lunedì 21 novembre 2011

L'importanza del NOME


Il nome proprio: qualcosa di irrinunciabile che ci definisce e ci rappresenta, a meno che non venga sostituito, quando e se ciò possa accadere, da “mamma” e/o “papà”, da “nonno/a”, da “zio” o “zia”.
Solo in questi casi siamo costretti, e il più delle volte favorevolmente o persino orgogliosamente, ad abdicarvi.

Nomen omen, dicevano i Latini: nel nome il destino. Manganelli a capo della Polizia, Ortolani ad esibire un bel negozio di frutta e verdura, Gaia e Allegra inclini a presentarsi come soddisfatte della vita? Può darsi, come anche no, naturalmente.
Ma che succede quando nasci femmina e i tuoi ti mettono nome Jacopo o Loris? Sto pensando a Loris, una brava Neuropsichiatra infantile con cui ebbi occasione di lavorare, che finalmente, dopo anni di caparbia e incessante fatica, riuscì, non senza enormi difficoltà, a cambiarsi il nome nel più femminile Laura e, solo dopo di allora, riuscì a crearsi un legame stabile e a mettere al mondo un figlio ancorchè non più giovane.

E che succede se nasci in Sicilia, ti battezzano Cecilia (con un nome dolce, musicale, che evoca immediatamente una Santa, pregevole in quanto non consueto come il più diffuso Concetta), ma, fin dal primo giorno di vita, ti chiamano abitualmente Grazia o Graziella ? Che succede poi se facendoti studiare all'interno di un Collegio di Religiose, che ti prediligono tra tante bambine per la tua intelligenza e remissività fino quasi a viziarti, ti dovessi abituare ex-novo a sentirti chiamare con quel nome che peraltro ti appartiene ufficialmente, il TUO nome, per tutti i successivi cinque anni della scuola elementare? Sarebbe o no difficile dopo il congedo, una volta ritornata in famiglia, riabituarsi al più antico e familiare Grazia o Graziella ? Sarà casuale che la figlia unigenita di Cecilia-Graziella si chiami Cecilia?.
Come quest'esempio sembra testimoniare, siamo sicuri che non sia in qualche modo almeno un po' difficile fare i conti con due nomi diversi, uno ufficiale (per i documenti e la scuola e l'elenco telefonico) e quell'altro “familiare” relativo alle relazioni parentali o sociali ?

Conosco due Giuseppina, la più vecchia delle quali si è sempre riconosciuta come Beppina mentre la più giovane come Pinin. Ambedue, sicuramente, ne avessero avuto la possibilità, avrebbero volentieri cambiato il nome imposto loro all'anagrafe. Fin da subito lo avevano giudicato brutto. Ambedue dovendo esibire il nome ufficiale, confessano di provare una certa qual estraneità e sempre, in una qualche misura, disagio.
Conobbi anni or sono un' anziana Sig.ra Lola. Tutti, me compresa, la conoscevano come Lola anche se all'anagrafe risultava chiamarsi Maria da più di settantanni. Non utilizzò per se stessa altro nome che Lola nemmeno quando, giovanetta, prese parte all'attività partigiana; consapevole probabilmente che corrispondesse già, invero, ad un soprannome da usarsi, senza altra fantasia, quale nome di battaglia. Ella stessa non si riconosceva che con quello, utilizzando il proprio anagrafico nella sua versione ufficiale quasi esclusivamente per i documenti e per la firma.
So di una Adalgisa, chiamata familiarmente da sempre Ada, che un certo giorno della sua vita adulta - lavorava allora come cuoca presso una famiglia borghese della Romagna a cavallo tra gli anni '50 e '60-, lì per lì non si rese conto che quel messo postale, cui lei stessa aprì la porta, nel mentre chiedeva di poter conferire con la Sig.ra Adalgisa “Tal dei Tali” a servizio presso la famiglia in indirizzo, cercava di lei. In difficoltà, la mite Adalgisa rivolse a gran voce una sconcertata domanda ai datori di lavoro impegnati in una stanza attigua: “A so' propri mè l'Adalgisa?” (sono io la tale a questo nome?). Va detto che a quei tempi la donna maritata prendeva il cognome del marito anche sui documenti ufficiali e fu così che la poveretta fu in difficoltà a riconoscersi anche e persino nel proprio patronimico.

