domenica 12 giugno 2011

In memoria del Nonno (scritto di getto dalla nipote 20enne, Marianna, dopo il 5 dic. 2007)

"Come mio nonno, amo scrivere. Amo veder scivolare le lettere, poi le parole, e via via frasi intere dalla penna. Come presa da un medievale horror vacui, bramo riempire d'inchiostro nero quelle nude pagine bianche tra le mani. In particolare amo scrivere articoli giornalistici. Al liceo, ad esempio, lo facevo per il giornalino scolastico. E i miei articoletti li ho sempre inviati in anteprima a mio nonno (via lettera, abitavamo lontani e lui disdegnava il computer), il quale ha sempre apprezzato la mia "ricchezza di idee, la scioltezza nell'esporle, la capacità di adeguare lo stile al contenuto".
Capiva perfettamente quanto il mio scrivere fosse spontaneo, frutto come di una necessità, di un bisogno.
Purtuttavia, è da tanto che non coltivo questa mia passione, e mai avrei pensato di ricominciare proprio per ricordarlo, a pochi giorni dalla sua morte.
Francesco Crosato -ma lui diceva di non riconoscersi in "Francesco" e perciò si faceva chiamare da tutti Cesco-, era mio nonno. E il soprannome "Cesco" avvolge pienamente il suo istrionico essere.
Lo posso ricordare così: calzoncini corti, fronte imperlata di sudore, guanti di pelle plastificata da giardinaggio, fiori e rametti secchi tra i fini e radi capelli bianchi, chino -seppur su un ginocchio malandato- intento a potare, curare, innaffiare, "coccolare" le sue piante.
Oppure seduto al pianoforte, la fronte corrugata, gli occhi miopi che seguono repentini ora le note ora le mani, risultando quasi strabici ... La musica, Chopin soprattutto, filtra attraverso le abili dita, si diffonde per il salone al piano superiore, incanta, incupisce, consola.
Lo ricordo in cucina, ormai vedovo da qualche anno, il giorno di Natale, intento a preparare il baccalà. Tutti quelli che l'hanno potuto gustare, convengono nel dire che migliore di quello del nonno non c'è. Lo ricordo in una calda giornata estiva a Creta, intento a farsi comprendere da un suo coetaneo, seppur meno in forma di lui, in un misto di italiano, tedesco, latino e greco antico. Ricordo le sue stravaganze, che lo costringevano ai rimproveri familiari, e che lui sapeva seppellire sotto la sua risata ironica, da Peter Pan che ha combinato un'altra delle sue marachelle.
Lo vedo seduto sul divano di pelle verde, mentre schiocca con le dita le orecchie della povera gatta Emi, che, amorevole e condiscendente, continua a fare le fusa. Lo sento accanto a me, mi prende la mano e per stuzzicarmi me la picchia sulla sua coscia. Sa che mi da fastidio, ma continua ad essere il nostro gioco...
Camminiamo tra le bancarelle di una fiera di fiori, lui chiacchiera, saluta, si intrattiene con i passanti, gli ambulanti. Oppure in un museo, oppure stiamo semplicemente seduti: mi racconta di quando da giovanotto, durante la guerra, aiutasse i partigiani mettendo chiodi sotto le ruote delle camionette dei tedeschi o distribuendo stampa clandestina. Mi insegna i vecchi motti fascisti, le canzoni dei balilla. Forse è un modo per non dimenticare e temperare le antiche paure esorcizzandole.
Lo vedo mentre batte a macchina i suoi articoli, con ordine impila i fogli del suo prossimo manoscritto. Inforca gli occhiali e guarda il TG 3, Report, Ballarò...s'indigna...soffre delle pene dell'umanità, non trova consolazione alla corruzione dei politici italiani, esulta quando mostrano i girotondini..., s'arrabbia... Si congratula con me per pensarla allo stesso modo. Conservo tutto questo del nonno Cesco.
Qualcuno a lui vicino mi racconta di come fosse ancora pronto a mettersi in gioco in campo professionale, di come sentisse forte la sua responsabilità di medico, di quanto potesse essere ancora propositivo e appassionato. Ma di come, alla fine, l'incomprensione l'abbia perseguitato per tutta la vita, e di come lui, seppur con amara tristezza, abbia saputo allontanarla mantenendo alto lo sguardo e l'onore di medico e di uomo. Di come fosse strano, ma geniale.
Buon viaggio nonno, so che le mie parole ti giungono ovunque tu sia e questo mi conforta. Grazie a tutti quelli che mi leggono, a quelli che sono stati accanto al nonno in questi anni, a quelli che ci hanno consolato in questi giorni, a tutti i suoi ex-pazienti e colleghi che lo rimpiangono con affetto. Spero di aver contrubuito -almeno in parte- a completare il ricordo che voi avevate di lui."

lunedì 16 maggio 2011

Felicità - Breve discorso sul Ben-Essere, ovvero sulla felicità intesa come Eudaimonìa


Ciò che ogni studente di liceo classico ricorda, è che la parola eudaimonìa veniva sbrigativamente tradotta, nelle versioni dal greco antico, con felicità. E spesso ciò che intendiamo per felicità corrisponde al benessere, alla gioiosa soddisfazione, od alla consapevolezza della piena realizzazione di sè e delle proprie aspirazioni; un ben-essere contrapposto al mal-essere.
Intesa così, la parola rimanda al significato etimologico del termine greco.
Con una certa approssimazione si può dire che raggiungere l'eu-daimonìa sia possibile a patto di essere in un accordo armonico con il dàimon che affianca ognuno di noi come uno spirito-guida che gli dèi possono accordarci, semprechè noi si sia disposti ad ascoltarlo, per perseguire il bene (anzitutto ciò che per noi stessi è bene); e a patto di passare inevitabilmente attraverso il "Γνώθι σεαυτόν" (conosci te stesso) alla ricerca di riconoscimento, senza il quale non si costruisce alcuna identità, e l'educazione, che permette a sua volta una lenta acquisizione, mediante riconoscimenti, della gioia di sè.
Sarebbe dunque una sorta di amico divino che è dentro di noi, una sorta di possibilità a priori assegnata a ciascuno, capace di guidarci istintualmente verso il bello ed il buono come valore etico (kaloskagathòs) e, come tale, è essenzialmente uno stato d'animo spirituale, una qualità interiore che rende l'uomo sereno (beatus). La qualità interiore, poi, si estrinseca e regola la condotta, l'ethos, in una modalità etica.
Se nel corso della vita il proprio dàimon ha una buona (dal greco "eu") realizzazione, allora sarà possibile raggiungere la felicità, la quale pertanto non consiste nel raggiungimento di cose (denaro, status simbol,...) al di fuori di noi, ma piuttosto nella buona riuscita di sè o, meglio, nella realizzazione del Sè. Il dàimon è una sorta di fatalità interna, di destino individuale che vale la pena di assecondare procurandogli opportune fatalità esterne. Già Democrito ricordava che la felicità ed il suo contrario sono fenomeni dell'anima (psyche), talchè questa prova piacere o dispiacere a seconda che si senta o no realizzata.
Corrisponde all'augurio tibetano "tashi delek", traducibile con "lieta benignità e pace universale", inteso come auspicio ad ascoltare il buon dàimon, liberandosi dall'ignoranza, dalle sovrastrutture, dall'ingordigia e dall'attaccamento alle illusioni smodate e narcisistiche che sono alla base dell'invidia, della rabbia e dell'odio e, a ben riflettere, anche a quello romano antico di "salve" che sta per "salute a te", una salute olistica, fisica e psichica.
La felicità intesa come eudaimonìa corrisponderebbe pertanto alla realizzazione delle proprie potenzialità e abilità, nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, trovando la piena realizzazione in quella che Alan S. Waterman definisce "espressività personale", intesa come possibilità di svolgere il proprio personale processo di individuazione (divenire ciò che si è) dando voce a quelle inclinazioni ed abilità che costituiscono, per ciascuno di noi, il "vero sè", e che sono a fondamento del benessere individuale.
Ma per una piena e soddisfacente autorealizzazione, e ancora una volta gli antichi Greci ci vengono opportunamente in soccorso, è necessaria la virtù (areté) secondo misura (katà métron), con cui dar forma alla propria forza imparando a governare se stessi dandosi delle leggi piuttosto che dovendo subire passivamente la legge degli altri. Come osserva Aristotele, la felicità come disposizione dell'anima (eudaimonìa) è già il vivere bene (eu zen), e la vita buona (secondo bontà) è il fine della vita.
Nella rivendicazione dei diritti naturali con cui si apre la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 leggiamo che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il «diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce così che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza. Viene dunque recepito il catalogo dei diritti di matrice giusnaturalistica e ad esso si aggiunge la felicità come fine ultimo che ciascun individuo è chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte. Un ordine politico razionale deve ruotare intorno ai concetti di libertà e di diritto: la libertà, la quale consiste nella possibilità per ciascun individuo di ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà migliore purché non renda pregiudizio alla libertà degli altri , ed il diritto, che deve recepire e codificare questo valore[1]
Un recente studio studio di Harvard, che rileva come la somma totale della bontà della natura umana soverchi abbondantemente quella della cattiveria, ha un incipit che comincia più o meno così: "questa ricerca fornisce il primo grande indizio a favore dell'esistenza di un "possibile universale psicologico"; gli esseri umani ereditano una tendenza, ancora più forte di quella ad essa contraria, verso la tenerezza, la compassione, la cooperazione..., soprattutto verso chi è in difficoltà e, da questo impulso altruistico, ricavano benefici psicologici...", come a dire che, a ben cercarla, sarebbe possibile testimoniare sperimentalmente un'identica base nell'animo umano: il senso etico innato. Potrebbe essere il "buon dàimon"?
A quanto so, nel vocabolario ebraico non esiste il corrispondente di felicità, esistono invece cinque diverse accezioni di "gioia", cinque diversi stati dell'anima che rendono possibile il ben-essere. Mi sembra saggio e meno fuorviante.
Felicità, in ogni caso, non può essere uno stato perenne, ma semmai occasionale e raro, quasi mistico.

