dalla sicurezza di casa all'attraente e avventurosa incertezza degli incontri.
E' chiaro che nell'intraprendere il cammino lungo la strada della vita autonomamente vissuta, bisogna saper vincere la nostalgia, essendo essa un sentimento che ti fa voltare indietro distraendoti dal guardare avanti verso nuove conoscenze, verso il futuro. Orfeo, incapace di distaccarsi da Euridice, simbolo dell' Oggetto Primario narcisisticamente investito, nel voltarsi indietro, finì col pietrificarsi, come gli era stato predetto. E Orfeo, figlio del Dio Apollo -quel dio esso stesso eterno- figlio appena cresciuto e quindi "non-padre", è in qualche modo, infatti, drammaticamente orfano, destinato, come ci racconta il mito, a non poter procedere.
Al padre dunque possiamo riconoscere una importante funzione anti-nostalgica capace di consentire la separazione dalla madre puntando lo sguardo in avanti verso la crescita, verso nuovi investimenti affettivi, verso l'idea dell'avvenire come possibilità, da conquistarsi certo con fatica e sforzo, resistendo alla tentazione di mollare o cedere, e, così facendo, nella possibilità di trovare alfine soddisfazione.
Il padre è colui che consente di "essere lontano" senza provare uno smarrimento totale, potendo dare quegli strumenti di orientamento a chi, crescendo, dovrà trovare da sè la propria strada sostenuto da un sempre rinnovato desiderio ("de-sidera" sotto le stelle che indicano la strada). E deve funzionare da modello adulto verso cui si possa tendere.
E' chiaro che il modello è tale solo a patto che non venga giudicato irraggiungibile. Non deve perciò trovarsi troppo in alto su di un piedistallo su cui poggi come figura ideale ed esemplare, ma deve offrirsi come modello umano, coi suoi stessi limiti e le sue proprie ferite di cui egli stesso conservi memoria.
Il padre, attraverso il prendersi cura, la presenza, la dedizione, l'attenzione particolare che significa accettazione e valorizzazione della diversità del figlio nella sua unicità, attraverso la parola come testimonianza di un'eredità e come elemento del dialogo che sia, etimologicamente, partecipazione nella diversità piuttosto che dogma (nel dialogo nessuno mai ha l'ultima parola, "chiedete e vi sarà dato"), attraverso l'assunzione di responsabilità che vengono insegnate al figlio, offrirà in tal modo una testimonianza umana capace di orientare (orientarsi è trovare la Stella Polare che indichi l'Oriente) mostrando la rotta.
Vorrei ricordare che ciascuno si può orientare solo in relazione a se stesso, attraverso un movimento direzionale e direzionante su quel punto, in rapporto al proprio corpo e ai tre possibili sensi: alto-basso, destra-sinistra, davanti-dietro, e la rotta (dal lat. rupta) è una rottura funzionale all'attraversamento, continuamente screziato tra possibilità e impossibilità.
Il padre perciò, come il pensiero-guida filosofico e non dogmatico, è causa e rimedio del disorientamento, è guida infinita.
Non si limiterà ad istruire, ma, mantenendosi critico, insegna a essere critici, offrendo la disponibilità a riconoscere la pluralità dei punti di vista, che le persone sono diverse e la diversità è legittima e va rispettata. Offrirà testimonianza e quindi eredità; avendo la capacità di trattenere i ricordi di una vita, di non disperdere le orme, mostrando la "rotta", il sentiero, si rivelerà capace di raccogliere tracce per produrre nuove tracce. Attraverso non già l'ira, ma bensì il perdono (che non è mai estrema e incondizionata indulgenza, né oblio totale, ma piuttosto oblio parziale e volontario attraverso la memoria ed è inoltre sempre reciproco, da padre a figlio e da figlio a padre attraverso un costante reciproco riconoscimento) e attraverso la raccomandazione, il padre incoraggerà la capacità di scegliere, dunque di prendere posizione. Educherà al rispetto delle differenze, alla conoscenza e sopportazione dell'incertezza come conseguenza dell'apprendimento che, più si estendono le conoscenze, più ci dovrebbe indurre a superare la barriera della verità assoluta per prestare ascolto alle molteplici diversità, ciascuna delle quali, raccontando la sua propria verità, risulta relativa. Se saprà educare all'accoglienza delle diversità, queste non saranno più vissute come una minaccia; un buon padre avrà dunque educato alla tolleranza e, ancor meglio, alla com-prensione (da comprehendere -contenere) laddove la comprensione è mezzo e fine della comunicazione e del dialogo.
