Cerchiamo di stabilire
cosa si intenda per "senso di colpa" definendolo anzitutto
per ciò che non è: non è la consapevolezza di essere meritatamente
colpevoli a causa di qualcosa che si è agito scientemente per
danneggiare qualcuno. Quest'espressione corrisponde piuttosto ad un
senso di inadeguatezza, ad una strisciante impressione di
inferiorità, al credersi ben lontani dall'essere come si pensa
di dover essere, ingenerata dalla mancanza di autostima e
dall'inconsapevolezza del proprio valore e delle proprie qualità
positive, una sorta
di sindrome di Calimero. E' un considerarsi inutili, di
scarso valore, sostanzialmente incapaci, e oscuramente
colpevoli, meritevoli di esserlo. Chi è condannato a vivere un
s.d.c. si sente brutto e cattivo e non può confidare che il goffo
anatroccolo potrà un giorno trasformarsi in splendido cigno.
Chi si sente in colpa,
per quanto inconsciamente e oscuramente, è condannato altresì a
provare sentimenti di rabbia e
vergogna, rabbia
verso se stesso per la propria impotenza e incapacità, vergogna di
non corrispondere all'ideale per l'Altro e per non essere bravo
abbastanza da farsi amare e stimare, condannato a rincorrere
perennemente la stima e la benevolenza altrui con il massimo dello
sforzo. Ogni ulteriore senso di colpa è destinato ad accrescere le
angosce primarie (annullamento, abbandono).
Per dirla con Freud è
l'Io che si sente in colpa, frustrato nella sua impossibilità di
sentirsi valido, è un Io che si sente mal giudicato
dall'intransigenza di un Super-Io (corrispondente, potremmo dire,
alle voci sacralizzate dei genitori) che lo condanna a sentirsi
perennemente ad un passo dal rimbrotto e dal castigo, dunque sotto
minaccia di pericolo imminente. Paradossalmente un io così tanto
infragilito, è troppo debole per ribellarsi, si attacca anzi dove
può, anche sugli specchi, con tutta la forza di cui è capace, con
la forza della speranza divenuta disperazione, se occorre.
Una sensazione del genere
mantiene alto il sentimento della paura, e l'ansia che
lo accompagna risulta pressocchè paralizzante. Di fronte alla
minaccia di un'aggressione non si hanno che due strade: la
controrisposta aggressiva o la fuga. Ciò, soltanto se si possa
riconoscere e vedere la fonte della minaccia; ma quando la minaccia
avvertita non sia distinguibile, palese e concreta, allora è la
paralisi, il blocco; nessuna strategia di risposta sembra possibile.
La paura inoltre genera atteggiamenti di sottomissione
e obbedienza che si accentueranno, al cospetto di chi opera
con manovre perverse, quanto più la vittima sia portata a sentirsi
in difetto, inadeguata e quindi dipendente e disautonoma.
Di fronte ad un Super-Io
che suggerisce in continuazione: "tu devi!" (farti amare,
rispettare, stimare, riuscire, cambiare chè così non sei "giusto",
non fare brutte figure...) e che non accetta una sconfitta che
annulli contemporaneamente le due principali ragioni del nostro agire
che sono l'amore e la gloria, come viene detto nella colonna sonora
del celebre film Casablanca, l'Io debole finisce col sentirsi
soverchiato ed impotente, talmente ferito nell'amor proprio da
sentirsi incapacitato a reagire in modo costruttivo e autoprotettivo.
Il s.d.c. corrisponde ad
un'emozione infantile di estrema debolezza che induce a
credere che "qualcosa che dipende da me provoca il
disprezzo e l'ira degli altri ". Qualcosa che dipende
da me, mai dall'altro prima che da me. Così, nello scontro tra
le richieste dell'autostima e le effettive prestazioni dell'Io,
ovvero le mie concrete e reali possibilità, a fronte di un Tribunale
troppo intransigente, riuscirò perennemente sconfitto: sentendomi
profondamente inadeguato, non essendo io abbastanza capace a priori,
sono condannato a non avere mai sufficienti possibilità di
conquistare l'amore, la stima, il successo sociale (ciò che potremmo
definire in sintesi amore e gloria).
Ad alimentare il s.d.c.
ci si mettono certa educazione amartiocentrica (dal greco amartìa,
"peccato") rigida, moralista, castrante e punitiva, e gli
inciampi della vita. Ogni avvenimento negativo col quale ci troviamo
a fare i conti, da certe frasi choc o punizioni dei genitori (sto
pensando alla "Lettera al padre" di Kafka dove l'autore
ricorda le punizioni e vessazioni cui lo sottoponeva suo padre,
algido e punitivo), ai pregiudizi culturali nei confronti delle
minoranze o della donna, ci espone all'accusa e al giudizio di
colpevolezza da parte del nostro inconscio Tribunale personale.