Come promuovere la felicità (intesa come eudaimonìa)

Posto che l'era della tecnica, dopo il dominio della filosofia romantica come tratto tipico dell'antropologia occidentale, è l'epoca della disillusione e del nichilismo in cui l'umana hybris - dal greco antico "Ǜβρις"- (la tracotanza che abbiamo osato al fine di sentirci "animali superiori" al centro dell'universo), ha già squagliato le ceree ali a quelli tra noi che, immemori di Icaro, ambivano un posto in prima fila nell' Empireo, serve ora in maniera più che mai urgente trovare una qualche risposta al "disagio della civiltà". Serve superare il paradigma tecnico-scientifico che mira ai risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure senza proporsi alcun fine da realizzare. Serve poter ridare senso all'esistenza, dopo esserci smarriti in quell'orizzonte dispiegato dalla ragione e dalla conoscenza nel quale ci troviamo dis-orientati.
Orientarsi, ritrovare l'oriente, il senso, per sopportare e superare le difficoltà del vivere quotidiano cosiccome la frustrazione del sentirsi smarriti in un universo valoriale in disfacimento, equivale ad avere uno scopo. Abbiamo bisogno di sapere che il nostro procedere, muoverci ed adoperarci non è vano, nè può essere solo un insensato procedere verso l'ineluttabile fine.
La nostra società fondata su tanti piccoli ego che hanno come unico orizzonte il proprio ombelico, ovvero fondata sull'individualismo, sulla reificazione financo dei sentimenti, sull'efficienza e il tornaconto, sulla mercificazione e sul denaro (che, come dice Massimo Fini, dal punto di vista individuale costituisce un credito, ma preso globalmente è un debito sempre più colossale e disastroso), di certo non aiuta.
Credere che la felicità abbia a che vedere con l'umore e con i di-vertimenti (distrattivi cui tendiamo quando volgiamo lo sguardo in un illusorio e improbabile altrove) è fuorviante.
Ma se noi riflettiamo sul fatto che la felicità non è nelle cose e non sta al di fuori di noi bensì dentro di noi, allora potremo esercitarci opportunamente a conquistarcela.
Dopotutto il piacere (Voluptas) è la mèta del processo evolutivo modellato sull'unione di Eros (Amore) e Psiche (Anima). Voluptas nasce dall'incontro di Eros e Psiche; dalla conoscenza e dalla passione anche carnale nasce, come meravigliosa sintesi, sia la sensuale voluttuosità sia una beatitudine trascendente i sensi, in una parola: il ben-essere.
Prendendo in mano le redini della nostra vita nell'intento di realizzare le nostre potenzialità e abilità naturali, identificato un qualunque stimolo adatto a noi capace di sostenerci nella motivazione e spingerci verso le cose, verso le situazioni, verso gli altri, verso le opportunità, per ottenere il maggior livello di serenità e appagamento possibile, le occasioni non mancheranno.
Occorre individuare ed esercitare le proprie potenzialità, quelle in cui ci riconosciamo perchè rispondenti alle nostre particolari inclinazioni; in questo modo ci potremo sentire pieni di vita e di energia.
Nella scelta ci orienterà il daimon. Per qualcuno si tratterà di esercitare una qualche attività manuale e pratica, per qualcun altro la passione per la natura, la musica, l'arte, o una qualunque delle varie helping professions, ecc. Se ci dedichiamo a ciò che ci gratifica e appassiona, la nostra vita migliora e si riempie di significato.
Quando ci si immerge in attività concernenti le proprie potenzialità sarà come nel gioco quando il tempo e lo spazio sono a geometria variabile, la fame e la sete stimoli silenti che non urgono e la serenità creativa e l'energia ci sostengono all'insegna della leggerezza (nella letteratura anglosassone questo stato è definito "flow").
La felicità consiste dunque nel vivere esperienze sintoniche con la propria natura profonda, è industriarsi in maniera appassionata rallegrandosi del proprio operato, sta nel gusto di fare più che nella valutazione delle cose fatte, con creatività, attraverso l'incontro .
Victor Frankl, psicanalista, scampato ad un campo di concentramento, definì una particolare forma di sofferenza : la nevrosi noogena, non già frutto di un conflitto emotivo tra il principio del piacere ed il principio di realtà (Freud), ma provocata da un problema spirituale, un conflitto etico, una crisi esistenziale (di origine noetica, dal greco "nous": mente) che compromette la stima di sè. Per quest'autore "ogni uomo alimenta infatti un sentimento di autostima che oscilla in relazione ai valori che incarna. Ad un valore elevato corrisponderà un'autovalutazione elevata". Ogni epoca, infatti, ha le sue nevrosi specifiche e necessita di terapie specifiche. "L’uomo di oggi - commenta Frankl - più che frustrato sessualmente, risulta essere esistenzialmente frustrato. Non prova più tanto il senso d’inferiorità (di cui parla Adler), quanto un sentimento di futilità, di mancanza di significato e di vacuità : il "vuoto esistenziale". E, nell'intento di colmare questo vuoto di senso, potrà lasciarsi vivere (trascinando un'esistenza grama o dipendendo dal Prozac o perseguendo il più sfrenato edonismo), potrà deprimersi fino al suicidio (aggressività autodiretta) o fino all'omicidio (aggressività eterodiretta), oppure potrà cercare consolazione, compensatoria quanto illusoria, nell'uso di una qualche droga (ivi compresa la compulsione al gioco d'azzardo).
Un filosofo e psicanalista - Miguel Benasayag - insieme allo psichiatra Gérard Schmit, ha pubblicato di recente un saggio dal titolo "Le passioni tristi. Sofferenza psichica e crisi sociale", laddove la definizione di "passioni tristi" rimanda al conio del filosofo Spinoza. I coautori hanno ragionato su quella che appare essere la motivazione dominante che spinge i richiedenti aiuto ai Servizi di consulenza psicologico-psichiatrica: la tristezza. Pervasiva della società contemporanea, conseguente al diffuso e permanente sentimento di insicurezza e precarietà, non rappresenta il disagio del singolo (della stragrande maggioranza dei singoli), ma è diventato disagio della civiltà, sinonimo di crisi sociale in cui il futuro si profila come minaccia e non già come speranza.
A tutti è noto che "di doman non c'è certezza", il guaio è che sembra diventato difficile, quando non impossibile, coltivare la speranza, quella "spes ultima dea" senza la guida della quale ogni umano sforzo appare inutile.
Recuperare la speranza (che altro non sarebbe, stando al parere di Aristotele, se non un sogno fatto da svegli); questo è ciò che ci necessita per superare l'empasse esistenziale. E ciò si rende possibile a partire dalla costruzione dell'autostima, di un adeguato concetto di sè capace di comprendere i propri punti di forza, ma anche paradossalmente i personali, del tutto umani, punti di debolezza e limiti. Perchè è pur vero che "ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera", ma a queste sole condizioni: "chi vuol esser lieto sia".
Solo così potremo superare l'utopia modernista dell'onnipotenza umana in una società dove, per dirla con Nietzsche, dio è morto, e, parafrasando Woody Allen, pure Marx è morto e anche noi non ci sentiamo tanto bene. Solo così potremo superare lo scontro di filosofie e di approccio che è presente nella società tanto quanto, oramai, nella coscienza individuale di ciascuno di noi (e che ci fa pretendere, per esempio, cibo genuino “come una volta” e nel contempo l’ultimo modello di telefonino con servizi tecnologici sempre più evoluti); solo così potremo districarci opportunamente, in quest' Era della Contraddizione e dell’Incoerenza che ci vorrebbe consumatori passivi condannati ad una fretta perenne che non lascia tempo alla ri-flessione (etimologicamente, al ripiegamento all'indietro per connettere il presente con ciò che abbiamo visto, in un volgersi all'interno verso immagini ed esperienze psichiche), abbandonando l'eccessiva inclinazione al negotium a favore dell'otium come tempo per meditare soffermandoci ad elaborare i pensieri.
La ricerca della felicità è sostenuta dal desiderio che, come ci ricorda Platone, implica una lacuna, una mancanza (dal lat. de-sidera: in mancanza di stelle da cui trarre auspìci per il futuro). Esso, per sua natura, tende a volare sulle ali della fantasia, con il rischio di condurci lontano dalla realtà e da tutte le sue implicazioni fino a trasfigurarla alterandola pesantemente.
Ciò non deve succedere; esso deve potersi mantenere vivo e pressante, costituendo l'agente propulsivo più forte dell'azione umana nonchè il principio della vita psichica, ma, nello stesso tempo, per la ricetta del conseguimento di piacere e soddisfazione, deve passare attraverso la realtà con una attenzione estetica (dal greco "aìsthesis"= sensazione che dal "sensibile" conduce al "bello"). Nel caso la soddisfazione del desiderio venga pretesa nell'estinzione rapida e immediata di quella "mancanza", il piacere conseguito sarà allora di tipo an-estetico poichè anestetizza dalla "cura" del mondo e, come nei bambini, intenti per definizione a pretendere una soddisfazione immediata, egocentrica e non mai differita del piacere, così nei tossicomani, l'appetito si farebbe divorante, insaziabile, ed il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivelerebbe sempre più insoddisfacente, impedendone il godimento.
