sabato 27 aprile 2013

L'uomo è ciò che mangia

La massima del filosofo Feuerbach, l'uomo è ciò che mangia, intende porre l'accento sull'importanza di considerare che tutto ciò che l'essere umano ingurgita, cibo e liquidi, è di primaria importanza, costituendo il carburante che consente lo sviluppo e la propulsione di quella che è la macchina del corpo non disgiunta, beninteso, da quella che è la mente. Tale massima è ricca di significati. Significa che il cosa si mangia fa l'uomo ricco o povero, forte o debole, intelligente o carenziato, ben nutrito e quindi in salute oppure malnutrito e soggetto a malattie, ecc., ma implica anche che l'uomo è come mangia , da solo, in compagnia, con foga o parsimonia, di fretta o con il gusto della lentezza, nel rispetto o nello spregio dell'ambiente e dei viventi, nella consapevolezza o cecità che ciò che è buono da mangiare non coincide, spesso, con ciò che è buono da vendere, ecc.
Il cosa mangiare dipende dalla densità demografica, dalla disponibilità di cibo, o di certi cibi, dipende anche dalle tradizioni culturali e alimentari, dalla peculiarità e dalla predominanza di certi prodotti relativi ad una determinata area geografica, ma anche dalle strategie di allevatori, politici e compagnie multinazionali che vedono nel cibo un profitto più che un nutrimento; può inoltre dipendere dall'osservanza di precetti religiosi o da particolari tabù, ma è sicuramente relativo anche ad una scelta individuale consapevole che prescinde dall'offerta o dai costumi alimentari dominanti.
Tenere una dieta vegetariana, ad esempio, può dipendere da modelli alimentari di popolazioni scarsamente sviluppate (economie eminentemente agricole ma anche soggette a situazioni di restrizione, povertà o carestia); può dipendere più genericamente da fattori culturali e religiosi (buddhismo, brahmanesimo, ecc.), oppure dalla libera scelta di chi non desideri partecipare alle sofferenze e all'eccidio di animali allevati in segregazione a scopo esclusivamente alimentare e sia consapevole dell'antieconomicità dell'allevamento di proteine animali rispetto a quelle vegetali, anche in considerazione allo spreco di acqua, bene essenziale di cui siamo e stiamo diventando sempre più drammaticamente carenti. Analogamente, anche la dieta carnea degli Americani, appassionati di barbecue e fast-food, dipende da fattori culturali antichi, retaggio di una tradizione in cui i bovini erano "il salario", l'unità di scambio e dunque simbolo di ricchezza e potere in un continente vasto dove c'erano pascoli in abbondanza, e fattori economici più recenti, fattori che fecero del maiale e del pollo animali più remunerativi da allevare (i maiali ripulivano e le coltivazioni di patata e le grandi piantagioni di mais della Virginia dai residui rimasti sotto e sopra la terra, mentre i polli, si prestavano e si prestano sempre più, come superpolli, ad allevamenti superveloci grazie ai mangimi composti in cui, oltre a granaglie proteiniche come la soia, entra anche la farina di pesce insieme a cocktails di vitamine, ormoni e antibiotici).
Naturalmente non è detto che l'orgia dei carnivori in terra americana non possa rivelarsi altrettanto transitoria quale fu quella dell'India vedica, ora che la cementificazione e la densità di popolazione, in costante aumento, riducono progressivamente le aree agricole, ora che anche il mais e altre coltivazioni sono destinate alla produzione di biocarburanti.
Si può dire che "il cibo fa l'uomo" o che "l'uomo è il suo cibo" non solo in relazione alla qualità e quantità dei nutrienti contenuti nello stesso, ma anche in relazione alla possibilità della dieta di influire nel "fare anima". La condotta alimentare infatti, presumendo comunque una scelta, perlomeno quando non vi siano situazioni di carestia o particolari patologie, è influenzata dai condizionamenti ambientali, dall'organizzazione sociale, dal periodo storico, dalla densità demografica, dalla latitudine, ecc., ma possiamo anche dire che, viceversa, è capace di influenzare, a sua volta, i comportamenti individuali e sociali, le coscienze e persino l'economia.
Mi piace ricordare, (mi rassicura anche), il poeta Ovidio che nelle sue Metamorfosi disapprovava il consumo di carne, Leonardo da Vinci, convinto vegetariano che sperava venisse il giorno in cui la vita di un animale sarebbe stata considerata ugualmente degna di quella umana, e San Francesco che si adoperò in ogni modo per proteggere la vita di ogni animale ancorchè piccolo come l'allodola. Tutti e tre erano vegetariani, esempio, ciascuno, di unione con la natura, di integrità riconquistata, davvero alla portata di tutti.
Il cibo influenza dunque, più in generale, il corpo e la mente, ma anche l'economia e l'organizzazione sociale.

Esiste dunque coincidenza tra essere e mangiare. Siamo in quanto mangiamo, edo ergo sum, se non ci nutrissimo non saremmo, e quel che siamo, nel corpo e nella mente, nelle cellule e nello spirito, nel vivere sociale, lo dobbiamo anche a ciò che scegliamo per nutrirci e a come scegliamo di nutrirci.
Non dubito, per esempio, che una maggiore consapevolezza di quello che è un profondo difetto di sistema, che potremmo identificare nella gestione finanziaria dei futures, ovvero degli investimenti mediante i quali le aziende finanziarie regolano il mercato delle sementi e dei cibi speculando e traendone enormi profitti, porterebbe ad una migliore distribuzione del cibo, all'insegna di una maggiore equità e ragionevolezza.
Si rende necessario altresì un cambio di rotta nella cultura alimentare; non è infatti più possibile scotomizzare i vistosi paradossi di cui gran parte della popolazione mondiale è vittima, per cui nel mondo, allo stato attuale, si verificano 36 milioni di decessi annui per carenza di nutrizione e, nel contempo, 29 milioni di decessi per eccesso di cibo, per cui un miliardo di persone stanno per morire di fame mentre altrettanti hanno eccedenza di prodotti consumati tanto che 1/3 di questi finiscono scartati nella spazzatura.
Un cambiamento culturale più che mai opportuno dovrebbe altresì farci porre maggiore attenzione alla qualità dei cibi ("mangiare meno, mangiare meglio" dovrebbe essere il motto) e dovrebbe indurci a ritrovare il giusto orgoglio, o come minimo un maggior rispetto, nei confronti del mestiere del contadino o, se proprio vogliamo, del coltivatore. Non dev'essere un caso che Michelle Obama, di là dall'Oceano, si sia tanto impegnata in una campagna alimentare contro il cibo-spazzatura ed abbia faticosamente ripristinato l'orto presso la Casa Bianca, conseguendo, peraltro in un tempo breve, alcuni incoraggianti successi quantomeno a titolo di esempio.