E a proposito di cognome, che dire di quelle Signore che ancor oggi affiancano loro sponte al proprio nome il cognome del marito laddove non sarebbe necessario né opportuno, quando cioè, ad esempio, si creano un profilo su un social network, o quando sottoscrivono un proprio articolo edito, magari, su un'importante giornale od un'importante rivista scientifica? Perchè lo fanno anche e proprio laddove servirebbe loro rendersi riconoscibili e “brillare orgogliosamente di luce propria” ?

Nel corso della mia pluridecennale pratica clinica mi è capitato di occuparmi di non pochi bambini, cui era stato assegnato il nome di un fratellino morto prematuramente. Non è infrequente che uno o l'altro dei genitori e più spesso la madre, o tutti e due concordemente, decida di chiudere una storia di dolore in qualche modo, facendo rivivere il morto attraverso l'assegnazione del suo nome a chi nascerà dopo.
Ma non è mai una scelta felice, non sortendo gli effetti sperati. Finisce invero con l'investire di insostenibili responsabilità il figlio che abbia ereditato il nome di chi non è più o, talvolta, non è mai stato altro che un feto. Il carico genitoriale di aspettative, di inconscio desiderio di riparazione di un immaginario frustrato (lenitive del dolore), peserà sul figlio che eredita il nome, come una costante e minacciosa condanna ad uniformarsi ad un indistinto od indistinguibile modello di riferimento; niente di più inutilmente faticoso e, alla lunga, destrutturante.
L'atto del nominare, infatti, pregno com'è di un pesante carico semantico, ivi compresi i fattori culturali e le operazioni mentali sottese, cataloga, ordina, assegna un'identità, fornisce una guida precisa nel lungo e faticoso processo di separazione-individuazione del Sé; in qualche misura consegna un'anima, di cui ogni “nominato” diviene inevitabilmente portatore a vita.
Lo ha ben spiegato Oscar Wilde nel suo “The importance of being Earnest” (tradotto impropriamente in italiano con “L'importanza di chiamarsi Ernesto”) laddove, giocando sull'assonanza tra “Ernest “(nome proprio maschile) ed “earnest” (aggettivo che significa serio, affidabile, onesto), esplica quale sia il portato emotivo, quando non esistenziale, in chi porta un nome piuttosto che un altro. Tant'è che la traduzione italiana “L'importanza di chiamarsi Franco” sarebbe stata più corretta e vicina agli intenti di Wilde, giacchè Franco è un nome maschile, certo, ma anche un aggettivo, sinonimo dell' “earnest” di cui sopra.
Sarà per questa ragione che segnatamente gli artisti sovente scelgono di sostituire il proprio nome con uno d'arte che meglio li rappresenti ? E' così che intendono presentificare una loro peculiare caratteristica? Sembra di sì. Sto pensando per esempio al musicista Marco Castoldi in arte Morgan che nella scelta ha probabilmente ammiccato a certe caratteristiche piratesche che gli si confanno o che ambirebbe gli venissero, scherzosamente ed indulgentemente, riconosciute.
I bravi cartoonist della fortunata serie “The Simpson” hanno scelto Homer come nome per il capofamiglia. Homer-Omero, come il più famoso poeta epico, serve ironicamente a designarne le esilaranti caratteristiche dell'anti-eroe. Il suo essere sfacciato, pigro, sfaticato, infantile ed edonista contribuisce a far dire a sua figlia Lisa, l'intellettuale, brava, unica ammirevole tra il gruppo familiare: “una persona che invidia la nostra famiglia è una persona che ha bisogno di aiuto”.

