venerdì 3 dicembre 2010

1-2-3, Si gioca a... "Facciamo che io Ero"

“Facciamo che io ero” costituisce il consueto preambolo al gioco tra due bambini: un gioco di ruolo dove ciascuno interpreta di volta in volta un personaggio diverso.
“Facciamo che io ero il cavaliere e tu lo scudiero, io la mamma e tu il bambino piccolo”, come una formula magica, mette in chiaro da subito quale sarà il contesto del gioco e quali i personaggi sulla scena. Nessuno dice o direbbe “facciamo che io sono”.
Come mai l'ausiliare -essere- viene usato nel tempo imperfetto ? Come mai c'è bisogno di un tempo diverso dal presente dove pure si sta svolgendo l'azione ?
E' intuitivo che l'area del gioco, spazio in cui si svolge l'azione illusoria, abbisogna di essere in qualche modo definita come un'area speciale, un'area in cui i protagonisti si comportano “come se”.
Tale area prevede una sorta di straniamento dal reale e dalle consuetudini che preveda di porre se stessi in un tempo, in un luogo, in una situazione altri e diversi.
Concordemente, nell'accingersi a giocare, i bambini prevedono a priori di calarsi in una illusione ( da in-ludere, appunto, giocare dentro) condivisa.
Sentono che il gioco, cosiccome la drammatizzazione che da esso ne deriva, ha però bisogno di essere circoscritto entro confini ben precisi, in un'area diversa da quella dell'hic et nunc che costituisce la realtà e il tempo presente.
Circoscrivere l'area del -qui e ora- da quella antecedente della definizione dei ruoli sulla scena, rappresenta la necessità di tenere distinti i due piani dell'illusorietà e della concretezza, del passato e del presente, di ciò che è stato stabilito nell'accordare parti personaggi e azione del gioco da ciò che viene agìto sulla scena ludica sul piano dell'illusorietà. Ciò nel mentre ciascuno non smette, purtuttavia, di sapere chi è per davvero.
Ma perchè lo spostamento dalla ineludibile realtà fattuale e circostanziale abbisogna del tempo imperfetto e non, per esempio, del futuro o del passato remoto ?
Sembra che, anche se i cuccioli dell'uomo non ne sono consapevoli, il significato letterale del termine imperfetto, disambiguato da quello più strettamente attinente all'analisi logica (non -perfetto- inteso come non -passato remoto -), ci aiuti a comprenderne l'utilizzo così diffuso nell'infanzia.
Sembra mettere chiarezza tra “persona”intesa come -colui che è come è- e persona nel suo significato etimologico -dal latino “persona”intesa come “maschera di attore”-.
Imperfetto allude infatti ad una forma “non perfetta”e dunque non del tutto calzante, non del tutto propria e adeguata, in qualche modo non congrua e non corrispondente alla cose-come-stanno, piuttosto che ad una caratteristica capace di collocare l'azione in un tempo-passato-seppure-da-poco.
Rappresenta l'imperfezione di chi si cala nella parte consapevole di stare calzando in qualche modo una maschera; di chi si cala nelle parti ad es. del cavallo pur non potendosi trasformare né realisticamente né credibilmente, in un animale a quattro zampe che nitrisce.
Se per giocare dentro le parti nell'illusione del gioco necessitasse far ricorso ad un qualunque tempo non-presente, tanto per rendere maggiormente significativo il bisogno di un allontanamento dalla realtà dell'hic et nunc, non si vede perchè non venga mai usato nemmeno il tempo al futuro: “facciamo che io sarò”.
I bambini, a qualunque latitudine, spontaneamente, si accordano dicendo: “facciamo che io ero” e in seguito, anche nel corso del gioco quando vi sia bisogno di un qualsiasi aggiustamento nel copione, continueranno a comunicare tra loro facendo uso dell'imperfetto “ adesso tu entravi nel bosco per andare dalla nonna...”.
E' come se l'azione del giocare si dovesse distanziare sempre, anche se di poco, dai preamboli concordati o dai continui aggiustamenti in corso d'opera . E' come se i giocatori sottintendessero: “quando tra poco cominceremo il gioco vero e proprio o quando sia necessario il passaggio ad un piano di realtà in cui si interviene come una voce fuori campo a suggerire via via nuovi sviluppi dalla trama, FACCIAMO di ricordarci dell'accordo preso per cui dunque io ERO già (per definizione) ad es. un cavaliere e tu eri già (per definizione) il cavallo.
Quindi giocheranno al presente un'impalcatura tecnica accordata poco prima, in un tempo passato da poco; un passato recentissimo capace tuttavia di sottolineare e circoscrivere l'illusorietà condivisa dell'agìto.
Facciamo come se io fossi diventato il cavaliere e tu il cavallo, ma entrambi noi, concordemente, sappiamo che non è esattamente così perchè lo abbiamo appena stabilito per regola, dunque nel mentre lo stabilivamo io ERO diventato il cavaliere e tu il cavallo. Modelleremo pizze e torte col Das, ci esorteremo vicendevolmente a mangiarle, le pagheremo e le gusteremo tra entusiastici apprezzamenti e gridolini di giubilo, ma nessuno di noi si sognerà di ingerirle per davvero.
Il necessario preambolo che dà l'avvio al gioco del -facciamo che io ero - rende possibile la percezione della pizza come SIMBOLO del corrispondente commestibile, senza tema di confusione tra realtà ed illusorietà fantastica.
In presenza di patologia invece, come per esempio nell'autismo, il gioco simbolico non si rende possibile: pizze e torte di plastilina sono considerate pizze e torte tanto quelle edibili, e potranno finire ingerite.
Non c'è mai stato nessun tempo in cui ERANO altro.
In patologia mancherà di sicuro il preambolo del “facciamo che io ero” che garantisce la presa di distanza dalla realtà immaginata o fittizia con la quale gli attori giocano “come se” fosse vera, e la realtà oggettiva delle cose-come-stanno.
Nella patologia accade qualcosa di simile alla condizione di estrema deprivazione, come quando la suola di scarpone di un affamato Charlie Chaplin viene gustata previa bollitura, alla stregua di un tacchino arrosto.