Non va dimenticato che l'incorporamento orale nutre anche l'affettività. Veicolato primariamente dal seno materno, esso ci nutre non solo di latte, ma anche di quel miele metaforico che è costituito dalla dolcezza, dalla tenerezza, dal calore protettivo, dall'appagamento della totalità dei bisogni primari, ivi compresi quelli di attaccamento e protezione. Quando l'insicurezza circa la propria identità ed esistenza tramuta il cibarsi da quella cosa che garantisce la salute del corpo a quel comportamento umano il più carico di simbolismi e valenze cui si associano le emozioni e l'affettività, nasce il disturbo alimentare (la bulimia e l'anoressia ne sono due esempi vistosi). Col cibo si combatte il vissuto di esclusione sociale, si combatte l'angoscia del niente e si tenta di riparare il vuoto esistenziale. Mangio, dunque sono. Mangio, quindi esisto. Esisto male, mangio male. Mangio male, esisto male.
Mangiare troppo, compulsivamente, cercando le sensazioni violente, intense, primitive e selvagge di riempirsi di sostanza e carnalità in un delirio di soddisfazione per quanto momentanea, o troppo poco, in una strenua lotta sul filo del rasoio tra la vita e la morte, tra l'essere e il non essere più, mettendo alla prova se stessi in maniera continuata, ripetitiva e ossessiva, sono facce della stessa medaglia. L'intento sembra, in tutti e due i casi, quello di salvare in qualche modo e l'identità e la possibilità di sentirsi accettati anche nella fragilità di un corpo dismorfico.
In uno scenario non più individuale ma collettivo si può osservare che "il mangiare" è diventato, come si diceva, un problema, anche nell'opulento mondo occidentale. Si tende a comperare ciò che conviene economicamente a discapito della qualità, non si dà valore al cibo quanto se ne dà agli oggetti propagandati dalla società consumistica dei quali, a ben guardare, non abbiamo altrettanta necessità, oppure non si considera, per esempio, che un chilodi pasta asciutta, alimento-base non soltanto nella dieta mediterranea, costa come, o meno, di una tazzina di caffè al bar.

L'incorporamento orale nutre anche lo spirito. Nell'eucaristia, l'incorporazione del "corpo" di Cristo (sangue e carne) simbolicamente racchiuso nell'ostia, diviene maniera di ospitare dentro di noi il figlio di quel Dio di cui siamo fatti a immagine e somiglianza; assumiamo questo cibo in una condivisione collettiva, nella comunione appunto, perchè il cibo è unione. Come disse E. M. Foster, gli eventi principali della vita di un essere umano sono cinque: nascere, mangiare, dormire, amare, morire. Mangiare e amare, però sono quelli che più ci avvicinano gli uni agli altri e che più si avvicinano tra loro. Il cibo, oggetto di scambio per eccellenza fin dal principio, non solo tra il neonato e sua madre, rappresenta un veicolo di interazione privilegiato per tutto l'arco della vita proprio perchè continua ad essere quel denominatore comune vitale che consente la relazione, la conoscenza e la vicinanza e la fiducia nei legami sociali.
Mangiare è sostantivo e verbo. "Questo mangiare fa schifo", "non mi va più di mangiare", "troppo mangiare ingrassa", "ti mangerei di baci", sono espressioni comuni nelle quali utilizziamo la parola "mangiare" in entrambi le forme e nelle sue diverse accezioni di nutrimento concreto e simbolico, quale "carburante" per le funzioni corporee ed elemento affettivo per le funzioni psichiche.
Quando diciamo "il sole mangia le ore" usiamo invece una metafora di incorporazione distruttiva, laddove il tempo, fagocitando ciò che esso stesso genera, le ore, le incorpora e al tempo stesso le distrugge, come Chronos ( il tempo, appunto) i suoi stessi figli, e ciò facendo si assicura, per dir così, l'immortalità ovvero l'eternità.
Ma noi che siamo mortali, non nutrendoci di frazioni infinite di tempo, non possiamo né incorporarle a scopo distruttivo, né tesaurizzarle, abbiamo bisogno di incorporare cibo "buono da mangiare", come direbbe Marvin Harris e "buono da pensare", come direbbe Claude Lévi-Strauss, abbiamo cioè bisogno di un cibo che sia buono al palato, buono dal punto di vista nutrizionale e buono dal punto di vista etico, buono per la mente perchè corrispondente al bene per noi stessi e, nel contempo, per i nostri simili.
Poichè noi siamo animali sociali, il bene è anche e soprattutto bene sociale. Potremmo allora dire che se l'uomo è ciò che mangia, e mangia bene, l'uomo sta bene con se stesso e con gli altri, riconosce la gioia, ed essendo portato per sua natura a condividerla, gli sarà più facile essere buono. Se gli riuscirà di essere buono, non avido, non sfrenatamente individualista, e bello nel corpo perchè una sana alimentazione consente questo, finirà anche col sentirsi bravo, ovvero accettato e premiato socialmente. Non è questo forse il modo per conoscere il ben-essere, la soddisfazione, la gioia?
Di questi tempi, tempi in cui il mondo intero ha diffusamente gioito per l'elezione di un Capo Spirituale che si è scelto il nome del Poverello d'Assisi e che ha riconosciuto gli animali anch'essi come figli di Dio, è possibile sperare in un nuovo corso ove l'unione con la Natura tutta, nel rispetto dei viventi, animali compresi, sia non solo desiderabile, ma di nuovo possibile, ove l'eco della filosofia di Henry David Thoreau e del suo "Walden", cosiccome l'eco della spiritualità orientale e della tradizione cristiana primitiva, tornino a risuonare nelle nostre orecchie. Perchè, fino a prova contraria, è la natura che dà da mangiare a noi che ne siamo i figli.