Esistono nomi, noti a tutti, che tuttavia non vengono mai assegnati a persone comuni. Sono nomi “intoccabili” che vivono nella storia, nel mito o nella finzione letteraria. Edipo, come Amleto in un certo senso, richiamano troppo da vicino certi tabù, certe oscure faccende su cui ha indagato la psicoanalisi, che non fanno e non faranno mai di questi nomi dei nomi “gettonati”. Edipo e Amleto restano emblemi della fantasia fanciullesca di uccidere il proprio padre al fine di possedere la propria madre. Tale fantasia, per quanto inconscia, necessita di essere tenuta prudenzialmente lontana, proprio perchè, lontana, non lo è poi molto.

Di sicuro è preferibile appropriarsi di un nome fittizio o supplementare piuttosto che trovarsi innominato o innominabile. Senza nome, figlio di N.N., fino a pochi anni or sono, rappresentava un'onta, un marchio infamante, ragione d'una comprensibile riluttanza ad esibire il documento d'identità, un'antinomia della ragione, quasi un ossimoro: un'identità senza identità.
Non per caso anche il destino dei non battezzati era, sino a pochissimo tempo fa, quello di finire al Limbo, una sorta di non-luogo affollato più d'un centro commerciale, destinato ai senza nome, esseri privi di un'identità ben definita destinati ad una Terra di Mezzo tra inferno e paradiso, tra redenzione e punizione, un luogo dove non si profila alcun tempo e alcuna geografia, men che mai quella dell'eternità, degno di chi non è, non è stato e non ha fatto in tempo nemmeno a credere di essere.
Il limbo mi sembra metafora di una condizione di smarrimento e precarietà, come di una vita che ha perduto il senso e che è mancante di orientamento, in cui era possibile riparare sospesi in una posizione di stallo, intermedia fra la beatitudine del paradiso e le atrocità dell'inferno, tra la soddisfazione d'un luminoso orizzonte raggiunto e il supplizio d'una punizione meritata per gli errori commessi.

Ecco allora che il nome concede la facoltà di essere anzitutto riconosciuti, ed anche di ESSERE tout-court, nel conoscere e tracciare, in autonomia, il proprio percorso di vita, dopo che siamo stati e ci siamo, nel bene e nel male, individuati.
Il nome proprio è per solito un distintivo inalienabile che proteggiamo gelosamente in quanto parte di noi che ci rappresenta. Non rinunciamo ad esso né al piacere di sentirlo usato per denominarci, se non in un caso, come si diceva all'inizio, quando, finiti nella schiera dei vari mamma, babbo o papà, zii o nonni, accettiamo di buon grado di “perdere l'identità del e nel nome”. Il riconoscimento ci deriva dal ruolo.
Qualcosa del genere immagino avvenisse per tutti quegli Artisti che, agli occhi dei praticanti di bottega come per il resto del mondo, diventavano solo, e senza dispiacersene affatto, “Maestro”.
Eppure qualche tempo fa, forse perlopiù negli anni '80, è invalsa la moda di trascurare siffatta consuetudine: giovanissimi figli si rivolgevano ai genitori chiamandoli col nome proprio, da pari a pari, senza differenza di ruolo, come si usa tra amici.
Nella pratica clinica mi è capitato di conoscere non pochi casi in cui appunto bambini anche piccoli od ex-bambini ormai divenuti adulti, pativano un qualche disagio nella relazione con i propri genitori ed i genitori, a loro volta, lamentavano perlopiù una sorta di impotenza educativa; qualcosa in ciascuno era stato perduto o si configurava come di ostacolo quando non di grave nocumento
all'acquisizione della fondamentale sicurezza primaria nei figli e alla necessaria autorevolezza nei genitori.