Per espletare la funzione paterna non occorre che vi sia consanguineità (la paternità non si regge sulla genetica come ben ci insegna la storia di Giuseppe falegname e di suo figlio Gesù).
Un uomo funziona come genitore quando vi è reciproco riconoscimento del ruolo padre-figlio e figlio-padre, quando sia possibile l'eredità del Nome non come eredità acritica che presupporrebbe un'altrettanto acritica idealizzazione del genitore, ma come possibilità di succedere al padre sapendo di poterne fare a meno, consci che nessun padre può mettere al riparo la nostra vita dal rischio dello smarrimento, della disavventura e del lutto, in un'autonomia che si possa servire di quel Nome come di un'eredità e di un valore di testimonianza.
Dice Massimo Recalcati che "un padre della testimonianza non può trasmettere cosa sia una via giusta o quale sia il criterio universale della felicità, perchè nessuno possiede questo sapere. Ciò che un padre della testimonianza può trasmettere è casomai proprio l'impossibilità stessa di questo sapere perchè è solo sullo sfondo di questa impossibilità che si apre la possibilità di incarnare il proprio desiderio come vitale e capace di fruttificare. Se invece questo impossibile viene scansato, forcluso, aggirato nel nome di un sapere sulla vita e sulla morte totalizzante e senza mancanze, non si dà trasmissione alcuna ma solo persuasione ideologica."
Il figlio che voglia "farsi un nome" facendosi da sè, da solo, narcisisticamente, senza confrontarsi con l'Altro e senza accettarne il supporto, è destinato al fallimento in una smodata e boriosa tracotanza mai costruttiva. Questo ci viene ricordato dal racconto mitologico di Icaro che, trascurando i premurosi suggerimenti del padre Dedalo intenzionato a ricordargli quali fossero, di necessità, gli umani limiti, spinto da un'eccessiva fiducia in se stesso, proprio su quegli umani limiti si autocondanna a sbattere pesantemente "il muso per terra, fino a ...rimetterci le penne". Ci viene ricordato anche nel testo biblico con il racconto della costruzione della torre di Babele, nonché nel brano di un testo del compianto Gaber che recita: "mi son fatto tutto da me, mi son fatto tutto da me, mi son fatto tutto di merda...", così come nell'espressione del tossicomane "mi faccio".
Non è possibile realizzare se stessi escludendo l'Altro, negandosene ogni vincolo, ogni discendenza, ogni debito simbolico, negandone la funzione virtuosa del limite. E nemmeno è possibile realizzare se stessi mantenendo un troppo stretto e troppo a lungo durevole legame con il cordone ombelicale che ingloba e mantiene la dipendenza (con, cioè, la madre-coccodrillo di lacaniana memoria).
Crescita e sviluppo potranno venire favoriti dal padre attraverso lo scambio del discorso (del logos come pensiero pensato e detto), da me a te e da te a me, ovvero attraverso la dialettica del dialogo. E non si deve dimenticare che la dialettica è conflitto, dal momento che presuppone il riconoscimento dell'alterità implicando che ciascuno dei dialoganti è responsabile di ciò che dice e per quello che dice. Ma è un conflitto reciprocamente educativo, perchè pone nelle condizioni l' uno e l'altro di ascoltare le ragioni altrui in un costruttivo confronto. I figli hanno bisogno di genitori in grado di sopportare il conflitto rappresentato primariamente dalla differenza generazionale. Un legame familiare sufficientemente buono, in seno al quale si renda possibile l'identificazione e il contrasto, è "quel legame che sa assicurare una certa oscillazione tra appartenenza ed erranza, tra provenienza e avvenire." ( M.Recalcati)
Un buon padre, che riconosca l'unicità del figlio per venirne a sua volta riconosciuto, è colui il quale insegna attraverso l'esempio che, nella vita, è necessario "continuare a provarci" senza darsi per vinti, in una continua sfida ai propri limiti personali ma non già agli umani limiti, dal momento che la condition humaine è per definizione una condizione che ci limita, essendo tutt'altro che onnipotente (diversamente avrebbe natura divina), e perciò contempla fatica e sacrifici come fondamentali elementi che consentono la soddisfazione.
Un breve cenno alla recente produzione cinematografica e narrativa potrà esser utile a meglio identificare cosa si debba intendere per "ruolo paterno".