Come l'estesia del parto (dolore) finisce nell'an-estesia (fine del dolore) e rende possibile la soddisfacentissima epifania del risultato (il bel neonato), così dalla buona sensazione (fine del dolore) si può pervenire alla sensazione del buono (aver fatto qualcosa di buono che corrisponde al risultato del parto). Come si vede dall'esempio paradigmatico del parto, il conseguimento del risultato si rende possibile solo attraverso l'esperienza della fatica (o sforzo), ed essa è tipica della condizione umana, come ci suggerisce, in maniera mirabilmente sintetica, il libro della Genesi -nei passi 3, 16 e 3, 19- dove si preconizza che, dal momento della fuoriuscita dall'Eden, la donna partorirà con fatica e l'uomo mangerà il pane guadagnato col sudore della sua propria fronte[2]
Per restare nella metafora potremmo dire che, per il conseguimento del ben-essere o della felicità, la gratuità non paga. Senza compiere alcuno sforzo, ogni uomo non potrà che cantare tristemente o rabbiosamente: "I can get no satisfaction". Non per caso, una forma di aneidonia e invidia (e dunque di infelicità) si osserva paradossalmente anche in coloro i quali "hanno troppo in maniera troppo facile" chè, condannati all'assuefazione, ai piaceri e ad una facile ricchezza, finiscono con il contrarre "hedonic treadmill", una "ruota di mulino edonistica" che, girando continuamente, impedisce in maniera inesorabile la corresponsione della soddisfazione a tanta facile abbondanza, costringendoli ad un piacere sempre maggiore per poter provare un grado costante di soddisfazione minima.
Di contro è anche vero che bambini del cosiddetto terzo mondo sembrano essere perfettamente soddisfatti e felici, o perlomeno mai ingrugnati e nevrotici come spesso accade di vedere alle nostre latitudini, anche se poveri o indigenti. Chiunque abbia fatto un viaggio in Africa, e, attraversando lunghi tratti di strada assolati e deserti a bordo di una jeep, si sia imbattuto nel gioioso "assalto" di un gruppo di bambini di ogni età festosi e comunicativi, per quanto seminudi e sporchi, intenti a giocare a ridosso di un qualche agglomerato di umili capanne, o in altri, ordinati nelle loro divise scolastiche, intenti a percorrere talvolta lunghissime distanze da o per la scuola, tutti ugualmente e serenamente scherzosi, sorridenti e divertiti tra loro come di fronte all'estraneo, sa di che parlo.
Ai nostri occhi, tanta sincera gioiosità appare quantomeno strana. Il segreto della loro "naturale" felicità risiede con ogni probabilità in almeno tre fattori fondamentali: 1) il senso di appartenenza alla loro comunità, 2) la condivisione delle condizioni socio-economiche oltrechè del sistema valoriale, delle credenze, dei riti, delle speranze come delle paure, ecc. e 3) la capacità di servire la propria comunità di appartenenza sentendosi investiti di un ruolo che si riveli utile e necessario (andare a prendere acqua o legna, badare al bestiame, aiutare gli anziani, i più piccoli o i malati, ecc.).
Fin da bambini è dato loro di avere ben chiara la propria identità; possono coltivare una positiva stima di sè (sentendosi belli, buoni e bravi secondo la mia personale teoria delle 3 "B" - cfr. questo blog -), sentendosi pienamente parte della loro comunità (villaggio, tribù, nazione) in un clima di reciprocità, comunicazione e comunione.
Queste tre condizioni sono naturali e necessarie per ogni essere umano che, va ricordato, è un animale sociale.
Non dimentichiamo che l'uomo è artefice (costruisce con mano) della sua propria fortuna e la fortuna, che aiuta chi osa e non chi rimanga immobile nell'attesa, contempla sempre l'esercizio di una sana aggressività intesa non già nel suo significato semantico, bensì in quello etimologico di andare-verso (dal latino: "ad-gredior") come necessaria pressione ad agire che, come tale, tiene lontano dalla de-pressione, rendendo possibile un godimento appetitivo della vita attraverso il coinvolgimento dell'alterità e del mondo, nella cura e nel rispetto della libertà propria e altrui.
In ogni caso, la felicità non è una cognizione (qualcosa che si sa) ma è un'esperienza dell'animo, qualcosa che si sente. E' senza dubbio conseguente alla capacità di provare gioia, e la capacità di provare gioia è strettamente correlata alla resilienza, ovvero alla forza d'animo intesa come facoltà di superare gli alti e bassi della vita ritornando ad uno stato di serenità.
Naturalmente il termostato emotivo che ci riporta ad uno stato di normale serenità, pur dipendendo in parte dal temperamento innato che ci rende più o meno inclini a provare gioia o tristezza, non è fissato alla nascita in maniera irreparabile. Certo può abbassarsi significativamente nel corso dell'infanzia, a causa per esempio di un deficit di accudimento o di fattori traumatici, perchè la percentuale di serenità e gioia nelle prime relazioni costituisce una sorta di imprinting nella formazione dei percorsi neurali della felicità (è un campo di esplorazione, questo, assai recente che implica lo studio del cervello e della sua biochimica, applicato alle emozioni e denominato neuroscienza affettiva), ma può anche essere "educato", creando una diversa e maggiore competenza emotiva.
E' dunque possibile affinare la capacità di vedere il lato positivo delle cose operando una "ristrutturazione" cognitiva e quindi emotiva.
Lasciamoci sedurre dagli incanti della vita, dalla confidenza, dalla partecipazione, impariamo a relativizzare piuttosto che assolutizzare sia il piacere che il dolore tenendo a bada le tempeste emotive, senza ripudiare il desiderio per timore della delusione e senza spingerlo al parossismo, ma piuttosto assecondandolo e incanalandolo verso vie sostenibili, in maniera da perseguire obiettivi compatibili con le nostre possibilità e perciò raggiungibili.
E' necessario superare l'autismo sociale che altrimenti ci condanna alla solitudine e allo smarrimento, confidando nelle potenzialità rigenerative dei legami personali, confidando nell'Amore declinato in tutte le sue espressioni (sociale, parentale, di coppia, amicale...), coltivando la compassione (da cum-pateo, sono disposto a soffrire insieme con) ma anche la forza dell'immaginazione e il coraggio della sfida, in modo da coniugare Eros con Psyche.
Non va dimenticato che proprio la neuroscienza sociale ci suggerisce che i legami sociali svolgono un ruolo nella ristrutturazione del nostro cervello e che nel contatto sguardo-sguardo (ma anche voce-voce e pelle-pelle) i cervelli entrano in risonanza e la qualità delle innumerevoli interazioni quotidiane influisce sulla biochimica e sulla organizzazione dei circuiti neuronali: è proprio il caso di dire che quando sorridi, il mondo sorride con te e tu stesso puoi innescare una reazione circolare, per così dire, di contagio emotivo.
Come già sostenevano i latini : "(homo) faber est suae quisque fortunae" perchè l'uomo è fabbro (nel senso di artefice che fa con gli arti) della propria sorte potendo costruire e la propria fortuna e la propria sfortuna. Tutt'e due queste, e non soltanto "la sfiga" come direbbe Lupo Alberto, sono sempre in agguato.
Fronteggiare una novità implica sempre una crisi e la crisi una scelta tra elementi conflittuali[3] Il nuovo costituisce nel contempo sia una minaccia che un'opportunità: è la storia del bicchiere pieno a metà che può essere percepito mezzo pieno o mezzo vuoto. Direi che conviene cercare di leggerlo come un'opportunità; nell'un caso e nell'altro avremmo la probabilità di avere ragione al 50% . Perchè non rischiare, allora? Proviamo a dar credito a Tucidide quando affermava che "il segreto della felicità è la libertà, è il coraggio!"
Per concludere, volendo sintetizzare una possibile "ricetta per raggiungere la felicità intesa come eudaimonìa", ciò che necessita è il coraggio di essere se stessi imparando a sviluppare una sana assertività la quale implica eminentemente tre cose: conoscenza di sè (del proprio mondo interiore inteso come insieme delle proprie attitudini, dei propri bisogni, dei propri punti di forza e debolezza, nella aretè-kata métron), autostima (sicurezza di sè, rispetto per la propria persona, per la propria individualità ed unicità) e rispetto del prossimo. Il comportamento assertivo consente dunque l'edificazione di rapporti interpersonali costruttivi e trasparenti, senza che ci sia prevaricazione dell'altro e senza che ci si lasci prevaricare, a favore della libertà propria nel rispetto della libertà altrui.