Ho in mente una giovane donna architetto, spigliata, bella, elegante, venuta a consultazione per capirsi meglio e per capire cosa non andasse in se stessa oltre che per darsi spiegazione della propria inclinazione a fallire reiteratamente in tempi brevi le relazioni affettive non appena avesse aperto le porte del proprio appartamento al fidanzato di turno per una convivenza. La donna, raccontando di sé, della propria infanzia e del nodo irrisolto di un latente conflitto con la madre, non si rendeva conto di riferirsi ai genitori chiamandoli semplicemente per nome, rendendomi in tal modo difficile, anzi addirittura impossibile almeno inizialmente, comprendere chi fossero quei Piero e Maria di cui riferiva. Era così inusuale per lei riferirsi a “mamma” o “babbo”, così inveterata l'abitudine di citarli usando soprattutto per la madre esclusivamente il nome proprio (mentre riusciva talvolta spontaneamente a raccontare di “mio babbo”), che nel corso dei primi colloqui si andavano creando di continuo spassosi momenti di ilarità, data la sua assoluta incapacità a pronunciare la parola “mamma” in sostituzione del nome proprio. Si sfiorò la commedia plautina degli equivoci quando poi, narrandomi dell'amica-antagonista Maria, omise di specificare che la Maria in questione non corrispondeva più alla madre. Comprese da sé che di Maria è pieno il mondo, mentre di mamma ce n'è una sola. E comprese dunque che ad un genitore dispiace non essere riconosciuto e reso unico nel suo ruolo.
Non c'è dubbio che la diffusa pratica dell'accorciare le distanze tra adulti e bambini, a seguito forse di una reazione post-sessantottina all'autoritarismo, abbia provocato anche la diffusione del permissivismo e d'un lassismo educativo certamente reattivi ma non per questo giustificati ed efficaci. Il permissivismo, con la sua tendenza ad acconsentire a qualunque richiesta dei figli il più spesso possibile bandendo il “no”, ha reso usuale l'abolizione dal linguaggio delle forme di rispetto come il “dare del Lei”o “del Voi” come ancora usa nel nostro Sud, sostituito più spesso da un immediato “Tu”, tra adulto e adulto come anche tra bambino e adulto (persino nelle scuole di vario ordine e grado). E' in questo rivolgimento dei costumi che si cominciò ad osservare altresì, come si è detto, un discreto numero di bambini che, a partire dalla prima infanzia, erano usi chiamare i propri genitori per nome anziché “mamma” e “papà”. Tale moda sembra a tutt'oggi destinata al declino.

Ho conosciuto una giovane ragazza che d'un tratto è stata inspiegabilmente abbandonata dall'uomo che, avendone sposato la madre, fin da quando ella era piccolissima sembrava averla accolta nella propria vita con entusiasmo come e più che se gli fosse stata figlia naturale. Costui, con la rapidità del fulmine, da un certo giorno in avanti, ha finito col dimenticarla completamente, riuscendo anzi a sostituirla nel suo ruolo di figlia con il giovane figlio maschio dell'ultima sua conquista femminile. Nel tentativo di elaborare un lutto impossibile, la ragazza in questione ha scelto istintivamente di riferirsi a quell'uomo, che pure per tutta la vita era stata solita denominare teneramente babbo, chiamandolo “Lui-là”. Non è più riuscita a pronunciarne il nome proprio. Quel nome anzi, per estensione, quasi avesse il potere evocativo del diavolo in persona, è diventato tabù. Quella giovane ha dovuto cancellare, almeno dal proprio vocabolario, il di lui nome proprio e la qualifica -babbo- con cui non avrebbe avuto più senso designarlo se non al prezzo di ingannare se stessa fino alla follia nel tentativo, tanto strenuo quanto vano, di mantenere un sottile fil-rouge che la legasse ad un ricordo illusorio.

Il nome è qualcosa di assai importante anche per il migliore amico dell'uomo. Chiunque conosca un minimo di etologia o psicologia del pet più diffuso al mondo, il cane, sa che ad ogni comando gli si voglia impartire è utile far precedere il nome proprio di quell'animale. In tal modo la bestia non equivocherà; allorquando dovesse udire le parole usate come comando anche nel contesto, per esempio, di conversazioni familiari dove esso non è implicato, saprà di non essere coinvolto, saprà che le stesse non sono rivolte a lui. Se vogliamo che ci venga appresso gli diremo “vieni...Fido!”e non mai soltanto “vieni!” o soltanto “Fido!”. Diversamente, ogni volta che diremo “vieni!”, magari ad un congiunto che vogliamo ci raggiunga in fretta, il cane si sentirà implicato in prima persona e ce lo ritroveremo fatalmente tra i piedi con il rischio che la povera bestia si senta umiliata e allontanata da un'educazione incoerente. (Ma come!?- potrebbe pensare- ho sentito il comando “vieni!”, sono arrivato in gran fretta e per questo sono stato cacciato!?).