Non sarebbe male rispolverare la memoria di una celebre storia dei Nativi Americani che narra del trasferimento culturale-pedagogico, dell'insegnamento di vita, di un vecchio Cherokee ai suoi nipoti. Il saggio raccontava di sentire in atto dentro di sè un'antico combattimento come tra due lupi di diverso carattere: uno impaurito, feroce, rabbioso, collerico, avido ed egoista, l'altro amorevole, compassionevole, generoso, empatico e gioioso. La stessa battaglia è in atto dentro a ciascuno di voi, disse, come è dentro ad ogni altra persona. "Chi vincerà tra i due lupi?", chiesero i giovanetti. "Quello a cui darai da mangiare", rispose.
Se vogliamo che la Natura, la nostra Madre Terra, continui a darci da mangiare, garantendoci sopravvivenza e ben-essere, dobbiamo aver cura di non isterilirla, preservandola e avendone cura come fosse il nostro corpo, questo stesso corpo fatto della stessa materia del nutrimento che ci affratella tutti. Diceva Edoardo Galeano che nessuno morirà di fame finchè nessuno morirà d'indigestione.

domenica 31 marzo 2013

En attendent le printemps


                                                EN ATTENDENT LE PRINTEMPS

Vado spiando i profumi
Tra l'azzurro e
i bagliori di lamiera,
tra i residui opachi
di immote pozze, certa
dello stupore di una primula
mentre il narciso si cela.

Acquerello


ACQUERELLO



Saltelli snelli di cince allegre.
Allegre ciance da caffetteria.
Improvvisi frulli.
Lieti trilli e
infaticabili grilli.
Lo sbattere ritmico dei panni stesi
ormai arresi
alla furia del mastello.
Vibrar di foglie.
Cicalecci alle soglie.
Sommesso rotolar di tuoni.
Inesausti calabroni.
Lépidi guizzi di sauri
tra ciottoli tiepidi.
Tessiture fini,
intrise d'acqua,
di aracnidi torpide.
Residui bagnati
di limacce torbide.
Un serico lepidottero ad ali distese
riposa
lontano da un cumulo fumigante,
timido.
Nel prato brulicante di vita
smaglianti ricacci
sovrastano
l'erba appassita e
si offrono al sole
tra viole odorose.

sabato 9 marzo 2013

FEMMINICIDIO (e dintorni)


Il femminicidio, fenomeno drammatico cui si assiste in maniera sempre più preoccupante e diffusa anche il Italia, è un omicidio di genere (di persona di genere femminile da parte di persona di genere maschile). Si concretizza nell'uccisione di persona di sesso femminile da parte di un partner o di un ex-partner. Rappresenta l' estrema conseguenza delle forme di violenza pregressa e reiterata nei confronti della donna vissuta come oggetto d'appartenenza da parte "del suo maschio proprietario" come lo ha definito Massimo Gramellini, dopo un costante lavorìo di erosione continua della sua dignità di persona attraverso il tentativo di negarne la piena espressione della personalità femminile.
Il femminicidio è un fenomeno diffuso nel mondo, ove più ove meno, e costituisce la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 70 anni. Tra i Paesi Europei è in consistente declino in Spagna dopo che, di recente, si è provveduto ad arginarlo in maniera opportuna, adeguata e sostanziale. Non così in Italia, dove le statistiche testimoniano che, al contrario, non si registra alcuna decrescita, ma anzi un sensibile aumento. Da noi è e resta una tragedia nazionale, dal momento che vi si registra almeno una vittima ogni due-tre giorni (parliamo di un totale di 137 nel corso del 2011 contro le 61 della Spagna). Una vera e propria piaga, di proporzioni così spropositate e indegne per un Paese civile, da aver indotto il Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU , riunitosi a Ginevra il 25/6/2012, ad intervenire con una precisa Dichiarazione nei confronti del nostro Paese.
Lo ha fatto stilando un documento in cui si dichiara che esso costituisce "un crimine di Stato tollerato dalle istituzioni pubbliche" proprio perchè vi ha ravvisato un preciso e diretto rapporto tra la violenza sulle donne e la complicità e le omissioni dello Stato che, nell'espressione delle sue Istituzioni e nel quadro di una politica perlopiù assente, non si dà abbastanza da fare per frenare la strage.
La recente legge sullo stalking, seppure quantomai opportuna e utile, non serve a prevenire e reprimere il fenomeno in oggetto; da sola non si è rivelata minimamente in grado di arginare la violenza domestica nè tantomeno di diminuire il numero di questo genere di omicidi.
In Italia dunque il problema resta grave. In quanto crimine di Stato tollerato dalle Istituzioni per la loro incapacità a prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne costrette a vivere durante l'arco della loro vita diverse forme di discriminazione e violenza, risolverlo è un obbligo internazionale.

Ciò che si invoca è una maggiore parità di genere, la prevenzione e protezione delle vittime e la punizione dei colpevoli.

Guardiamo brevemente alla statistica Istat del 2006 , vecchia quindi rispetto ai dati odierni ancor più sconfortanti, per tirare un po' di somme. Essa ci informa che: un terzo abbondante (31,9%) delle donne che vivono in Italia è stata costretta a subire violenza fisica e sessuale da parte di uomini, il 93% delle violenze è perpetrato da partner o ex partner. Risulta inoltre che il 35% delle vittime non denuncia, mentre solo il 13% chiede aiuto, spesso del tutto inutilmente, contro lo stalking.
L'incrocio di questi dati certifica per la prima volta la presenza di un fenomeno sociale, di una violenza endemica nei confronti delle donne come se fosse naturale, illegale ma legittima, che è anche strutturale. Esso merita di essere fattivamente arginato, e con urgenza. Il contesto sociale (culturale, giuridico, istituzionale e politico) non può pertanto continuare ad implicare la sostanziale impunità e la "normalizzazione" del fenomeno senza correre il rischio di legittimare vieppiù il femminicidio.