Bibliografia


D. Goleman, Intelligenza Sociale, Rizzoli, 2006
J. Hillman, Il mito dell'analisi, Adelphi, 1979
U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, L'ospite inquietante, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2007
U. Galimberti, Le cose dell'amore, Feltrinelli, 2005
U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009
R. Bodei, Ira, Il Mulino, 2010
P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, 1984
G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010
D. De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi, 2010
A. Testa, Le vie del senso, Carocci, 2004
Seneca, L'arte di essere felici e vivere a lungo, Newton, 2006
J. Franzen, Libertà, Einaudi, 2011
E. De Luca, E disse, Feltrinelli, 2011
I.S. Turgenev, Padri e figli, Garzanti 2003
S. Kierkegaard La malattia mortale, Mondadori
F. Dostoevskij, I demoni, Einaudi, 2006




[1] Vedi http://cultureeuropee.irrepiemonte.it/orienteoccidente/ap_7.htm.

[2] Questa traduzione fedele dall'ebraico antico è ad opera di Erri De Luca.

[3] La parola cinese per "crisi" è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione, secondo alcuni fallace, che i caratteri di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti che i due caratteri significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità". Molti linguisti considerano questa idea una colorita pseudoetimologia, poiché da solo non significa necessariamente "opportunità". In effetti, wēi significa approssimativamente "pericolo, pericoloso; mettere in pericolo, rappresentare un pericolo; periglioso; precipitoso, precario; alto; paura, timoroso" (come in wēixiăn, "pericoloso"), ma la parola polisema non significa necessariamente "opportunità". La composizione jīhuì significa "opportunità", ma è solo una parte di essa; assume numerosi significati, tra cui "macchina, meccanico; aeroplano; occasione adatta; punto cruciale; perno; momento incipiente; opportuno, opportunità; occasione; collegamento chiave; segreto; inganno". Mair suggerisce che in wēijī sia più vicino a "punto cruciale" che a "opportunità". Da: www.wikipedia.it.