Vorrei aggiungere un'osservazione relativa all'educazione della coppia gemellare dove, fin dalla scelta dei nomi, è facile commettere errori rendendo più difficile ancora, a ciascuno dei gemelli, il lungo e faticoso percorso della individuazione. I gemelli monovulari identici, infatti, faticano non poco a distinguersi l'uno dall'altro e faticano più degli altri bambini a sviluppare ciascuno caratteristiche distintive. Ciò anche perché non è raro invece che i genitori scelgano per loro nomi simili, con la stessa iniziale o della stessa lunghezza (Carolina e Carlotta, Piero e Paolo, Giampiero e Giacomo...). Ricordo di aver conosciuto una coppia di gemelle che per tutto l'arco della loro infanzia e adolescenza venivano designate più sbrigativamente come “Checche” e, data anche la difficoltà a distinguerle prontamente l'una dall'altra, venivano chiamate ciascuna indistintamente “Checca”.
Inutile dire che anche nella maturità le due sorelle manifestano ancora una spiccata esigenza, con relativa difficoltà a separarsi l'una dall'altra e a godere di una piena autonomia ed autosufficienza al di fuori della coppia gemellare.

Infine vorrei ricordare il Grande Massimo Troisi quando, nel suo indimenticabile film “Ricomincio da tre”, suggerisce per i nascituri l'assegnazione di nomi corti: “I nomi corti fanno i figli educati. Massimiliano viene scostumato; è proprio 'o nomme che è scostumato. - “Massimiliano, stai vicino alla mamma!” - Prima che la mamma lo chiama -Mas..- si..- mi..- lia..- no!- 'o guaglione se nne va da qualche parte, no? Nomi lunghi? Non ubbidiscono! Ugo, invece, se vuole andare da qualche parte... - ”Ugo!” - non fa nemmeno tempo a muoversi, deve tornare per forza... Oppure Ciro, viene meno represso, fa in tempo a fare almeno un passo e a prendersi 'nu poco d'aria...”
Certamente il compianto Massimo Troisi esagerava, certo è che un nome composto o troppo lungo rischia di venire storpiato o avvilito in un formato ridotto, variabile a seconda del gusto, della fantasia o bizzarria di chi quel nome pronuncia. E se quel che si è cercato di esporre sin qui ha un senso, se è vero che si possa dire che noi siamo (anche) il nostro nome, ci sarebbe da augurarsi di poter godere di quel nome, nella sua interezza e unicità, fin dall'inizio e per tutto il tempo che occorre, a discrezione del diretto portatore.

7 commenti:

  1. Ciao Licia, ciò che dici è vero e non ti nascondo che anche io, che mi chiamo Giovanni, mi succede che sentendomi chiamare Gianni, mi fà sentire, colui/ei che lo pronuncia, persona più affettuosa degli altri che usano il mio vero nome. Io amo il mio nome, anche se ti debbo dire che è un nome datomi in seguito alla morte di mio fratello Giovanni di anni due e mezzo ed ironia della sorte, io sono nato il giorno in cui lui moriva. Però debbo dire che non penso di aver subito alcun trauma, se non forse mio fratello più piccolo di me di due anni che penso sia lui ad aver risentito di questa situazione. Purtroppo per lui, succede ed è successo spesso che parenti e conoscenti abbiano e fanno raffronti tra di noi che lo disturbano evidentemente al pun to che prova nei miei riguardi risentimenti, dovuti sicuramente anche al nome che lui porta (Antonio), e che secondo me, alla luce di quanto ho letto prima, non sopporta dovendosi chiamare Girolamo per discendenza di famiglia.
    Sperando di essere stato chiaro ti saluto!!!