Circa le sue radici è stato detto molto. Esso non è frutto di incidenti isolati, non è l'epifenomeno di una accidentale quanto tragica conclusione, non è un drammatico incidente, è piuttosto l'ultimo atto di una serie di violenze continuative e di volta in volta crescenti, il più efferato.
Il femminicidio è la forma estrema d'una condotta violenta, che attiene a profonde motivazioni culturali e a modelli di rapporto tra i generi, utilizzata quale comportamento abituale perpetrato contro (l'animale umano) femmina che pone irrimediabilmente fine ad una sequenza di violenze continuative nel tempo.
Come recita uno slogan, c'è da dire che "violence is not always visible". Non sempre lascia lividi o altri segni fisici chiari e univoci, perlomeno non da subito. Spesso essa si configura dapprincipio come violenza, oltre e prima che fisica, anche morale, psicologica, economica e/o sessuale, fondata sul ricatto e la vessazione e come tale può perpetrarsi per un tempo anche lungo. Questo tipo di prevaricazione continuativa tiene soggiogati mediante la paura. E' una modalità utilizzata dal maschio per riappropriarsi di un ruolo al quale sono connessi privilegi, un ruolo socialmente dominante. La violenza diventa così uno strumento usato contro la donna che non vuole riconoscere questo potere, legato ad una gerarchia di rapporti così come era nel passato, nel momento in cui essa rifiuta la sudditanza. Poco o punto apprezzabile all'esterno, essa si svolge entro le mura domestiche, solo nel chiuso e nella privatezza di un rapporto a due.
Di solito nessuna vittima reagisce alle prime avvisaglie di un comportamento violento con comportamenti di fuga, allontanamento o ribellione, è portata piuttosto a perdonarlo o comunque a trascurarlo, confidando che non si presenti più. Ogni volta spera che sia l'ultima. Spera e aspetta. Finisce col sentirsi isolata, colpevole di aver reiteratamente trascurato i segnali per quanto forti e chiari, colpevole di non essersi ribellata e difesa prima. Teme possibili critiche sociali, intimamente si rimprovera la propria dabbenaggine e tantopiù col passare del tempo finisce col temere l'incredulità altrui di fronte alla "versione di Barney". La sua inazione diventa sempre più colpevole.
La sua imbarazzata e imbarazzante paralisi si nutre della "sindrome da crocerossina", di un istinto di maternage, di quell' imperativo categorico che suggerisce "io ti salverò" prima di un più salutare "io mi salverò" e può crescere se c'è di mezzo un figlio. Si tratta di una sommessa voce demoniaca che suggerisce di avere fiducia un'altra volta ancora e ancora, un'incosciente presunzione che ti convince che l'amore può avere effetti taumaturgici anche sul peggiore dei tuoi carnefici. Scrive Dacia Maraini nel suo -L'amore rubato-: "spesso tra carnefice e vittima si stabilisce un rapporto di complicità, anche se involontaria. La vittima vuole proteggere il suo aguzzino per liberarsi dai sensi di colpa, ..colpa di avere accettato la prima, la più subdola e inaspettata delle violenze. Da quel momento la distinzione fra i due si fa sottile e ambigua. La vittima diventa sempre più vittima, il carnefice sempre più carnefice in un gioco perverso che si avvita su se stesso. Questo succede... quando il carnefice è una persona che ci è familiare: la persona che abbiamo amato, di cui ci siamo fidati e che ci si è rivoltata contro." Dopo che si è speso un patrimonio sentimentale, e a volte neanche solo quello, ci si ritrova poveri, anche poveri di spirito, increduli e svuotati di ogni risorsa, anche della forza per difendersi. E' allora che dovrebbe sostenerti qualcuno e qualcosa dall'esterno, una diversa cultura, meglio orientata a riconoscere i segni, più protettiva e accogliente, più decisa nel segnalare vie di fuga, che non si nutra degli stessi stereotipi sessisti di cui la violenza di genere si alimenta. E' allora che c'è bisogno di misure istituzionali tese a promuovere uno status di garanzie alle persone offese che ne rispetti la soggettività femminile. E' allora che si verifica l'esigenza di misure volte a proteggere la vittima dagli abusi, fin dai suoi primi rapporti con quei soggetti (forze dell' ordine, strutture sanitarie,..) cui per primi la donna si rivolge nel tentativo di chiedere aiuto e a difnderla con norme di carattere repressivo attraverso modifiche alla disciplina penale (ad es. l'aggravante per stalking). Insomma, ciò che si rende necessario è una risposta strutturale e non emergenziale delegata soltanto per esempio alla legislazione penale.

In un Paese come il nostro dove fine a 30 anni fa al "maschio proprietario" era lecito l'uso delle botte quale mezzo per correggere il comportamento delle donne e dove era lecito il delitto d'onore, ancora pesa lo strascico culturale di un'impronta maschilista. Troppo spesso gli stereotipi e i pregiudizi, ancora sottesi in tradizioni, istituti, ruoli e realtà sociali attuali, trovano la donna in molti casi ancora incapace di quella lucida consapevolezza che la condurrebbe a percepirsi nel suo ruolo di vittima quando questo fosse. Soggiogata il più delle volte anche da una maggiore fragilità psicologica che la mantiene passiva, oltremodo indulgente e tollerante, incline a sopportazione e oblatività come caratteristiche materne e quindi confacenti con il suo ruolo di donna, soggiogata troppo spesso da una sudditanza economica e da condizionamenti e attitudini culturali ancora troppo largamente diffuse, quando non possa contare sull'efficienza di una rete istituzionale sufficientemente sistemica e coordinata che la protegga e la difenda, è destinata a non sapersi e a non potersi difendere. Fino a che gli omicidi di genere, il femminicidio nella fattispecie, manterranno le attuali proporzioni e non verranno riconosciuti come quel fenomeno che Amartya Sen ha definito "genocidio nascosto", fino a che continueranno ad essere più o meno sottaciuti quando non accettati, tollerati o giustificati, essi non si esauriranno, nè cominceranno mai a segnare una significativa flessione.

Per fermare il femminicidio c'è bisogno delle "4 P" : prevent, promote, punish, protect.
Serve un piano nazionale contro la violenza.

C'è bisogno di comprendere la necessità inderogabile di una profonda operazione di trasformazione a favore di una cultura di uguaglianza che rimuova i falsi stereotipi, le false rappresentazioni dei rapporti fra i generi e tutte quelle cause di discriminazione nella vita sociale che legittimano l'idea che l'uomo ha più valore della donna; che promuova finalmente la parità di genere e dunque il rispetto, anche attraverso un'educazione sentimentale e sessuale oltre che una nuova stagione iconografica (TV in primis) che valorizzi e non mercifichi la donna e il suo corpo. Finchè la società resterà maschilista, la predominanza del sesso maschile su quello femminile sarà legittimata.
C'è bisogno di azioni sul piano politico, operativo, giuridico e amministrativo che si integrino fra loro in un approccio olistico per la rimozione delle cause strutturali di discriminazione, oppressione e marginalizzazione delle donne. C'è bisogno di una maggiore attenzione (e sanzione) alle violazioni a tutti quei Diritti fondamentali (al lavoro, alla salute, a una vita libera dalla violenza, ad una adeguata e più paritaria retribuzione, alla tutela della maternità, al rafforzamento della previdenza sociale, ecc..) che sono necessari ad una vita dignitosa e autonoma non necessariamente satellitare nei confronti di un partner privilegiato e dominante.
C'è infine bisogno di un protocollo di azione di respiro europeo, ovvero internazionale, di una guida standard di prevenzione, di indagine e operatività, che renda sinergicamente coerente, ma anche più agevole e snello l'intervento delle Istituzioni chiamate, seppure a diverso titolo, a intervenire nella valutazione del rischio e nella protezione e tutela delle donne vittime di violenze e quindi in pericolo di vita.
Sarbbe auspicabile che divenissero tabù lo schiaffo e ogni parola o azione di umiliazione e scherno, e che l'impunità smettesse di costituire la norma.
E' importante che per prime le donne riconoscano i propri diritti fondamentali e comprendano la necessità di preservare la dignità essendo essa, come diceva Hanna Arendt, il diritto ad avere diritti e che si adoperino per richiederne a gran voce l'osservanza da parte delle istituzioni chiamate a fronteggiarne di conseguenza anche le violazioni.
Vorrei che non fosse vero che "le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive dappertutto", vorrei almeno che in Paradiso non ci finissero prima del tempo, per una morte gratuitamente violenta.
Per tutto questo appare necessario e urgente dare al più presto una risposta istituzionale alla dichiarazione dell'ONU.