domenica 27 marzo 2011

La gelosia patologica


Dal greco zelos -emulazione, invidia, rivalità-, divenuto zelus in epoca medievale -zelo, ardore, rivalità - la gelosia è un fenomeno noto a tutti, fin dalla più tenera infanzia.
Essa si manifesta come un'emozione nel caso di una rapida epifania tendente in tempi brevi all'estinzione, oppure come un sentimento allorquando si stabilizzi in uno stato affettivo-cognitivo pervasivo e duraturo, facilmente evocato anche da minimi eventi esterni o da rappresentazioni mentali auto-generate che finiscono con il permeare l'esperienza psichica in maniera stabile.
In tutti i casi può essere considerata una passione -dal gr. pàthein e lat. pàteo- per il carattere di sofferenza che sempre ne accompagna il vissuto. Comporta sofferenza interiore (con emozioni di dolore, tristezza, paura e rabbia), sintomatologia neurovegetativa (ansia, accelerazione del battito cardiaco come della respirazione, sudorazione e tremore alle mani, rapido afflusso di sangue al cervello, pupille in midriasi...), aspetti cognitivi tipici (rancore, preoccupazione, autoaccusa, autocommiserazione), ma anche, nel contempo, un'impulso ad agire. Si tratta di forme di aggressività manifesta - dal lat. adgredior, andare verso - (dal piangere, parlare del problema, far uso dell'umorismo, implorando benevolenza e comprensione, fino al passare alla vendetta in un parossismo d'ira priva di discernimento), che conducono dalla mansuetudine coatta all'ira cieca.
Va sottolineato che la gelosia può essere scatenata da cause oggettive e reali ma anche dalla (distorta) percezione di una minaccia immaginata.
E' una forma di aggressività intraspecifica (cioè tra membri della stessa specie) funzionale alla sopravvivenza della specie, dunque con una precisa funzione adattiva e, dall'etologia animale, sappiamo quanto essa sia importante ai fini dell'accoppiamento, della riproduzione del proprio patrimonio genetico, nello stabilire un ordine gerarchico, e nel circoscrivere un territorio di risorse preziose per la sopravvivenza. Nell'animale questa "sana aggressività" si configura come un istinto che promuove e consente l'adattamento all'ambiente. L'aggressività dei cervi che, nella stagione degli amori, si sfidano a cornate, e lo spinarello che si scaglia indistintamente contro un qualsiasi altro maschio in "livrea nuziale", che noi interpretiamo come "gelosia", altro non è che un comportamento ritualizzato, istintuale, di difesa della coppia - della riproduzione e della prole -, che prevede schemi di azione fissi (attaccare qualunque sagoma di spinarello che abbia una vistosa chiazza ventrale rossa che costituisce il distintivo tipico del maschio nell'accoppiamento); essendo ritualizzato non comporta ammazzamenti.
Nell'umano, il comportamento geloso, come ogni comportamento, si attiva a partire da motivazioni primarie (fame, sete o sesso) e da motivazioni secondarie (miranti al successo con prestazioni di alto livello e tese al superamento degli altri, al bisogno di autorealizzazione, al desiderio affiliativo o di attaccamento e di contatto con l'Altro - per vincere la paura della separazione e relativa solitudine -).
Gli umani non copulano, ma fanno l'amore, soddisfacendo così i bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza e amore, di stima, di autorealizzazione, cognitivi - sete di conoscenza - ed estetici - desiderio di bellezza -. Si scelgono, s'innamorano, si corteggiano, si promettono fedeltà... Nella norma, hanno un enorme potere di controllo conscio sulle loro pulsioni e ricorrono a strategie di comportamenti ritualizzati dell'aggressività con modificazioni del comportamento dettate dall'apprendimento ( ad es. adottando tutti quegli accorgimenti strategici di camuffamento che enfatizzino i caratteri sessuali secondari - nel maschio, ad es., spalle larghe imbottite -, e/o che abbiano un carattere impositivo fisico - gare sportive - o mentale - giochi da tavolo, imbonimenti verbali fino alla bugia -, e di acquietamento fra estranei - saluto, togliersi il cappello, porgere la mano od un regalo, chiedere permesso se si invade lo spazio altrui...-)
Va detto che la pulsione, nell'uomo, è fortemente influenzata da componenti psicologiche le quali, a loro volta, risentono di influenze sociali, culturali e cognitive.
Nessuno (o scarso) stupore se presso i Kiribati (tribù che vive in un atollo del Pacifico) l'uomo geloso ha facoltà di tranciare il naso alla compagna ritenuta infedele, col coltello o con un morso, con un gesto che va sotto il nome di koko: lì è d'uso, considerato "normale" per quella società e cultura. Nessuno stupore che fino al 1981 (solo 30 anni fa !) in Italia fosse ammesso il "delitto d'onore" che rendeva pressocchè lecito l'assassinio della coniuge, figlia e/o sorella per salvaguardare l'onore del maschio. In ambedue i casi vi era il riconoscimento dell'offesa arrecata e la riparazione, ancorchè cruenta, non causava riprovazione sociale.
Poichè la gelosia riguarda ciò che si ha e che si teme di perdere, essa va ad evocare i fantasmi primigenii della vulnerabilità, della perdita, dell'abbandono e della solitudine con cui ciascuno di noi fa i conti nel momento della separazione dalla propria madre fino alla rescissione, fattuale prima e metaforica poi, del cordone ombelicale inteso come totale dipendenza.
La gelosia, nella sua estrinsecazione comportamentale, è strettamente correlata alla qualità (culturale) nella gestione dell'aggressività. Diversamente dall'istinto che è un comportamento fissato dall'ereditarietà, caratteristico della specie, la pulsione invece è una costituente psichica che produce uno stato di eccitazione che spinge l'organismo all'attività, anch'essa geneticamente determinata ma suscettibile di essere modificata nell'esperienza individuale. (U.Galimberti)
M. Mead ha osservato che in alcune società tradizionali della Nuova Guinea il comportamento aggressivo si manifestava in modo assai diverso: gli Arapesh, allevati con grande affetto e con frequenti contatti corporei, da grandi risultavano particolarmente miti, pacifici e bendisposti, mentre i Mundugumor, allevati con un atteggiamento poco amorevole da parte delle loro madri avvezze a lasciarli da soli per tempi lunghi entro le ceste e scarsamente disposte ad allattarli volentieri, mostravano, una volta adulti, comportamenti estremamente aggressivi e crudeli.
E' evidente che la diversità consiste in una diversa gestione culturale dell'aggressività. I primi, che pur non essendo anaggressivi evitano di venire alle mani durante le liti, sono esortati a dare sfogo alla rabbia dirigendo la loro aggressività su cose neutre (sassi, pietre, ceppi di legno) che vengono scagliate a terra con tutto l'impeto desiderato, o a rotolarsi nel fango, battendo i piedi, urlando ecc. ma senza andare a confliggere con altre persone in uno scontro fisico.
L'impronta culturale e l'educazione che ne deriva fanno la differenza, incidendo significativamente nella gestione dell'aggressività che può essere canalizzata in forme diverse e diretta o no verso altri esseri umani. Esistono infatti culture che addirittura promuovono la degenerazione dell'aggressività in violenza enfatizzando la competizione a scapito dell'empatia e della cooperazione. Anche la tecnologia, così come pubblicità e media con le loro micronarrazioni mitiche, mostrano il loro potenziale deresponsabilizzante teso a distanziare il gesto dalle conseguenze dell'azione violenta (armi) o a manipolare le coscienze sollecitando in maniera subliminale ma potente le pulsioni sessuali e aggressive proponendole spesso congiuntamente e condizionandone così l'enfatizzazione della loro base biologica a discapito di quella culturale.
La privazione d'amore, oltre a deformare in senso aggressivo la personalità, la rende asociale e non permette lo sviluppo di lealtà, abnegazione, dominio di sè, coraggio, nè di tutte quelle caratteristiche altruistiche che presuppongono l'identificazione dell'individuo con gli altri membri del gruppo. Potremmo dire che genitori poco affettuosi formano personalità aggressive e che, al contrario, genitori affettuosi creano una disposizione identificatoria positiva e l'attitudine ad imitare il modello da loro offerto. Pertanto il bambino allevato in maniera equilibratamente affettuosa, conoscerà più probabilmente una gelosia "normale", gestita secondo un'aggressività sana.
Quand'è che la gelosia perde i connotati di reazione ed emozione sana ? Quand'è che diventa un sentimento (un feeling costante) malato?
Forse, potremmo dire, quando intacca la percezione del Sè, dell'Amato e dell'Altro-(Rivale), tingendosi di invidia, che è quel sentimento mai pago e distruttivo che riguarda tutto ciò che si vorrebbe avere ma non si ha e quando fa scaturire la perenne scontentezza di chi, sperimentando una condizione di inferiorità e pur mettendo in atto tutte quelle difese massive di cui può arrivare a disporre, esperisce sentimenti sempre ambivalenti, non coerenti e mai appaganti.
Nel caso di un Io fragile, la persona ricorre per sovracompensazione alla tendenza ad incolpare gli altri sempre e comunque per le proprie mancanze o per ogni motivo per il quale si senta minacciato, legittimando se stesso, anche a costo di alterare la realtà, a prendersi ogni merito del proprio successo. Così facendo si auto-preserva dal sentirsi inadeguato, fragile ed inutile preferendo, più o meno consciamente, sentirsi arrabbiato o indignato.
Questo meccanismo viene chiamato "distorsione autotutelante" ed è strettamente correlato al pensiero paranoico.
La paura dell'abbandono ingenera tristezza, rabbia, vergogna e disistima di sè; altera le percezioni e la memoria (nel geloso ad oltranza, si ha un aumento abnorme e selettivo dei processi attentivi che divengono parossistici e ruminativi), altera il pensiero in quanto diviene pensiero dominante o "delirio di riferimento" (ogni comportamento della persona amata diviene testimonianza e conferma dei sospetti non essendo mai considerato come casuale o neutro). Il desiderio ambivalente della maggior vicinanza e conoscenza dell'Altro (magari funzionale a scoprirne eventuali difetti e debolezze per meglio dominarlo controllandolo), unitamente al desiderio di segno opposto di rabbia, odio e ostilità, provoca smarrimento e disorientamento tali che fanno vivere il soggetto sotto costante minaccia di annientamento.
La distorsione autotutelante serve appunto a preservare illusoriamente l'Io ideale dalla minaccia di un Io fragile e compromesso qual è l'Io effettivo.
E' chiaro che più l'Io è fragile, minacciato da una bassa autostima e da credenze svalutative quali l'essere debole, poco amabile, inutile, inferiore, cattivo e destinato alla solitudine e al fallimento, più avrà la tendenza ad incolpare gli altri spostando fuori di sè ogni "responsabilità". Verranno usati massivamente meccanismi di difesa dell'Io quali la negazione (nego di avere dei problemi che mi faccia male riconoscere), la rimozione (accantono o dimentico ciò che in qualche modo mi nuoce) e la proiezione (non sono io che ho voglia di tradirti o che tradisco, sei tu che sei puttana).
Questo stato di fragilità, nel suo complesso, provoca reazioni intense , esagerate ed inappropriate rispetto alla realtà oggettiva della situazione, nella quale finisce col riproporsi l'Erlebnis di un antico, inestinto conflitto e dell'infedeltà ad un amore (quello materno) che doveva essere esclusivo.