Vorrei allora suggerire alcune produzioni cinematografiche a partire dal più recente " Scialla! " (regia di Francesco Bruni, 2011) dove si narra di un ragazzino, cresciuto fino a quel momento dalla sola madre, che si trova in piena tempesta adolescenziale (pigro e indisciplinato, mosso da uno spudorato irrefrenabile umorismo, in difficoltà anche scolastiche), il quale incontrerà un Professore di ripetizioni (cui immaginiamo non per caso lo affiderà proprio sua madre), svagato, sub-depresso, altrettanto svogliato e in crisi esistenziale. Dall'incontro tra i due, dopo un' avventurosa e a tratti burrascosa frequentazione, nascerà un solido legame, di cui entrambi beneficieranno. La funzione di padre nell'adulto, curiosamente, viene sollecitata prima del riconoscimento del legame di sangue, che pure esisteva da sempre a loro insaputa. In questa pellicola mi sembra si sia riusciti a testimoniare la necessità che il desiderio dei protagonisti sia condiviso: biunivoco, sincrono e simmetrico, come sempre accade nelle relazioni affettive. Ecco allora che, forse, per essere padre bisogna che anche il figlio ti riconosca come padre, abbia cioè il "desiderio di padre" e, congiuntamente, la possibilità di assegnare la propria fiducia nel padre così da riconoscerlo ed apprezzarlo in quel ruolo.
Vorrei citare il bellissimo " Nuovo cinema Paradiso " (regia di Giuseppe Tornatore, 1988) che ci racconta la storia una "paternità" generosa, oblativa, quella dell'adulto Alfredo, il proiezionista del "Paradiso" e di Totò, che fin da bambino coltivava la passione per il cinema trascorrendo il meglio della sua infanzia accanto al vecchio amico, trasgredendo il divieto materno, nel mentre scorrevano le immagini del fantastico mondo di celluloide. Insieme, i due sosterranno l'esame di licenza elementare. In cambio dei risultati della prova, Alfredo gli insegnerà i trucchi del proprio mestiere. La loro assidua frequentazione viene meno allorquando Totò, ritornato da Roma dove aveva prestato il servizio militare, si sentirà consigliare dal buon Alfredo, ormai cieco, di inseguire i suoi sogni, lasciando la Sicilia e trasferendosi a Roma. "Ognuno di noi, gli dice Alfredo, ha una stella da seguire ...ora sei più cieco di me. Sei giovane, il mondo è tuo, non voglio più sentirti parlare, voglio sentir parlare di te !". Ed è dopo di ciò che il ragazzo parte per la sua strada, per fare ritorno in Sicilia anni e anni dopo, quando il vecchio è ormai morto. In eredità gli è stata lasciata la raccolta di tutti quegli spezzoni censurati dal prete, gestore e supervisore inflessibile delle proiezioni dei primi anni. Il beneficiario, ormai regista egli stesso, ne prenderà visione divertito e nel contempo commosso nell'assaporare l'enorme portata simbolica del dono ereditato: una trasgressione protratta e condivisa tra loro due soltanto.
Uno dopo l'altro, vorrei segnalare ancora i capolavori cinematografici di Clint Eastwood "Million dollar baby" (2005) e "Gran Torino" (2009) in cui un allenatore nell'uno, ed un vicino di casa nell'altro, finiscono con l'affiliarsi rispettivamente una giovane pugile e un giovane coreano. La giovane, nel primo, pur apparendo sotto le mentite spoglie di una "causa persa", riconosciuta nel suo desiderio di diventare un pugile professionista, apprezzata dal coach in quanto non dissimile da com'era lui anni prima per la stessa coraggiosa e pervicace vocazione di gioventù, verrà amata di un amore paterno infinito e struggente. Allo stesso modo, anche il giovane coreano, nel secondo, minacciato dalle continue provocazioni di un gruppo di delinquenti intenti ad irretirlo e dei quali avrebbe ben presto rischiato di diventare succube, viene "salvato" e aiutato a crescere proprio da quell'anziano vicino di casa apparentemente misantropo. Questi è uomo burbero, scettico, inaridito dalla vedovanza e dalla solitudine di cui nemmeno il figlio biologico si prende cura, ma ciò non gli impedirà di entrare in amicizia con il ragazzo: ne nasceranno un po' alla volta stima e affetto reciproci. Dopo averlo avviato sulla strada delle conoscenza e dell'adultità attraverso il lavoro, gli farà dono della sua automobile d'epoca, la prestigiosa e amatissima "Gran Torino", ma anche e soprattutto, infine, della sua stessa vita, per consentire quella di lui nel rispetto di se stesso e dei valori morali condivisi.