sabato 19 gennaio 2013

Siamo tutti Robinson Crusoe

Siamo tutti attratti dal viaggio, alla ricerca di un'isola, in qualche punto negli sconfinati Oceani. I meno intraprendenti tra noi hanno bisogno di un fattore accidentale, propulsivo per intraprendere il proprio viaggio esplorativo. Talvolta hanno bisogno di situazioni estremamente destabilizzanti come un naufragio, un qualunque naufragio anche metaforico che li catapulti in un altrove circoscritto dove mettersi alla prova: è una nuova nascita.
Per Robinson Crusoe, il personaggio emblematico del romanzo di Daniel Defoe, pubblicato per la prima volta nel 1719 e letto da un vasto pubblico fino ad oggi, fu proprio così.
Sbarcato fortunosamente su di un'isola che sembrava deserta, si industrierà a sopravvivere contando sulle sue proprie forze e sul proprio ingegno, ripercorrendo tutte le fasi dell'adattamento umano, dalla fabbricazione degli utensili, all'addomesticamento degli animali, alla coltivazione della terra, alla ricerca della spiritualità, per 28 lunghi anni.
La diffusione e l'apprezzamento di quest'opera non sono mai venuti meno perchè, con tutta evidenza, un po' come accade nella mitologia cosmogonica, nelle pagine di questo romanzo anche il lettore moderno può ritrovarvi tutti gli elementi che simboleggiano la nascita ed il percorso di crescita fino al raggiungimento di un'armoniosa adultità. Il protagonista del romanzo, passando attraverso le difficoltà del travaglio e dell'abbandono dell'acqua intesa come Grande Madre, come elemento amniotico agli albori della genesi umana, come fonte battesimale in cui immergersi anima e corpo, come inconscio e caotico magma, ci accompagnerà attraverso un lungo e non sempre facile percorso di crescita, fino alla sua ri-nascita. Nella sua esperienza sull'isola, attraverso il superamento di ogni tipo di difficoltà in perfetta autonomia e solitudine esistenziale, ci illustra la tribolata ricerca per una precisa definizione della mappatura dell' Io, fino all'individuazione del proprio profilo e del senso della propria identità.
L'avventura di Crusoe prende inizio con la sua separazione dal padre, del quale ha ignorato il consiglio a non abbandonare un'agiata e più prudente vita borghese. Salperà in nave, avventurandosi nel mare, in quel possente organismo, immenso, pressocchè infinito che, nel suo essere impetuoso, ambiguo, enigmatico, cangiante, suadente, riposante, ma anche potenzialmente distruttivo, è metafora della nostra matrice nonchè della nostra vita interiore ricca di ogni potenzialità ancorchè sconosciuta, nell'intento di sfuggire all'inspiegabilità del mondo, alla sua fossile geologia, alla sua razionalità.
In mare dunque inizia il suo viaggio che diviene sfida, bisogno d'avventura, desiderio di libertà, prova di conoscenza, ricerca del nuovo, superamento degli ostacoli, evasione, ma anche adattamento, prova e verifica delle proprie esperienze, misura delle proprie capacità di sopportare fatica e sforzo necessari per conquistare e farsi conquistare, alla ricerca dell'entusiasmo (en-theòs, dio dentro), di quella matrice spirituale che, a saperla invocare, talvolta percepiamo in noi come anelito cui tendere fatto della stessa sostanza immateriale dei sogni. Il viaggiatore muove verso un territorio del desiderio (de-sidera, (essere lontani) dalle stelle) dove lo aspettano nuovi orizzonti, verso un luogo-altro, incoraggiato da curiosità e speranze, alla ricerca del proprio spazio interiore, della propria anima, spinto da un'autentica vocazione a conoscere se stesso. In speranzosa attesa confida, come i desiderantes nel De Bello Gallico, che i compagni soldati, reduci dalla battaglia, possano fare ritorno.
Il viaggiatore, sballottato dal caos della tempesta nei momenti drammatici del suo naufragio, farà dunque approdo in un' isola sconosciuta e remota cui lui stesso darà il nome di Isola della Disperazione. Eppure, qui giunto, non sarà mai preda del sentimento che ne caratterizza il nome, e potrà anzi iniziarvi il suo cammino verso una personale redenzione. Si dispiace, questo è vero, della mancanza di una pipa, con cui poter fumare il tabacco di cui l'isola è ricca, come pure si dispiace della mancanza di compagnia, almeno fintantochè non vi troverà Venerdì, cannibale redento salvato alla furia giustizialista dei suoi stessi simili, sorta di presenza umbratile e servizievole alter-ego. Ammette sovente la propria stanchezza e lamenta la monotonia delle prime fatiche quotidianamente sempre uguali. Anche dopo che diverrà consapevole della presenza di tribù ostili e potenzialmente pericolose in quanto antropofaghe (si allude forse alla minaccia cannibalica del simile che ingloba il simile, alle tentazioni come parti cattive di sè che non si vogliono introiettare?), reagisce senza mai abbandonarsi all'inerzia. Si proteggerà con un fortino, fino a sconfiggerli, senza mai giungere alla disperazione. In generale misconosce la noia e ripudia gli eccessi, come quando gli càpita di trovare tre grossi barili di rhum e dimostra di saperli amministrare centellinandoli e facendoseli bastare fino alla fine. Non si abbandona mai ad idee suicide o di massimo scoramento che pure avrebbero potuto maturare in lui se non fosse che sempre sa reagire alla paura, al dolore, alla noia e alla dipendenza da certe comode abitudini, con coraggio e determinazione. Anche se non smette mai di sognare la fuga, ben presto arriva a godere nel sentirsi, dopotutto, padrone dell'isola. Il resto del mondo diviene progressivamente cosa sempre più lontana, da cui nulla deve attendersi, e con cui, nulla avendo a che fare, verosimilmente nulla più avrà a che fare, giudicando perciò inutile struggersi nella nostalgia. Sembra conoscere il cammino verso la saggezza, la soterìa, la salvezza del viaggio di Amore, a partire da sè, ma non per sè.
Accettare la finitezza dell'isola, i suoi confini e le sue risorse, è il segreto del suo relativo benessere anche nella condizione di naufrago privato di ogni passata comodità. Il segreto della sua sopravvivenza nella solitudine consiste nel suo saper accettare il limite. Il soggiorno nel selvaggio approdo viene da lui considerato come conseguenza della propria imprudenza e non già della propria impudenza. Riconosce il proprio spirito d'avventura come anelito di libertà e autonomia e come causa del cambiamento; non ravvisa in sè nessuna hybris sentendo quindi, in certo qual modo, di stare pagando un giusto prezzo che nulla toglie alla sua attuale possibilità di adattamento e godimento futuro. Invoca il sostegno della Provvidenza, ma non tiene mai le mani in grembo nell'attesa d'una catarsi o di un prodigio. Si dà da fare con le sue proprie mani adoperandosi con tutto l' ingegno di cui dispone e, nella piacevolezza dell'operosità quotidiana, si riconosce artefice della sua propria sorte. Motore egli stesso del suo viaggio, spinto dal desiderio di conoscere e di conoscersi, si è reso libero di approdare verso nuovi orizzonti. Nel quarto di secolo della sua permanenza, Robinson prepara in verità anche il proprio ritorno a casa e, con esso, il futuro matrimonio, la soddisfazione della prole che non gli mancherà, fino alla ripartenza dopo la morte della moglie, ancora una volta verso l'isola.