L'origine di questa difesa sembra dunque collocarsi nella prima infanzia e nella non risoluzione del processo che dalla dipendenza conduce all'autonomia. Tutto resta fermo com'era intorno ai 3 anni, nella fase in cui non è stato ancora affrontato l'edipo nè si è sviluppato il narcisismo secondario che, sostenuto dal senso di realtà e dall'accettazione delle "norme del Padre", renderebbe possibile l'organizzazione del Sè reale. Il geloso patologico, angelo e demone, bloccato da mancanza di vera empatia, con spiccati sentimenti arcaici infantili, egocentrici, megalomanici e preedipici, è sostanzialmente impossibilitato a scegliere un qualsiasi movimento autonomo per trovare una collocazione nel triangolo edipico. Costretto a vivere di espedienti e furbizia nell'impossibilità di fare una scelta di movimento (salvare mamma dallo strapotere che papà esercita su di lei possedendola) per schierarsi al fianco di lei difendendola e affrontando l'ira funesta del padre talmente grande e forte da sembrargli onnipotente . Paralizzato nella sua paura di bambino e nella sua infantile impotenza, il narcisista non sceglie e non si schiera, rimanendo condannato a patire la minaccia soverchiante di una presenza paterna castrante. Impedito dal proprio senso di fragilità, inferiorità e inadeguatezza, condannato a vivere con il dolore della propria insufficienza, verrà spinto a svalorizzare tutto e tutti nella illusoria soddisfazione di sentirsene superiore e migliore. Nel contempo sarà altresì condannato a dimostrare perennemente le proprie qualità eccelse che gli permettano di affrontare le situazioni problematiche della vita, che peraltro lo fanno sentire perennemente sull'orlo del fallimento, mettendolo così in un antagonismo irrisolto con il padre come referente adulto edipico. Egli è in tal modo condannato ad una perenne gelosia e rivalità, e per questo condannato nel contempo ad una vita vissuta all'insegna del sembiante (apparire piuttosto che essere). Ancorato al proprio sembiante, ovvero ad un'immagine di sè compiacente -ipertrofico ma fragile nel medesimo tempo-, e in continua fase di manipolazione dell'Altro nel tentativo strenuo e vano di soddisfare la sua immagine dell'Io. Impossibilitato a ricordare così come a dimenticare, confinato nel personaggio che non può scegliere, così come da bambino non ha scelto di liberare la madre dai soprusi subìti nella scena primaria per opera della violenza paterna, si vede costretto a rinunciare a crescere. Crescere infatti significa affermare la propria individualità e libertà di scelta permettendo anche all'Altro la facoltà di scegliere a sua volta. Ma se il bambino che c'è in lui (l'animale orientato verso i bisogni urgenti del suo corpo per raggiungere il piacere, che non ha conoscenza del buono e del cattivo, che non distingue ancora la realtà dall'illusione o dal fantasma persecutorio e che non sa scegliere se ribellarsi od obbedire resistendo all'immediata soddisfazione dei bisogni e controllando in maniera opportuna la propria aggressività), gli fa temere che la mamma lo stia trattando come un oggetto che le appartiene nel mentre il padre gli è ostile, quello stesso bambino, una volta adulto, non consentirà libertà nè scampo all'Oggetto del proprio amore e quest'ultimo non avrà altra scelta che sottomettersi. D'altronde, per definizione, l'Altro è stato scelto (dall'alto in basso), ed il manipolatore-ultrageloso, identificandosi nell'imago della Madre primitiva determinata a distruggerlo per eliminarlo dal triangolo edipico come Altro incomodo oppure determinata a modellarlo sull'immagine che essa ha di lui, nello scontro di volontà che teme, fa emergere da adulto tutto il suo narcisismo perverso, improntato sul dominio e fondato sull'ostilità crescente del mors tua vita mea (vorrei distruggerti prima di venire fagocitato da te quale mantide religiosa che rischia di fagocitarmi).
Nella prospettiva cognitiva in cui il soggetto è indotto a percepire le valutazioni interpersonali come negative ed ingiuste, scatterà la difesa del sentirsi vittima di una persecuzione e come tale dell'essere autorizzato al rifiutare ogni critica condannando anzi il persecutore che ne risulterebbe la fonte. (Non è colpa mia, ma è colpa dell'Altro).
Ciò che interessa qui è tracciare un'esamina di ciò che costituisce il quadro della gelosia patologica.
Patologia è appunto sinonimo di vulnerabilità come condizione che si viene a creare a séguito di unvulnus, inferto dalla rinuncia al mito del possesso esclusivo dell'oggetto d'amore: la madre.
La gelosia adulta, alimentata da queste dolorose esperienze primarie non estinte che risuonano come un'eco costante al fondo della coscienza, può dunque manifestarsi con tutta l'amplificata percezione dell'infedeltà di un amore che si sperava eterno ed esclusivo.
Quando essa è patologica diviene perciò un sentimento costante, più o meno intenso, dal carattere delirante, fondato cioè su convinzioni soggettive piuttosto che oggettive. E' basata su inferenze illusorie piuttosto che su prove circostanziali sufficienti, e ricorda il desiderio spietato di un neonato che nulla sa dei desideri e delle esigenze di sua madre, talchè prova esclusivamente bisogno e non già empatia, compassione e comprensione. Sentendosi inevitabilmente e perennemente sottomesso finisce con l'inglobare nel suo inconscio l'immagine della madre-strega.
Il geloso patologico è un essere monco, incompiuto, in stato di perenne dissociazione che, al fine di prescrivere e assolvere la propria inettitudine e rendere legittima ogni propria debolezza, dipendenza e paura, si autoincensa e autogiustifica in maniera del tutto opportunistica e furbesca, spostando fuori di sè ogni responsabilità anche a costo di spostare progressivamente fino ad azzerarlo, il confine tra finzione e realtà, incorrendo nel serio rischio di non riuscire più a distinguere l'una dall'altra.
Esiste come disturbo a sè stante - annoverato come delirio di gelosia - ed è classificato tra i disturbi deliranti, ma esiste anche come sintomo correlato in altre forme di psicopatologia: per esempio nell'etilismo cronico, o come disturbo affettivo nella Depressione Maggiore oltrechè nel Disturbo Paranoide di Personalità.
Ciò che interessa qui è forse maggiormente quest'ultimo, ma è identificabile anche nella Personalità narcisista o Disturbo narcisistico della personalità, nel carattere schizoide, nella sindrome borderline, nella psicosi, nella caratteropatia, nella modalità "as if" pseudo-normale (personalità "come se").
Poco importa l'inquadramento nosografico, ciò che importa qui è cercare di comprendere il fenomeno gelosia nelle sue forme "esagerate" e perciò deliranti, al fine di riconoscerlo soprattutto quando si sviluppi nell'albero delle psicosi, piuttosto che come ramo che cresca nell'albero delle nevrosi dove la percezione della sofferenza è linfa che non perde mai di vista la reale consistenza e qualità del terreno dal quale trae nutrimento.
Data la crescente diffusione del narcisista patologico, personalità intrigante di conquistatore di successo, spesso ben dotato intellettualmente e culturalmente, verboso incantatore, paradigmatico dongiovanni, inesausto cupìdo sotto le cui frecce è facile cadere avvedendosi di essere vittima delle sue manipolazioni di solito quando è ormai tardi per non aver dovuto pagare un prezzo assai alto in conseguenza alla propria dabbenaggine e a un malriposto senso materno, sarà proprio di quest'ultimo che tratteremo qui.
Il narcisista patologico è un partner molto pericoloso che, in virtù dell'alto livello di testosterone - ormone maschile per eccellenza che governa sia la sessualità che l'aggressività -, mette in atto comportamenti di conquista destinati al subitaneo successo, ma non alla durata del rapporto. Egli infatti è incline a trattare un'altra persona come un semplice oggetto della propria libidine. Poichè nei suoi tratti caratteriali, assieme a un atteggiamento manipolatore, egocentrico e vanesio vi è una ridotta capacità empatica, il narcisista tende a un rapporto Io-Esso anzichè ad un rapporto Io-Tu. Ma attenzione: egli è un abilissimo dissimulatore: costruisce il proprio Sè attraverso una costante performance di presentazione al pubblico secondo un'attenta scelta di maschere con le quali tende a rappresentarsi recitando se stesso come in una commedia in cui egli domina la scena ed è esente da critiche. E' un esperto commediante logorroico, incline all'autocommiserazione, alla pigrizia, al tergiversare (ci penserò domani), alla non-scelta (chi non fa non falla), al servilismo, alla menzogna cronica inversamente proporzionale alla quantità di parole, storie e bugie che riesce a emettere, incline alla lamentela, alla polemica, alla diffamazione e al tradimento.
Questi suoi tratti caratteriali ne fanno un mirabile affabulatore. Finchè si sente al centro delle attenzioni va tutto bene; la sua megalomania lo farà sentire al riparo delle credenze valutative di base, che pure albergano in lui, all'insegna del "povero-me" (non essere amabile, risultare svantaggiato, inferiore, insultato, disprezzato, tradito, trascurato, ..), e porterà la sua partner in palmo di mano, quando invece per qualunque motivo si senta minacciato di abbandono o trascuratezza e le supercompensazioni che avrà adottato si renderanno inefficaci, anzichè sentirsi inadeguato, si sentirà arrabbiato e indignato. La distorsione autotutelante gli farà credere che il nemico sia all'esterno ed egli attiverà, tra le altre difese, un'incontenibile gelosia : usque ad sanguinem.
Come incoercibili sono i costrutti mentali che accompagnano l'esperienza passionale abnorme e prolungata nel tempo, ove i confini del sè fagocitano ed inglobano per così dire i confini dell'Altro, così i contenuti ideici coatti di una vischiosità epilettoide tenderanno ad autoalimentarsi in una sorta di delirio lucido, eliminando progressivamente ogni feedback con la realtà, fino a tradursi sul piano comportamentale in agìti irrispettosi ed oltraggiosi (di stretto, soffocante controllo data la sua diffidenza), suscettibili di diventare all'improvviso dispotici e brutali nei confronti dell'Altro. Da questo momento potrà venir fuori tutta la sua pericolosità. Senza risonanza ed empatia c'è cinismo ed un partner siffatto non avrà scrupoli a picchiare, ad avere reazioni scomposte e violente, e a riservare per sè "spazi di libero movimento"in molteplici relazioni extraconiugali che accortamente guarderà bene di tenere celate anche a costo di negare l'evidenza. Con ogni probabilità finirà col perdersi in una spirale di segreti e bugie, ed infine, quando avrà terminato di infierire sull'ultima vittima, semprechè questa abbia fortuna, impiegherà un tempo minimo a passare alla successiva. L'ostilità di cui è permeato gli precluderà ogni relazione normale fondata sulla complementarietà e l'uguaglianza.
Ecco allora che da persona intenta al mantenimento di standards comportamentali e culturali socialmente accettabili, la mefistofelica creatura può trasformarsi tutt'a un tratto in una spaventevole creatura che "arrossa e disfavilla", facile preda dell'ira priva di discernimento. Un vero diavolo (dadiaballein, dividere, calunniare) che separa inesorabilmente le meschinità umane dall'uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, dopo aver separato la passione dalla razionalità nell'accecamento del suo stravedere e dopo aver fatto emergere il "male" sottostante al "bene" fragile ed inautentico.
Il geloso patologico con personalità egocentrica è in ultima analisi incapace di oblatività, dà il suo amore finchè ne trae il proprio tornaconto; è furbo, è capace di pensieri e d idee in una dimensione solo cosciente e alessitimica (per così dire anestetizzato nelle emozioni e nel sentire), è cattivo nel senso etimologico (da captivo-prigioniero del proprio stato d'animo e del proprio falso-sè), come se si sentisse condannato all'imperativo ovidiano del "video meliora proboque, deteriora sequor" (vedo il meglio e l'approvo, ma seguo il peggio), come "cattiva" è la vedova, nel dialetto siciliano, in quanto oppressa dallo stato d'animo del prigioniero.
Come nella nota tragedia shakespeariana, dove Desdemona dimostra tutta la sua cecità di fronte alla gelosia che sta sconvolgendo Otello a causa dell' immagine idealizzata che si è creata di lui e che le impedirà di difendersi, così la vittima del geloso patologico rischierà il più delle volte di non accorgersi del carattere inautentico dell'immagine esteriore del Grande Seduttore e Amante Ideale sotto il quale si nasconde e "cova" null'altro che un pericoloso manipolatore.
Vale la pena di ricordare che, nell'atto finale della tragedia, Otello, dopo aver ammazzato la persona che più amava (la sua Desdemona, la quale peraltro gli ha inopportunamente offerto di sè l'immagine della donna-madre soccorrevole e consolatoria), si dà la morte egli stesso, nell'intento di "morire su di un bacio" attraverso cui suggellare illusoriamente un'unione per sempre, in un estremo, definitivo ricongiungimento.
Per concludere: siate prudenti e possibilmente lontani dall'Amante vittima del "soul murder", da quell'adulto cioè che vi lasci presumere di avere ancora una ferita narcisistica aperta e insanabile da renderlo bisognoso di un attaccamento troppo esclusivo dove non ci sia il necessario rispetto della reciproca autonomia.
L'amore presuppone fiducia (non diffidenza) e la fiducia richiede per sua definizione reciprocità avendo sempre bisogno di essere: bilaterale, sincrono e simmetrico.