Per concludere vorrei riportare qui una variante del -facciamo che io ero- espressa genialmente da una bambina di pochi anni ogni qualvolta ella si riferiva a se stessa in un recente passato: “quando io SON-ERI piccola”.
Nell'espressione, per esempio, “ti ricordi quando io son-eri piccola e il mio orsacchiotto aveva perso un occhio...?”, l'utilizzo dell'ausiliare composto nella sua forma all'indicativo presente SON accanto all'imperfetto ERI, rappresenta un' abile sintesi (presente-passato da poco) che rende manifesta la consapevolezza dell'impossibilità per una piccola di autodefinirsi tale al passato mentre è ancora, a tutti gli effetti, piccola.
Ciò come se ci fosse bisogno di relativizzare ulteriormente per tenere separate due realtà (l'essere stata più piccola: ERI, dall'essere piccola ancora al presente: SON) altrimenti sovrapponibili e indistinguibili .
In questa coniugazione creativa e neologistica, la bambina dimostra tutto il suo sforzo di tenere disgiunto il piano dell'immagine di sè nel qui e ora, da quello fantasticato nell'evocazione del ricordo.
Se ne può concludere che le possibilità di crescere secondo uno sviluppo normale comporta lo sforzo di tenere ben distinta la realtà dalla fantasia; la realtà contingente nel qui e ora dalla evocazione mnestica di ciò che è stato; la percezione del reale oggettivo e oggettivabile dall'immaginazione (sogno, o fantasma, o mero ricordo che sia).



1 commento:

  1. Interessantissimo. Ho trovato con fatica un articolo che trattasse di questo "gioco illusorio".
    Vorrei porre una domanda. Secondo lei, esiste la possibilità che questo gioco possa servire come terapia anche per l'adulto? Intendo dire che se il buon recitare è per l'attore un "calarsi nella parte" (come suggerisce il metodo Stanislavskij), trovo che anche nella vita spazi di gioco uguale a quello del bambino ("facciamo che ero") possa essere di valido aiuto. Come per l'attore vero e proprio, il recitare un ruolo (compensatorio?) può svelare parti di sè o mettere a nudo i desideri inespressi.
    Cosa ne pensa?
    Grazie!
    Donatella

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