In questo senso, ciascuno di noi è Robinson, chiamato a misurarsi nel mare sconfinato delle conoscenze e delle opportunità fino a trovare se stesso nell'isola del proprio io. E' è solo così, attraverso il viaggio di esplorazione nella propria isola esistenziale, svezzandosi dalle eccessive comodità e dalle sovrastrutture dalla separazione all' individuazione, che ciascuno sarà poi pronto a confrontarsi con l'Altro attraverso Eros, un amore maturo che sappia cosa offrire di sè, e cosa chiedere all'Altro-da-sè, che abbia cognizione di chi si è nella propria individualità e di chi è l'Altro.
Il soggiorno presso l'isola si rivela pertanto un'esplorazione in un luogo metastorico in cui l'assenza dei conflitti umani e della complessità di un mondo da cui si sono prese le distanze, accoglie l'utopia di un esilio paradisiaco di autoesclusione, finalizzata a sottrarsi all'invadenza di una vita concreta e alle sue sempre urgenti e rissose impellenze storiche: uno spazio nuovo, di abitudini sobrie, essenziali, e per questo di più libero movimento, senza lacci e lacciuoli, senza altri padroni che se stessi. Ma è un soggiorno che, in totale assenza dell'incontro con l'altro, con il diverso, tornerebbe ad essere deludente e insostenibile. Rischierebbe di rivelarsi un' esperienza narcisistica negativa, destinata soltanto a farlo ritornare alla Madre anzichè in Patria, come quella di Narciso che, dando amore solo a se stesso, non avendo portato a compimento il suo ciclo vitale, è destinato ad un viaggio senza ritorno, dall'acqua all'acqua, per annegamento, in un fatale ricongiungimento mortifero. Un' esperienza narcisistica positiva invece, ove l'acqua abbia funzione di specchio capace di far riconoscere oltre alla bellezza e consapevolezza di sè, anche la bellezza dell'esistente ivi compreso l'Altro, consente e il viaggio, e il ritorno, e altre successive ripartenze.

Il tema metaforico è quello stesso che nei secoli riappare di frequente. Penso all'epica di Omero che ci narra delle vicende di Ulisse (Odisseo) con tutte le sue distrazioni adolescenziali (le prove di autonomia, le infatuazioni) ed i momenti regressivi talassali (i reiterati viaggi per mare con i relativi inciampi). Penso cioè, per esempio, alla consapevole paura che l'Eroe prova in mezzo all'immensa distesa d'acqua nei confronti del canto delle sirene come metafora della seduzione, del potere ipnotico e paralizzante della voce materna, amata prosodia udibile fin dal principio nell'ambiente uterino liquido, amniotico paradiso perduto, beatitudine oceanica, regno dell'indifferenziazione da cui tutto trae origine. E' noto a tutti che il signor Nessuno (Odisseo), solo dopo un lungo e tribolato viaggio durato 20 anni può far ritorno a casa, riconciliandosi finalmente con i suoi affetti adulti e, sbaragliati i contendenti (i Proci), ricominciare a sentirsi Qualcuno. Il suo cambiamento è un cambiamento interiore. Quantunque sia invecchiato entrando nella piena maturità, viene infatti riconosciuto, con stupore forse, ma senza alcuna esitazione, dalla nutrice che lo vide piccolo e dal suo fedele cane Argo.