Quando questo si riveli soverchiante e inappellabile, ci condanna a
portare il peso della nostra "giusta" colpa di cui non
riusciamo a perdonarci.
In un' educazione
amartiocentrica, in una religione amartiocentrica, fondata sul
peccato "fin dalle origini" (mea culpa, mea culpa,
mea maxima culpa), può essere difficile persino non sentirsi in
colpa di esser nata femmina.
E' evidente dunque che
una cosa è l'inadeguatezza vera e propria, altra è il sentimento
di inadeguatezza come
sentire profondo
pervasivo e condizionante del nostro agire. Sarebbe come funzionare
da ipovedenti pur disponendo di dieci decimi.
Spesso il s.d.c. ha
radici lontane, nell'infanzia, se e quando si sia vittime incolpevoli
e inconsapevoli di molestie morali, di
violenza perversa o
manipolazione da parte di un "adulto che conta".
Quando tale adulto che conta affettivamente, genitore o un
partner, abbia strumenti perversi di difesa, non essendo
capace di scelte responsabili giudicate troppo difficili o minacciose
per l'integrità del suo io, risulta capacissimo di ingenerare
nell'altro, la vittima, un s.d.c. duraturo e stabile. Un adulto di
tal fatta ha bisogno di identificare un capro
espiatorio su cui far ricadere la responsabilità della
propria sofferenza. Per non odiare se stesso, ha
bisogno di proiettare fuori di sè, su di un'altra persona
che una volta abbia sentito far parte di sè, la responsabilità del
proprio scontento, la colpa della propria afflizione. Un
figlio, come si vede, può divenire allora, proprio per la sua
intrinseca fragilità, una vittima ideale. Un nitido esempio dello
strano rapporto tra vittima e persecutore che infligge molestie
morali si trova nel film Zia Angelina del
regista Etienne Chatiliez (1990), dove la vecchia zia, che pure, come
ci suggerisce il film, è cattiva in quanto incattivita da molta
pregressa sofferenza, è tanto più sottilmente manipolatoria e
spietata proprio nei confronti della nipote, la più buona, gentile e
servizievole tra quanti le stanno intorno.
Chi sia stato
allevato a pane e senso di colpa, chè il s.d.c. è sempre indotto
per le difese paranoiche di uno o dell'altro dei suoi genitori, una
volta adulto sarà la vittima
ideale, ancora una volta, di manipolazione da parte
di quello che in termine tecnico potremmo definire
"violento perverso". Avremo così una sorta di
nemesi storica, sulla scena sempre due personaggi: la vittima di
aggressioni perverse e l'aggressore perverso. Aggressore
perverso in quanto
furbescamente e dunque perversamente, potremmo dire con il massimo
dell'ipocrisia, approfitta del senso di colpa della vittima designata
e, per conservare una buona immagine di sè e contemporaneamente
camminare nel mondo a testa alta mantenendo "la faccia pulita",
tenderà a soggiogarla acuendone ulteriormente il s.d.c., ovvero la
fragilità, con abili manovre: manovre, appunto, perverse (sei bravo
a niente, non farai mai nulla di buono nella vita, come pensi di
cavartela senza di me?...).
Potremmo concludere
che sarà destinato a coltivare senso di colpa colui il quale vivrà
l'esperienza di faticare sempre e inutilmente per sentirsi amato da
persona che in verità non sa amare.
Un bambino o una bambina
che abbiano vissuto sotto la soverchiante presenza del s.d.c., ovvero
impoveriti da una troppo scarsa immagine di sè,
saranno più facilmente candidati a cadere intrappolati nella
seduzione potente di chi sembra amare meglio di ogni
altro: il narcisista perverso. Più facilmente di altri
saranno candidati a finire tra le sue grinfie proprio in quanto il di
lui scopo è quello di "conquistare", a qualunque
costo, come se tale conquista fosse un luogo di potere e non,
come dovrebbe essere in amore, un luogo di scambio reciproco alla
pari. Alla vittima del s.d.c., vittima tout-court, preda ideale di
questo genere di personalità bugiarda e incentrata su se stessa per
definizione, sarà più facile "tomber amoureux/euse",
"falling in love"... e, nell'incontro con il "ragno",
la sua potrà essere più probabilmente una caduta dolorosa, dalle
stelle all'inferno. Eppure, paradossalmente, proprio grazie
all'inciampo e allo scivolone doloroso, potrà emendarsi e
risollevarsi, finalmente alleggerita dalla zavorra del s.d.c. e
riappropriarsi del necessario amor proprio, di cui, in quanto
vittima, era pressocchè sprovvista.