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  2. Ciao Licia, bello e interessante questo tuo articolo!! a proposito sono la Caly! eheheh, si io quella che non usa il suo nome e che spesso dovendone dare uno, non dà il suo ma un altro , quindi tanto vale ho pensato che mi si chiami caly!! sono d'ccordo sul fatto che il nome sia qualcosa che può influire sulla personalità e per questo mi piacciono i nomi normali, ai miei figli ho dato nomi normali! e a volte penso che sia una fortuna essere nati con un nome e un cognome ordinario! penso con terrore a quanto sia difficile portare nomi o cognomi che possono essere motivo di derisione, perchè la gente è cattiva su queste cose, ma se il cognome ahimè ci viene dalla famiglia, il nome almeno datoci da chi ci ha chiamati alla vita dovrebbe essere decoroso no?? Bè noto che non sempre è cosi, certi nomi "originali" come Tobia, rispettabilissimo profeta certo, ma di istintiva associazione di idee con personaggi buffi, mi pare un pessimo scherzo da fare ad un figlio. E in ogni caso ci sono esempi ancor piu terribili, non per nulla c'è un elenco dei nomi curiosi! A volte inneggianti a credo politici, a volte solo beffardi, certo che un genitore ( eheheh !! eh si stavolta non si può proprio togliere la responsabilità al povero gentore!! che spesso viene caricato di tutti i problemi del mondo ) dovrebbe comportarsi da persona adulta quando si reca all'anagrafe! mi resta impresso il nome di Nantas Salvalaggio, chiamato tale grazie all'insistenza dell'impiegato dell'anagrafe, che opponendosi alla richiesta del padre di chiamare il figlio Satana , propose con grande intelligenza di fare una specie di anagramma di quel nome nefasto, tirandone fuori Nantas che direi non è affatto male, forse dobbiamo ringraziare quello sconosciuto impiegato comunale per avere avuto un bravo scrittore in più, e un tragico errore in meno! Ciaoooo!! e grazie ancora per l'interessantissima lettura!!!

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  3. Grazie al contributo di Gianni (Giovanni)che racconta di sé e del fratello Girolamo (Antonio).
    Grazie a Caly ("bella"), anche se non ci svela il proprio nome di battesimo preferendo questo interessante pseudonimo o più appropriatamente nickname che lei stessa ha scelto con cura e appropriatezza. Caly, menzionando la curiosa genesi del nome di un noto e apprezzato scrittore, mi suggerisce la testimonianza relativa al costume, assai tipico nella Regione che abito,di assegnare ai figli nomi extra-ordinari. "Antavleva" ("non ti volevo")è il nome di una bambina di sicuro non attesa o forse indesiderata, "Finiamola" nata come ottava di una serie di femmine, "Veliero" figlio di un orgoglioso ed appassionato maestro d'ascia... Mi viene in mente anche, tra i tanti soprannomi di cui è generosa la regione Emilia-Romagna,"Panìr"(il paniere colmo di lumache vive appena raccolte dopo un'abbondante pioggia)a designare la vistosa condizione di cornuto "plurimo". Per la citazione di "Panìr" debbo ringraziare il Prof. Carlo Flamigni, noto Professore di ginecologia e Ostetricia presso la Università di Bologna nonchè, tra le altre, Membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ho scoperto essere inoltre accreditato e divertentissimo scrittore di romanzi noir sempre legati alla lingua ed alle tradizioni della succitata regione che gli ha dato i natali.