Penso inoltre a due esempi di narrazione nella più recente produzione cinematografica. Mi riferisco, per quanto concerne quest'ultima, a pellicole quali: "Travolti da un'insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" della regista Lina Werthmuller, e "Cast away" nell'interpretazione magistrale di Tom Hanks. In entrambi i film troviamo elementi comuni, il naufragio e l'isola con la sua natura aspra e incontaminata: paradigmi analoghi, ma con epiloghi diversi.
Nella narrazione della vicenda citata per prima, vediamo la compianta Mariangela Melato nei panni di Raffaella, una sofisticata, riottosa milanese, agiatissima donna di mondo, poco simpatica fin dall'inizio anche a causa della sua erre blesa, assieme ad un giovane Giancarlo Giannini nei panni del giovane mozzo di origini siciliane al suo servizio nello yacht da nababbi di lei. I due finiscono naufraghi tra le sabbie dorate del loro approdo di fortuna circondato dal mare e, qui, Cupido scocca le sue frecce facendo ribaltare la situazione. Una volta dismessi gli scomodi panni di umile e rozzo sottoposto schernito e dileggiato fintantochè era a bordo, lui diviene finalmente il suo ardente amante di lei appassionata succube proprio a causa d'un insolito destino che, sull'isola, ne ribalterà i ruoli. Anche lei dunque sembra corrisponderlo con passione subendo con piacere il trattamento, esilarante in verità perchè vendicativo e machista, corrispondente all'immagine pregiudizievole del maschio siciliano. Tutto ciò in un crescendo di passione e di intesa finchè lui la convince a ritornare alla civiltà e alla vecchia routine, per metterla alla prova, verificando se davvero lei voglia ripartire convintamente, per scelta questa volta, insieme a lui sull'isola.
Ma ecco che Raffaella, alla prova dei fatti, diserta l'appuntamento per la ripartenza e lo lascia sul molo solo e disperato, sotto un'implacabile canicola. In concreto, il sogno di fare ritorno nel paradiso perduto, non è un sogno, semmai lo è stato, condiviso e condivisibile.
La scena finale è una zoomata di allontanamento che vede il semplice marinaio Gennarino, inutilmente vestito a festa, rimanere ad imprecare nel suo coloritissimo idioma nel mentre lei si alza in volo comodamente seduta in elicottero a fianco del marito.
Nel secondo film che ho citato, il protagonista Chuck Noland, in un'isoletta spersa nel Pacifico, sopravvive servendosi all'inizio dei relitti che il mare gli restituisce: i pacchi della Fedex, compagnia di spedizione per cui lavorava. Un pallone da calcio dipinto col proprio sangue in maniera che sembri un volto umano ed un piccolo ciondolo con la foto della fidanzata deposto su una sorta di altarino nel fondo della grotta in cui ripara sono i suoi unici interlocutori muti, e gli alleviano la solitudine come oggetti transizionali dal potere soterico. Dopo anni e anni di permanenza, viene raccolto finalmente da una nave di passaggio e può fare ritorno al luogo da cui era partito. Niente qui è rimasto come l'aveva lasciato. Anche lui non è più lo stesso. Quella che gli era fidanzata gli manifesta ancora amore, ma ora è sposata e ha una figlia. Gli assalti dei media e dei curiosi ben presto lo rendono frastornato. Così lo vediamo prendere le distanze da quel mondo caotico e ciarliero. Si rimette in viaggio, questa volta in automobile. Porta con sè un pacco, il trait-d'union con la sua vita solitaria, che negli anni ha voluto preservare unico tra tutti ancora imballato, per la consegna seppure tardiva alla legittima destinataria. Lei è assente, quindi, arrivato a destinazione, deposita l'involto sull'uscio della casa di lei congiuntamente ad una nota di ringraziamento (!). Quindi procede finchè non si trova ad un crocevia, sperduto nella vastità della campagna texana. Fatalità, qui incontra proprio la destinataria che cercava e approfitta, in mezzo a tanta desolazione, per chiederle delucidazioni circa il dove ciascuna delle tre diverse strade conduca. Una, gli viene detto, congiunge con la statale, un'altra è una strada che "porta al niente fino al Canada", la terza è quella da cui è venuto e che conduce alla casa di lei. Si congeda sorridendo enigmatico nel mentre sembra tentennare, indeciso sulla direzione da prendere. Intanto fissa, rapito e sorridente, il retro del furgone di lei che si allontana su cui campeggia, quasi ammiccante, il logo della ben nota ditta di spedizioni Fedex con lo stesso paio di ali stampigliate sull'involto sdrucito del pacco.
Da questo momento in avanti possiamo immaginare che possa solo andare avanti e procedere verso una vita che non sarà più come era.





lunedì 8 ottobre 2012

Saggezza e vecchiaia sono correlate?

E' opinione comune che saggi non si nasce, saggi si diventa. La saggezza o sapienza, sembra essere un qualcosa che si acquisisce di pari passo con l'età come una sorta di ricompensa del lungo evolversi della mente. Una specie di risarcimento per controbilanciare l'avvizzimento, la presbiopia, la perdita dei denti e della memoria retrograda. E' il paradosso esistenziale dell'invecchiamento: compensa ciò che si perde. Più si invecchia, più si ha la possibilità di sviluppare un investimento oculato delle energie psicofisiche, si controllano meglio gli impulsi e si diviene più capaci di autocritica.
Saggezza è, potremmo dire, il contrario dell'audacia e della sventatezza, è osservare l'11° comandamento, quello che recita "non esagerare!"
Saggezza è sensatezza, è accortezza, è prudenza, è sapersi risparmiare, è saper tesaurizzare, è, se del caso, piegare la gobba oggi per raddrizzarla domani. E' anche non mancare ai riti di passaggio, come direbbe il Malaussène di Pennac, "accettando i mutamenti ma non le mutazioni, ingrossando senza gonfiare, maturando senza avvizzire, evolvendo e valutando, progredendo senza rimbambire, invecchiando senza troppo ringiovanire, accettando di morire senza protestare". Perchè "è nulla il morire, spaventoso è il non vivere" (Gramellini "Fai bei sogni").
Saggezza è la capacità di valutare in modo corretto, ponderato ed equilibrato le varie opportunità scegliendo secondo ragione ed esperienza.
Saggezza è non farsi prendere dall'autocompatimento, ed è anche trovare il proprio modo di opporsi a certe realtà per trasformarle nel sogno che ci abita dentro, scartando le speranze che siano solo futili e illusorie per abbracciare convintamente il motto oraziano del carpe diem al fine di non sprecare nemmeno un giorno.
Mano a mano che decrescono la forza muscolare, la durata del sonno filato e in generale molte altre prerogative di gioventù, cresce invece, come una forma di risparmio, l'attitudine naturale ed istintiva a lasciar perdere dove non valga la pena di accanirsi, utile a concentrarsi solo laddove vi sia una buona probabilità di riuscita, di successo.
La saggezza è una possibilità che ci si offre: sta a noi scegliere se sia un dono o una menomazione che ha il sapore della resa. Forse aumenta la capacità di sopportazione mano a mano che diminuisce l'impazienza. E' come se la mente si abituasse a fare, perennemente e in automatico, un bilancio tra l'essenziale e il superfluo per suggerirci di volta in volta dove valga la pena di investire energie, anche quelle che servono ad arrabbiarsi e indignarsi, o a perdonare senza per questo dimenticare come fa l'ingenuo.