Mi rendo conto che quanto
detto fin qui sembra rappresentare una situazione di empasse quasi
senza uscita. Non è così, disfarsi di un ingombrante s.d.c.,
inutile aggravio che ci limita nella libertà e nel raggiungimento di
un sentimento di soddisfazione, si può. Lacan direbbe che la
soggettivazione è perenne. Anche nella storia personale più
drammatica non c'è determinismo, può sempre sortirne qualcosa di
nuovo e di meglio, il positivo della contingenza, di una nuova
consapevolezza.. L'immagine di sè è suscettibile di cambiamento e
l'autostima può migliorare e accrescersi. Possono aumentare la sana
aggressività e con essa le capacità di difesa, la resilienza e
l'affermatività, come già ho provato a suggerire in precedenti
articoli e, come prevedo e spero, farò nei prossimi.
A titolo di esempio
vorrei ricordare il successo letterario di Gustav Flaubert e il suo
riconoscimento anche postumo destinato a non estinguersi. Eppure,
lui, cui nell'infanzia tutto concorreva a convincerlo
dell'adeguatezza del soprannome assegnatogli di "bêtise"
, capace come sembrava solo di bestialità e sciocchezze per le sue
difficoltà di linguaggio parlato e scritto, lui che era considerato
un minus habens, lo scemo di famiglia, condannato dal giudizio
dell'altro, in primis dei familiari, ad essere un povero idiota, alla
faccia dell'identità di ruolo, lui diventerà un genio.
come sempre interessantissimi ed ottimi spunti di riflessione, i tuoi articol, ritrovo pezzi di me , comprendo come, sia pure non scientemente, i genitori riescano ad inculcare questa dinamica.Dinamica che induce in un notevole ritardo nel prendere in mano la propria vita senza sentirsi, appunto, in colpa per averlo fatto.
RispondiEliminaGrazie Gabriella per la tua riflessione. Mi dà lo spunto per commentare a mia volta. Mi accorgo che metà del tempo nella mia attività clinica mi impegno a detendere le persone gravate da sensi di colpa a comprendere le differenze tra responsabilità e colpa. Come genitori è difficile quando non impossibile essere esenti da responsabilità, per definizione, mentre è spesso immotivato e ingiusto coltivare profondi vissuti di colpa.
RispondiEliminaRitengo che il senso di colpa faccia parte della natura umana, come l’amore, la gelosia, l’ansia, il mal di denti e le vene varicose. Cercarne la provenienza è un esercizio di destrezza psicanalitica dal quale prendo le distanze per manifesta incompetenza. Il concetto di colpa, come contravvenzione a un precetto morale o trasgressione a qualche norma/legge è presente in tutte le culture. Gli Azande della Repubblica del Congo, studiati da Evans-Pritchard, per esempio, attribuiscono alla stregoneria e all’operato di uno stregone, tutta una serie di sfighe, dall’inciampare per strada e sbucciarsi un ginocchio fino alle malattie mortali. L’attribuzione di colpa, o processi di blaming, come spiega Mary Douglas, sono teorie della causalità che spiegano il perché degli eventi in una determinata cultura, e non solo. Attribuendo un misfatto all’infrazione di un tabù, come può essere l’incesto o l’adulterio, o all’azione malefica di un forestiero di passaggio, i processi di attribuzione di colpa assumono una valenza politica e sociale, determinando cosa è lecito e chi fa parte della comunità e chi no. L’attribuzione della colpa va ben oltre la teoria della causalità. E qui finisco il micro pistolotto antropologico (super semplificato, tra l’altro) e mi ricollego all’argomento principale. Se in svariate culture il concetto di colpa attecchisce e alimenta le dinamiche sociali, questo stimola, a mio modestissimo modo di vedere, pure un confronto anche all’interno della nostra società fondata sulla conoscenza scientifica, sulla biologia, la fisica, la psicologia, ecc. Tralasciando le nicchie di folklore regionale che tuttora persistono (pensiamo a quanti gesti scaramantici anche involontari compiamo ogni giorno per esorcizzare un possibile evento sfavorevole), il nostro modo di razionalizzare gli eventi in base alle leggi scientifiche è solidamente acclarato, però nella dimensione psicologica dell’uomo esistono ancora dei margini di movimento, delle possibilità di manipolazione della realtà, molte volte indotte. E non mi riferisco solo a quanto descritto da te nei casi soggettivi, come alla sciagurata