Vorrei anche menzionare una piacevolissima commedia di qualche anno fa (diretta da Peter Cattaneo nel 1997 ): "Full Monty", che include già dal titolo, l'ambivalenza semantica di un'espressione tipicamente bellica traducibile come "servizio completo". Qui si raccontano le vicende di un gruppo di operai cassintegrati delle acciaierie Sheffield che, oppressi dalla disoccupazione che rischia di aver tolto loro per sempre, assieme alla possibilità di una sopravvivenza economica, anche l'identità e l'autostima, tentano l'estremo riscatto improvvisandosi esperti spogliarellisti. Leader di questo manipolo di patetici irriducibili è Gaz, giovane padre che, impossibilitato a sostenere la spesa degli assegni di mantenimento e quindi altrimenti condannato a perdere la custodia del figlio, tenterà di evitare il tracollo economico ed emotivo di sé e di quell'armata brancaleone, disciplinando ed allenando il gruppo (sono indimenticabili le fatiche del casting!) ad organizzare lo spettacolo sotto lo sguardo complice e partecipato del giovanissimo figlio. Per questo suo procedere nell'intento senza alcun mascheramento, mostrandosi al figlio del tutto trasparente nella sua caparbietà che potrebbe sembrare puerile, riuscirà a mettersi contro dapprincipio tanto la ex-moglie quanto il Servizio Sociale vigilante, fino a che la tenace voglia di non sentirsi vinto tra "i vinti", non avrà la meglio, consentendo a tutti un meritato riscatto: lo spettacolo otterrà un meritato successo. Il racconto che vede lo snodarsi delle spassose avventure di tragicomici antieroi, genuini nella loro nudità vestita solo del loro coraggio e della loro determinazione, diviene dunque divertente metafora della rivincita del perdente, dell'insegnamento a non mollare costi quello che costi, sostenuta dall'amore filiale e resa possibile dall'amore paterno.
E ancora: il ben riuscito film francese di Francois Dupeyron "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano"(2003) con un del tutto convincente Omar Sharif come protagonista nel ruolo di "padre".
Ibrahim è un vecchio immigrato turco proprietario di una botteguccia, nella Parigi degli anni '50, dove si vendono generi alimentari. Vi si narra dei suoi ultimi e sereni anni di vita in cui, conosciuto Momo, un adolescente di origine ebraica rimasto "orfano" di entrambi i genitori (per diversi motivi i due si defileranno lasciandolo in balia di se stesso), si assumerà affettuosamente e responsabilmente cura del ragazzino fino ad adottarlo. Il rapporto che si instaura tra i due è affettuoso e tenero e gioverà al ragazzo che, ricevuti dall'anziano i fiori della sua saggezza, uno dei quali, ricorrente, è "sorridere rende felici", imparerà a coltivarli come fertili consigli per la sua vita "da grande". Gioverà nel contempo anche al vecchio che potrà, grazie al figlio, vivere appieno la propria vita ricevendo a sua volta dal figlio lo sprone ad imparare cose cui aveva rinunciato nel passato (come concedersi l'acquisto di un'auto sportiva, non prima di essere finalmente riuscito a superare l'esame di guida per conseguire la patente) e riuscendo a dare alla propria vita un senso profondo. Il film si chiude nel momento in cui, in compagnia del ragazzo, fatto ritorno al suo villaggio natio, Ibrahim passerà per così dire il testimone all'amato figlio, senza dolore e senza rimpianto.