venerdì 4 marzo 2011

Amare un manipolatore: ovvero dalle stelle all'inferno


Innamorarsi di un manipolatore può essere all'inizio un'esperienza travolgente, appassionante, che ti fa sentire vicina al conquistarti un posto in prima fila nell'Empireo. Quasi senza avvedertene ti trovi però a precipitare in un gorgo scuro di segreti e bugie, progressivamente sempre più scomoda e confusa...
E' un amore tossico e come tale avvelena la vita.
Chi è costui? E' possibile tracciarne un profilo? Questo articolo tenterà di rispondere a questi due quesiti.

Il narcisista-manipolatore (userò indistintamente l'uno o l'altro dei termini) tende a lanciare una sfida irresistibile: la sfida dei paradossi.
Ci seduce offrendo il meglio di sè e nel contempo, per quanto inizialmente "a spizzichi e bocconi", un assaggio del suo peggio (le parti più fragili di sè) di cui "umilmente" sembra dispiacersi. Ci mette alla prova.
Ci affascina con le sue doti intellettuali e di affabulatore, con momenti imprevedibili di romanticismo e di outing sapientemente alternati a momenti in cui emerge purtuttavia lo scarso equilibrio, con eventuali attacchi di collera (rivolti però all'esterno della coppia in modo che appaiano giustificabili se non giustificati) in cui confesserà tutta la sua dipendenza, il disperato bisogno di comprensione e di accoglienza, istigando la nostra commiserazione e il maternage.
Un tale tipo di uomo solleciterà l'istinto di cura materna soprattutto in quel tipo di donna troppo disponibile e indulgente che, sotto sotto, ha poca stima di sè ed è avvezza a controllare il caos (di una famiglia originaria disturbata ove abbiano regnato disfunzioni) nella convinzione illusoria che il costante sacrificio nell'attesa (della "riparazione" dell'oggetto d'amore) verrà alfine premiato: il risarcimento sarà l'Amore.
Il premio sarà riuscire ad essere amate...amando (meglio se soccorrevolmente ed a qualunque costo).
Ma amando troppo e troppo pervicacemente, ad onta della realtà di un uomo che sente il bisogno di dominare la propria partner costringendola in un rapporto di sudditanza sempre più stretto, pressante e manipolatorio, la donna finirà con l'essere vittima sempre più accerchiata, vessata e isolata fino allo sfinimento o ...alla fuga.
Il comportamento di un siffatto uomo è, a ben guardare, un comportamento perverso ,fondato sull'inazione e sulla rinuncia, per cui tutto ciò che succede deve succedere per la promozione e per responsabilità dell'Altro.
Incapace di autocritica. Non si vede. Come Narciso, allo sguardo dell'Altro come superficie specchiante in grado di rimandargli un'immagine di sè eventualmente riveduta e corretta, preferisce la superficie ferma dello stagno che ne rifletta un doppio fedele ai propri stereotipi.
Difende strenuamente il proprio Io (l'imago di come pretenderebbe di esser visto nel folle tentativo di ricavarne la percezione di sè come di un essere perfetto: io-dio) utilizzando massivamente meccanismi di difesa quali la proiezione e la negazione, grazie ai quali interpreta e mistifica la realtà trasformandola in maniera capziosa e funzionale alle sue deliranti esigenze. Egli è abile come nessun altro nel respingere "fuori di sè" ogni critica. E' insuperabile nell'arte del camuffamento, della mimesi, del "tirarsi fuori"o nell'agire-a-coté. E' maestro nel "ribaltare la frittata". Per sè trova sempre mille giustificazioni e sa venderle come plausibili.
Ribalta i ruoli, capovolge le situazioni con sconcertante maestrìa; ti spiazza e poi ha buon gioco nel farti sentire inadeguata, in difetto e colpevole.
Il manipolatore è un fulgido esempio di millantatore egocentrico.
Mantiene la sua posizione di leadership spendendo la propria supposta onnipotenza nell'esercizio della seduzione senza scrupoli.
Non dice mai di no, a parole non si tira mai indietro, fingendosi generoso. Ma generoso non è chi chi si finge altruista accogliendo qualunque richiesta e offrendosi di intervenire persino a posteriori ("se lo avessi chiesto a me ..."); altruista è chi si dà pena operativamente per mantenere la promessa data.
Pressappochista, disordinato, ha scarso senso del tempo ("ci penserò domani", e intanto ..tempus fugit) e della concretezza; promette senza verificare se potrà tenere fede alle profferte, anche grandiose, con le quali si è sbilanciato.
E' un abile ragno, paziente e geometricamente accorto nel tessere la sua sottile, invisibile, ineludibile, micidiale tela. Procede in maniera lenta e graduale, invischiando la sua preda giorno dopo giorno ma inesorabilmente finchè questa, confusa-spersonalizzata-paralizzata, finisce nella più totale sudditanza psicologica.
Il borderline (anche questo è un sinonimo, per quanto più tecnico, come potrebbero esserlo carattere schizoide, personalità dissociata paranoide, ecc.) soffre di "disfunzione cognitiva", vale a dire che percepisce e interpreta la realtà in modo alterato, difforme a come questa si presenta. A suo uso e consumo (tende ad accentrare tutto intorno al suo ego) la riscrive, senza avvedersi delle deformazioni e distorsioni effettuate.
I propri "difetti", insopportabili da ascrivere a se stesso (dato il bisogno supercompensatorio di sentirsi pressocchè infallibile e onnipotente), vengono proiettati sull'Altro che, ad onta di ciò che fa o dice anche con la migliore benevolenza, diventa così il nemico.
Non è mai colpevole, mai responsabile, il colpevole è sempre l'Altro. Può capitare di intercettare qualche "segnale"di disturbo della personalità pregresso. Se per es. vi sia stato confidato che il vostro lui (unico figlio maschio, residente lontano dalla Lombardia) all'età di 5 anni, di fronte alla madre intenta a sgridarlo, si fosse scagionato con le braccina alzate in segno di resa dichiarando: "non sono stato io, è stato il mio fratello di Milano!", beh...tenetene conto. Se poi veniste a sapere che il suddetto escamotage veniva da lui utilizzato reiteratamente, e con successo, per evitare di ammettere la propria responsabilità in ciò di cui veniva accusato, fareste bene ad allarmarvi.

-Formidabile adulatore, è attratto dalla vulnerabilità della partner
Ha buon gioco perchè non conosce limiti all'esagerazione e alla mitomania (se vi affiderete a lui, tutto sarà possibile; lui è il vostro Principe Azzurro e, se accetterete di essere la sua Regina, lui vi salverà. Ma dovrete guardare a lui con il massimo della vostra attenzione ammirata, avendo cura di farlo sentire sempre "al centro"). Siete sicure di voler stare a questo gioco, ma soprattutto di poter stare a questo gioco? E ancora, pensate che il gioco valga la candela ?!

-Vi sembrerà romantico e capace di un cuore tenero
perchè è facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità. Potrete riconoscergli una particolare attitudine a mutare in fretta i suoi stati d'animo (dal pianto alla repentina consolazione e viceversa), ma si rivelerà refrattario a riconoscere la vostra sofferenza. Tenete presente che pretenderà di mantenere in ogni caso il primato anche nella malattia e nella sofferenza. Vi capiterà con l'andar del tempo di riconoscergli uno sguardo freddo e raggelante, privo di emozioni. Potrebbe essere il preludio ad una esplosione di rabbia funesta e pericolosa.
In quei frangenti vi accorgerete dell'assoluta e inusitata arbitrarietà delle parole, vittime innocenti ed impotenti della sua capacità di manometterle nel loro significato. Lui sarà capace di stravolgerle all'insegna del sembiante. Le vostre parole non significheranno più ciò che intendevate.

-E' egocentrico e vile. E' sempre in competizione e "pretende di star sopra come l'olio"
In fase di innamoramento la vostra ammirazione sarà così grande che farete fatica ad accorgervene.
Interrogatevi se potrete notare che, soprattutto in presenza di terzi, tenderà ad accentrare le attenzioni. Nelle discussioni tenderà a non lasciarvi voce e finirà col monopolizzare il discorso su temi scelti da lui. L'altrui opinione, e segnatamente la vostra, conteranno poco o nulla.
Poichè tende a plagiare, non accetterà opinioni diverse dalla propria. Non ascolta, parla. Più che parlare pontifica, spesso, vigliaccamente, su temi in cui solo lui è competente. Nella fase del dopo-conquista, vi avrà talmente soggiogata che si permetterà di mancarvi di rispetto sempre più fino ad essere brutale e sarcastico (non ironico!) e a spiazzarvi con affermazioni bugiarde e distorcenti che avranno l'intento di farvi apparire visionaria, bugiarda e mitomane o semplicemente esagerata, teatralmente imprecisa e comunque poco aderente alla realtà dei fatti. Si fa beffe delle vostre opinioni e del vostro stato d'animo, di fatto vi umilia o vi denigra.
Al massimo, in fase di conquista, poichè si fa bello nel potervi esibire, vi lascerà spazio solo se vi comporterete in qualche modo come un' eco rafforzativa delle sue affermazioni (ricordate Eco, la ninfa che si innamorò di Narciso nel celebre mito?).
Se oserete obiettare vi pianterà il muso e vi umilierà con la diffamazione o con una sequela di improperi. La sua è infermità emozionale.

-Tutto deve partire da lui stesso, anche il desiderio del sesso
Non rispettare i vostri tempi e il vostro desiderio è un segnale premonitore che allude ad una mancanza di rispetto di fondo, suscettibile di degenerare in una permanente querelle (non mi ami abbastanza, mi tradisci, sei frigida, hai dei problemi, ecc..) fino alla violenza.

-Rifiuta ostinatamente la responsabilità e, ancorpiù, la colpa.
Tende alla deresponsabilizzazione, perciò non sceglie mai e manda avanti voi affinchè siate voi ad esporvi e qualunque cosa in seguito abbiate scelto, corrisponderà ad una scelta che lui avrebbe operato diversamente e, potete giurarci, assai meglio.
Nel quotidiano, se qualcosa gli va storto, osserverete che con i più insostenibili bizantinismi, addosserà la colpa sempre e comunque a voi che vi troverete ad incarnare sempre più spesso il ruolo di capro espiatorio, di pungingball della famiglia.

-Ha un atteggiamento negativo verso le donne.
Di fondo è un misogino, ma farà di tutto per camuffare il suo atteggiamento negativo verso le donne, per esempio vantandosi scherzosamente (state accorte se fosse un leit-motive ossessivo) di essere il Presidente Onorario dell'Associazione Maschilista Internazionalista Enrico VIII.
Indulge con dovizia nell'utilizzo di stereotipi maschili sulle donne con la stessa facilità con cui, alternativamente, vi farà credere tutta la sua ammirazione e il suo rispetto per il genere femminile o, meglio, per Voi in quanto migliori di tutte le precedenti donne della sua vita. Il suo metodo è la lusinga, ma cade nella contraddizione (predica bene e razzola male) e nell'incoerenza (dice una cosa e ne fa un'altra).