opera di demolizione dell’autostima di un bambino da parte dei genitori o alle diaboliche tecniche di ricatto di un manipolatore/trice, ma bensì agli effetti del cosiddetto pensiero collettivo. La storia è testimone degli esiti della propaganda politica, tanto quanto del potere manipolatorio subdolo dei media, sin dai tempi della bibbia di Guttemberg, passando per la radio, la televisione, il cinema (Quarto potere di Orson Wells) e terminando con Facebook. I messaggi che stimolano le masse, fanno leva su certi elementi del nostro pensiero che ci inducono a reagire in una certa forma: pensiamo alla pubblicità. Io ritengo che tra questi elementi ci sia proprio il senso di colpa, che quindi farebbe parte della pletora di sentimenti nati dall’attrito tra la nostra sfera razionale e quella impulsiva. Una specie di conflitto tra quello che è giusto fare e quello che si fa, tra la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e come siamo veramente, tra quello che gli altri pensano di noi e quello che noi pensiamo di noi stessi. In questa zona liminale sfocata è facile perdere l’orientamento e ricostruire una propria versione della realtà a cui vogliamo credere per dare un senso a ciò che apparentemente ci sfugge, compiendo operazioni di blaming ad hoc che all’occhio esterno non appartengono al pensiero logico-razionale. Chiaro che non tutti soffrono di sensi di colpa, vuoi per i casi della vita, vuoi per un certo equilibrio mentale e una certa serenità ottenuti nel tempo, o, al contrario, per un cieco egocentrismo patologico. Quello che ci accomuna è la predisposizione al senso di colpa, un potenziale fardello che prende forma quando perdiamo il senso della realtà, forse l’inconscia consapevolezza di non avere tutte le risposte, di essere imperfetti, di essere umani.
RispondiElimina@anonimo - Il senso di colpa può far parte della natura umana, forse come la gelosia, ma non penso come l'amore, forse come il mal di denti, ma non come le vene varicose. Alcune sensazioni hanno un fondamento, altre sono ingannevoli. Posso essere geloso, per un "tradimento" o un rifiuto, o solo perchè sono paranoico. L'articolo, mi par di capire, tratta del senso di colpa inconscio, un sentimento diverso dalla consapevolezza di aver fatto qualcosa di male. Se rubo, mento, provoco danni, se sono una persona civile, dopo ne sarò turbato. Ma alcuni si ritrovano in uno stato d'ansia come se avessero fatto qualcosa di male, senza aver fatto nulla di male. Perchè qualcuno li ha ingiustamente accusati o solo si è mostrato offeso o ha reagito in modo negativo. Questa è una alterazione. E chi è consapevole di averla, magari rafforza in sè l'idea di essere debole, sbagliato. E si sente di nuovo in colpa. Peggio, se questa sua condizione individuale si associa ad una condizione collettiva, appartenendo ad un gruppo sociale svantaggiato (per genere, per "razza", per religione, etc.). Nella conclusione l'articolo cita modelli positivi che hanno saputo ribaltare lo svantaggio iniziale di una condizione mortificante in un grande successo. Flaubert sembra un esempio estremo. Sarebbe interessante capire come si fa, da dove si comincia, per uscirne o quanto meno per attenuare questa sensazione interiore, per non farsene parlizzare. Io credo di non soffrirne, se non in modo lieve. Se qualcuno mi accusa di qualcosa ingiustamente, un'autodiagnostica più o meno breve me la faccio, dopo di che, in genere, mi sento abbastanza bene. Ma soffro il senso di colpa di altri e mi sembra che mai nessuna rassicurazione, nessuna dimostrazione riesca a tranquillizzare. Talvolta, addirittura, genera il sospetto in chi soffre questo tipo d'ansia, che gli si voglia concedere una assoluzione ingannevole, solo per farlo contento.
RispondiEliminaDa alcuni giorni sto leggendo i suoi articoli e devo dire che mi hanno aperto un mondo sul quale io dovró lavorare. Manipolazione affettiva, sensi di colpa, narcisismo patologico sono le caratteristiche peculiari del mio rapporto con mio marito . Ben 25 anni per rendermi conto e diventare consapevole delle dinamiche della mia famiglia. Sono disorientata e persa ma la cosa che ho capito è che devo fortificarmi per potermi liberare di quesra peeson che mi ha trasformata.
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