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  4. Eccomi Licia, sempre con grande interesse leggo i tuoi articoli e trovo certamente interessante la riflessione sul nome...Gabriella e in famiglia( padre, madre, fratello) mi hanno sempre chiamato Lella e quindi come aspettarsi che Lella, nome così dolce e arrendevole, si possa ribellare all'autorità precostituita!!! Ed è quando Gabriella prende il sopravvento su Lella, che "agisco"!!!
    Il nome è vero che in un certo qual modo ci condiziona, ma sta a noi "personalizzarlo" e renderlo unico...
    Personalmente volevo chiamare mia figlia Alessandra, ma poi nel momento in cui l'ho vista ho compreso che il suo nome sarebbe stato Francesca...Chissà cosa mi ha spinto, in realtà, in un momento così particolare a capire che il nome per lei era Francesca??? :-)

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  5. Salve a tutti,il mio nome di battesimo è Domenica.Fin da piccola ho sempre odiato questo nome che fin troppo facilmente si presta a prese in giro.Da ragazzina cosi' presi l'abitudine di farmi chiamare Cristina,non perchè in realtà mi piacesse particolarmente,ma perchè un giorno,interrogata su quale fosse il mio nome da un ragazzo che mi piaceva,presa alla sprovvista risposi cosi'.Da allora ho continuato a farmi chiamare Cristina.In questi giorni per casualità mi sono trovata a leggere un forum sul significato dei nomi e su come possano influenzare la personalità di un individuo.Per entrambi i nomi ho riscontrato diverse caratteristiche che mi rappresentano...mi ha colpito in particolar modo quello di Cristina,colei che è piena di segreti...Secondo voi è possibile e consigliabile,cambiare il proprio nome scegliendo fra quelli che piu si avvicinano alle nostre peculiarità o è preferibile prendere accettare il proprio nome di battesimo anche se non ci identifichiamo con lui,sopratutto visto il nuovo risvolto dei nomi = influenza caratteriale? PS Leggendo i significati dei nomi di amici e parenti sono rimasta interdetta nel riscoprire che tutti e nessuno escluso ci azzeccavano completamente
    Grazie mille
    Cristina/Domenica confusa :-))

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  6. Gentile Licia,
    Mi interessa molto questo articolo, vorrei sapere se posso trovare dei libri,articoli o ricerche che trattano l'argomento dell'importanza del nome e magari qualcosa anche sui genitori durante l'attesa del bambino in fase della decisione del nome.
    grazie millle
    giulia

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  7. Gentile Licia,
    ho letto con molto interesse il suo articolo. Spero in una sua risposta, sebbene l'articolo sia stato pubblicato nel 2011 e ora siamo nel 2014.
    Io appartengo alla categoria di persone che ha descritto nella prima parte dell'articolo ovvero a quelle persone che sono state battezzate in un modo e chiamate fin dalla nascita, dalla propria madre e così via da tutta la famiglia, con un nome completamente differente.
    I motivi sono quelli prevedibili di una costrizione che mia madre ha subito nel dovermi chiamare come mia nonna paterna.
    Dopo circa 28 anni da questa sciugurata decisione, ho avuto molte crisi. A lavoro, con i conoscenti, per me è sempre stato molto difficile e imbarazzante spiegare la mia situazione, molto complicato non essere presi in giro e dover passare giornate a chiarire alla gente chi si è.
    Fino a quando, circa due anni fa, ho preso la decisione di cambiare all'anagrafe questo che io giudicavo essere un errore.
    Ora, dopo un percorso veramente logorante e difficile, con l'aiuto di psicologi e psichiatri, dopo crisi e un lavoro lasciato per la troppa depressione, mi sento ancora molto male.
    L'aver cambiato il nome non ha risolto molto in me. Dopo mille problemi burocratici e imbarazzi a non finire, molte delle persone che mi conoscevano con il vecchio nome di anagrafe, continuano a chiamarmi in questo modo e io mi sento che forse avrei fatto meglio a rassegnarmi e non creare questa confusione. Forse avrei dovuto lasciare che solo la mia famiglia mi chiamasse con un altro nome e non coinvolgere il resto della mia vita.
    Ma non sono riuscita a separare la me stessa familiare con la me stessa lavorativa e ora, cambando nome, mi sembra solo di aver peggiorato le cose, creando una via di mezzo in cui mi sento ridicola.
    Cosa ne pensa ? Volevo dire che comunque seguo un percorso di terapia ma sostanzialmente si tratta ad educarmi ad una rassegnazione di questa condizione che pensavo di correggere ma che ho forse solo peggiorato.
    Grazie e spero realmente in una sua opinione

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