-E' pervaso dalla fretta di reificare la sua vittima .
Vi tramuta il più rapidamente possibile in un suo possesso una "cosa "sua . All'inizio non si scopre, l'incantamento deve essere massimo; quando tuttavia si sente sicuro di aver fatto di voi una "cosa sua", al chiuso delle mura domestiche dismettendo ogni prudenza e consentendosi di gettare l'inutile maschera, se in collera, usa il ricatto dell'intimidazione fino alla violenza psicologica e verbale prima che fisica. Prima o poi il suo volto demoniaco vi si profilerà davanti in tutta la sua paralizzante incombenza. Caduta la maschera della faccia pulita, quando il suo corpo si facesse rigido, con un sorriso rigido stereotipato e sardonico, lo sguardo torbido e accigliato, aspettatevi uno scoppio d'ira, perciò non provocatelo, non parlategli (gli sembrerà comunque che vogliate entrare in polemica). In quel frangente è asservito ad un tirannico padrone interiore che lo priva della facoltà di intendere e di volere, può perdere l'autocontrollo, ha il diavolo in corpo. (Diavolo-da diaballein- è dividere ma anche calunniare e diabolos è colui che separa l'uomo da Dio inteso come infinita bontà e Amore ).

-Quando siete in compagnia , il suo comportamento con voi è pressocchè ineccepibile.
In presenza di altre persone vi usa il massimo del rispetto, casomai apparirebbe lui come vittima, nel caso voi osaste fare la risentita o cercare comprensione e alleanza nei presenti, riservando i propri comportamenti violenti a quando sarete soli e non ci saranno testimoni.

- Tende a controllarvi e a controllare tutto. E' lui il leader anche nella coppia.
All'inizio della relazione vi stupirà con effetti speciali. Vi circuirà con piccole attenzioni utili e piacevoli (aprivi lo sportello dell'automobile dalla parte del passeggero), si rivelerà provvidenziale e comodo nel volersi far carico di tutto, anche degli aspetti finanziari. Attenzione: è il suo bisogno di controllare tutto per esautorarvi progressivamente di ogni autonomia. Vi darà suggerimenti di finanza, ma è difficile che vi conceda di accendere un conto corrente comune, a meno che non abbia in mente per esempio di attingervi più abbondantemente di quanto facciate voi riservandosi nel contempo un suo proprio c/c al quale voi tuttavia non avrete mai in alcun modo accesso. Vorrà suggerirvi come abbigliarvi, come muovervi, chi frequentare (potreste ben presto trovarvi costrette a mollare le vostre amicizie a favore di quelle di lui, metterà zizzania tra voi e i vostri parenti insinuando osservazioni negative...), potrebbe incoraggiarvi ad appoggiarvi a lui economicamente spingendovi a licenziarvi. Man mano arriverà a plagiarvi senza che nemmeno ve ne accorgiate.
Potrebbe sembrarvi un sollievo poter delegare a lui e scoprirlo tanto efficiente.

-E' possessivo, intrusivo e geloso: vi controlla.
Telefona spesso, per motivi insignificanti. Vi fa credere di aver bisogno di tenersi costantemente in contatto chè vi pensa di continuo, ecc. In verità vi tiene sotto controllo (dove siete, con chi, che cosa state facendo...). Insisterà perchè trascorriate quanto più tempo vi è possibile vicino a lui. Con tutta probabilità, appena conosciuti, vi avrà chiesto tutto della vostra vita sessuale e affettiva passata.
Con l'andare del tempo vi farà sentire il suo fiato sul collo, esigendo il sacrificio di ogni vostro spazio di libero movimento e di ogni vostro ritaglio di tempo, per consolidare il suo compulsivo bisogno di controllo. (Potrebbe financo risentirsi, e non poco, se vi vedesse intente a ricamare, a lavorare a maglia o all'uncinetto in un tempo sperperato ed inutile come tutto il tempo che non gli sia personalmente dedicato quando lui vi sia vicino).
Poichè manca di fiducia in se stesso e si sente scarsamente competitivo con gli altri maschi, vi pretende tutta per sè, e sta bene attento che non vi mettiate nella condizione di brillare di luce propria. Potrete brillare solo quando vi metteste in luce come un suo trofeo.
Vi esibisce volentieri nella vostra qualità di amanti, protette e cheerleader del maschio-alfa, ma riserva per sè solo certi ambienti, situazioni e frequentazioni; in quei casi il vostro ruolo è quello di Cenerentola, accanto alla cenere del camino, e vi esclude. Rischierete di trascorrere troppo tempo "en attendent Godot".

-E' cangiante come uno Zelig.
Soprattutto all'esterno, si cela sotto la maschera di volta in volta scelta come la più opportuna. (Per es.di fronte a un prelato si dichiarerebbe credente, osservante e praticante anche nel caso si fosse precedentemente presentato a voi come ateo e mangiapreti...).

-La sua generosità vi mette a disagio perchè vi fa sentire in debito.
Vi offre regali che non corrispondono ai vostri desiderata e vi rende dei servigi senza chiedervi il parere in maniera tale che finiate col sentirvi in debito nei suoi confronti.(per es. potrebbe farvi la sorpresa di aver sostituito la vostra fedelissima adorata automobile con un'altra di tutt'altro genere confacente alle sue esigenze - più adatta per esempio ad essere usata da lui quando lui avesse bisogno di sostituire la propria ferma in riparazione e, statene tranquille, in quell'occasione trascurerà di valutare che a voi serve, la pretenderà e basta nel mentre voi rimarrete a piedi).

-Non applica a se stesso lo stesso metro che adopera per gli altri.
Quod licet Iovi non licet bovi. Quel che è lecito a lui stesso, non è lecito agli altri, meno che mai a voi: non preavvisarvi mai della sua assenza ai pasti, dei suoi rientri dal lavoro (potrà arrivare a casa con ore e con l'andar del tempo anche con giorni di ritardo, avrà sempre delle "buone" giustificazioni). Ma provate ad essere voi quella scorretta, provate ad essere voi in ritardo! Lo potreste vedere trasfigurarsi andando su tutte le furie. Le sue necessità sono sempre insindacabili, le vostre, quantunque davvero rare e occasionali, saranno sempre capziose e inaccettabili. Troppo elastico con se stesso, per niente elastico con l'Altro.
Osservatelo, per esempio, alla guida: lo vedrete massimamente collerico, intollerante ed ipercritico nei confronti di una condotta di guida altrui meno che perfetta, nel mentre a lui è concesso ogni sgarro, anche il più imperdonabile e plateale. Per sè ha sempre una ottima giustificazione anche quando abbia trasgredito i più ovvi dettami del Codice della Strada, del Codice Civile e financo di quello Penale.

-Spesso fa uso smodato del rischio (perchè trascura di considerarlo)
Fa uso smodato di alcol, di droga o dell'azzardo. Il suo Io ipertrofico lo fa sentire esente dalle conseguenze anche le più oggettivamente e probabilmente catastrofiche. Si sente pressocchè immune dalle conseguenze di una sua condotta trasgressiva che anzi lo solletica e che tende a praticare con finta innocenza nel più totale spregio dei diritti altrui. Tanto a lui è concesso tutto.

Alla fine il vostro spaesamento sarà infinitamente grande. Quando avrete perso l'orientamento perchè niente sarà come sembra, verrà il momento che lui avrà la percezione di poter essere abbandonato, avrà paura di perdervi. A quel punto sarà animato da una pulsione più che mai distruttiva: muoia Sansone con tutti i filistei! Se avrete una figlia sarà con lei più che mai seduttivo, cercherà di conquistarla alienandovela. E' conquista per il possesso. E' possesso travestito da amore.
A quel punto, quando gli sarà riuscito di spoliarvi della vostra lucidità, della vostra autonomia, delle vostre risorse e dei vostri mezzi (perchè no, anche economici) tenterà con tutti i mezzi di distruggervi.
Non lasciatevi intrappolare. La sua strategia consiste nell'operare abilmente, al fine di indurvi ad alzare progressivamente il vostro personale livello di resistenza al dolore. Non immolatevi fino al martirio, mettere lo stop spetta a voi.
Amare, a-mors (alfa-privativo + morte), è possibile paradossalmente a patto di non temere l'abbandono quale sinonimo di morte, nè la sua rappresentazione metaforica denominata non per caso petit-mort (la "piccola-morte"orgasmica). E' per questo che riuscire a farsi amare da chi sia impossibilitato ad abbandonarsi all'altro temendo di perdersi, risulta impossibile.
L'amore è d'altronde, per definizione: biunivoco, sincrono e simmetrico. Non può essere sbilanciato e non può fondarsi su un rapporto di sudditanza e relativa dominanza!
Un'ebrea, sopravvissuta alla persecuzione nazista e al campo di sterminio, intervistata qualche tempo fa, con una simpatica e coraggiosa autoironia, ricordò una filastrocca della sua infanzia : "Hai paura dell'Uomo Nero? Che follia, se arriva filo via!"