Vorrei da ultimo menzionare il romanzo di Cormac McCarthy "La strada" (Einaudi, 2008), in cui i protagonisti sono un padre e un bambino, sopravvissuti in un mondo di pochi, sparuti e abbruttiti consimili, disumanati e incrudeliti nello scenario da incubo di un mondo asfittico, incenerito da una misteriosa catastrofe. In un panorama ormai senza speranza, tuttavia, questo padre saprà tener desta la fievole luce di un orizzonte possibile, in nome dell'amore, dell'amore speciale che lega un padre a un figlio. In un mondo ormai prossimo al collasso, dove chiunque pronuncerebbe il verso: "lasciate ogni speranza o voi ch'entrate", questo padre resiste. "E' così che fanno i buoni. Continuano a provarci, non si arrendono mai", dice al figlioletto lasciandogli in eredità gli strumenti per mantenere accesa la fiamma della vita e la luce della speranza. Nel finale, egli soccomberà, ferito a morte. Mentre si appresta a passare il testimone e si congeda da suo figlio, lo indirizzerà verso una comunità di "buoni" dove c'è una donna che se ne prenderà cura, non prima di averlo tranquillizzato con le parole: "Quando non ci sarò più tu potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò. Vedrai." Un'eredità davvero preziosa, la sua. La più preziosa di tutte. "Non si vede bene che col cuore", si legge ne "Il Piccolo Principe", "l'essenziale è invisibile agli occhi... "
Psicologia e antropologia hanno spesso flirtato nel corso della storia: Freud, come la peperonata, prima o poi torna a farsi sentire. Pur trattandosi sempre di “logos”, dipingono la realtà umana da prospettive diverse, complementari, descrivendo l’essere umano come entità provvista di una dimensione individuale in grado di “autoaffermarsi cartesianamente” e, al contempo, come tassello dello scacchiere sociale, interprete e spettatore del teatrino della collettività. Questo flirt, a volte quasi un pacs, ha come scopo quello di capire qualcosa in più sull’essere umano, con la filosofia, la genetica, la religione, nel ruolo dell’amante segreto nascosto nell’armadio. Le due discipline ruotano attorno al concetto di diversità, o meglio, di unicità, che caratterizza ogni essere umano. Cercando di dare una spiegazione a questa diversità, cercando classificazioni, cercando risposte, l’uomo ha così cercato di dominare la propria natura attraverso la conoscenza. Questo sermone cosa c’entra con il padre? C’entra nel momento in cui cerchiamo di dare una definizione di “padre”. In questo l’antropologia è una miniera d’oro. Dallo studio della parentela nei vari contesti sociali mondiali, dal Pacifico al Circolo Polare Artico, la descrizione della cosiddetta famiglia, risulta alquanto complessa e variegata, come pure il concetto di padre. Autori del calibro di Levi-Strauss, Morgan, Murdock, Evans-Pritchard ci hanno regalato descrizioni minuziose e affascinanti che lasciano trasparire un concetto che Schneider negli anni ‘60 ha sintetizzato con un frase: blood is thicker than water, il sangue è più denso dell’acqua. La concezione di famiglia, nella società occidentale è tradizionalmente imperniata sul concetto di consanguineità come fattore discriminante per l’appartenenza a un determinato gruppo familiare. Questo è vero a livello teorico, ma de facto, esistono una miriade di situazioni particolari che smentiscono la suddetta teoria. Arrivo subito al nocciolo del mio commento. La “parentela” non esiste. Mi spiego. Le classificazioni antropologiche hanno spesso prodotto modelli imprecisi perché trascuravano la soggettività dell’individuo. Come una manna del cielo è arrivata la spiegazione simbolista. Schneider, studiando la parentela negli USA, ci dice che esistono altri criteri per selezionare chi è parente e chi non lo è, come la distanza fisica (a chi frega qualcosa della pronipote della prozia emigrata in Australia nel ’32?), la distanza socio-emotiva (chi considera “padre” la persona che ha ingravidato la madre per poi volatilizzarsi?), distanza genealogica dall’antenato (uno che ha un minimo di sangue Agnelli penso lo faccia pesare in sede opportuna). Ma allo stesso modo pure “Padre” è solo unʼetichetta dietro alla quale si nascondo: Genitor, il legame biologico con il figlio, Pater, il ruolo sociale allʼinterno della famiglia, Uomo, il genere di appartenenza, Idraulico, la professione (come nel caso di mio papà). Ora psicologia e antropologia tornano a flirtare. Proseguendo per questa strada è possibile sviluppare anche un ragionamento su quell’evaporazione del ruolo paterno a cui fai riferimento.
RispondiEliminaIl padre-padrone, nello scenario familiare pre-anni ‘60, incarna una pletora di significati riassumibili in: potere (io lavoro, io comando), conoscenza (io sono l’uomo, io so), verticalità della comunicazione (quando parlo devi tacere), sessismo (donna schiava zitta e lava). Questi elementi, nell’epoca della comunicazione orizzontale, trasversale, digitale, globale, nell’epoca della conoscenza accessibile (internet), nell’epoca dei diritti dei minori e delle donne (purtroppo non ovunque), nell’epoca della parità dei sessi (lavori in corso), scompaiono, svuotando la figura totemica di padre padrone del suo peso, della sua imponenza. Il padre è sostituito da internet, dal professore, dalla madre stessa. Il padre non più come soggetto, ma come performance della paternità. Credo che questo commento pseudo-antropologico possa “flirtare” con il tuo articolo.
Odio i gatti perché li temo per la loro invisibilità, l'indipendenza a volte intrusiva, la monotonia del miagolii, la dispotica presenza sul territorio. Più che odio è paura incontrollata della vicinanza, del pelo, delle unghie affilate, degli agguati. Paura o fobia che non so curare devo rassegnarmi perché sono semplicemente una dispotica/gregaria?
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