Secondo gli stereotipi più diffusi, la saggezza è impersonificata dal gufo con gli occhiali o dalla tartaruga (vedi "La spada nella roccia" di Walt Disney e "Momo" di Michael Ende).
Entrambi questi animali rappresentano inequivocabilmente la vecchiezza (per il richiamo ad una longevità straordinaria, alla rugosità e alla lentezza dell'incedere nella tartaruga, o per la latenza di risposta nell'apparente tendenza al black-out nella letargia del gufo, oltrechè per l'inesorabile perdita di una precipua caratteristica, l'acutezza della vista (quantunque compensata con la capacità di essere maggiormente pre-videnti) in entrambi.
Protetta dal suo freddo carapace, nel quale è pronta a ritirarsi in piena autonomia autistica, la tartaruga incarna al meglio la rappresentazione del vecchio, non tanto in quanto creatura ctonia e tenebrosa per via di quei suoi occhietti ostili che le conferiscono un'espressione maligna e poco affidabile (il che giustifica certo timore repulsivo che talora certi vecchi incutono segnatamente nei bimbi piccoli), ma in quanto creatura lenta che sembra bastare a se stessa, capace però, all'occorrenza, di improvvise accelerazioni e di scatti imprevedibili ("mettere il turbo" se trova il cancello aperto, addentare svelta con il suo temibile rostro un cibo prelibato) alternati alla prudente placidità del sonno letargico. Questo animale, come il gufo che sembra dormiente ma è capace di un guizzo con un solo colpo d'ala, può avere, talvolta, la miccia corta. Tale e quale al vecchio che, invecchiando, rivela paradossalmente più energia, più carattere e non già più morte, come il vecchio a cui "l'età arrugginisce il giorno a prima sera, ma sveglia l'animo fin dalle prime luci dell'alba" (Erri De Luca, "I pesci non chiudono gli occhi").
E' dunque più d'ogni altra la lentezza, come nei due animali summenzionati, a caratterizzare il vecchio e insieme saggio perchè, forse, proprio nel procedere del pensiero che si fa più lento e pertanto riflessivo, questi trova tutto l'agio di annodare fili perduti e tempi morti in un'unità di senso, come già accade nella scrittura, che di per sé è necessariamente ripensamento. E "la lentezza pensosa corrisponde alla levità, a quella leggerezza pensosa che può far apparire la frivolezza come [invece] pesante e opaca". La speculazione dell'intelletto all'insegna della leggerezza può consentire di innalzarsi alla contemplazione universale; l'agile salto improvviso della mente del sapiente, o del poeta-filosofo, il suo festinare lente, lo solleva dalla pesantezza del mondo e da quelle sue caratteristiche di apparente vitalità dei tempi, "rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante", che invece rimandano il saggio ad immagini pre-videnti dove c'è movimento veloce ma non c'è vita, immagini statiche e mortifere, "come un cimitero d'automobili arrugginite" (per usare le parole di Italo Calvino nel suo "Lezioni americane").

La saggezza dunque corrisponde, come si diceva, ad un'acquisizione di energia e al pieno sviluppo del "carattere" inteso come sommatoria delle qualità distintive di un individuo, come "stile estetico dai tratti durevoli, quale si esprime in gusti e comportamenti individualizzati, [e] forza strumentale capace di influire su ciò che ciascuno apporta al pianeta", corrisponde altresì al coraggio di essere curiosi, di liberarsi dalle convenzioni indagando la verità (la aletheia dei Greci)". (vedi Hillman, "La forza del carattere"). In questa straordinaria, eccitante avventura, il vecchio esplora maggiormente col pensiero, mentre il giovane esplora con il corpo in movimento. Se è saggio, il vecchio sa dedicarsi all'otium come attività necessaria alla ri-flessione su se stessi e sul passato, a quel movimento circolare dell'anima verso se medesima, verso le origini ricche di senso della sophìa, necessarie al negotium, nel rispetto di quel sano amour propre di cui parlava Rousseau, così diverso dall'egoistico amour de soi meme. Se nel corso della vita hai imparato a divertirti con te stessa, dice un personaggio femminile non più giovane di Manuela Serrano nel suo "Dieci donne", continuerai a farlo. E il divertimento del vecchio, inteso come possibilità di provare piacere, consiste anche, e soprattutto, nell'esercizio del pensiero e dell'immaginazione. Nel saggio essa è orientata alla trasformazione sociale, per un superamento di una coscienza egologica a favore di una coscienza ecologica.

Saggezza è quella virtù dell'anima che sa mantenersi il più possibile lieta, relativizzando, pensando positivo, venerando il dio delle piccole cose, giudicando ciò che è bene lasciar perdere da ciò che vale la pena di perseguire. Si può far questo a qualunque età, naturalmente, ma a partitre dai 60 anni, diventa più facile. L'esperienza conta molto perchè acuisce il giudizio.
In gioventù si è disposti a credere, a prestar fede, in maniera affrettata e imprevidente. La curiosità è grande e pressante e, per muoversi agevolmente tantopiù sotto la pressione dell'urgenza, si ha bisogno di un terreno il più possibile spianato e libero da ostacoli. La curiosità giovanile non è ancora una modalità intellettuale del desiderio, è più un prurito. In gioventù ci si infervora ed è più facile avere un atteggiamento fideistico; se si ravvisassero tutte le difficoltà e le insidie (ovvero il concetto di Lupo Alberto che la sfiga è sempre dietro l'angolo) interverrebbe di sicuro la paralisi, che di sicuro non orienta la conoscenza.
Con l'età matura si è più prudenti, in genere si è imparato a ridimensionare le aspirazioni, ad economicizzare le energie e, dunque, gli investimenti. Si è imparato a discernere con più facilità, ed anche ad essere più attenti agli altri e ai loro bisogni, forse perchè questi ultimi potrebbero diventare i nostri e, secondo la strana matematica dell'amore, declinato in tutte le sue forme anche nell'amicizia, chi più spende e si spende, più avrà la possibilità di ottenere la solidarietà e la generosità dell'altro a sua volta.
Se si è imparato ad essere previdenti per amore di sè e dell'altro, ci si esporrà ad un rischio, per quanto possibile, calcolato.
La saggezza implica rinunciare al muro contro muro, nelle relazioni come nelle discussioni che siano improntate all'ignoranza e al fanatismo. Di fronte alla rigidità, anche del pensiero, di certuni, il saggio contrappone la morbidezza e l'accoglienza più che una fiera e accanità ostilità, ben sapendo che in taluni casi è meglio soprassedere. Diviene più esperto nell'arte della diplomazia. Chi era più saggio, Galileo Galilei o Giordano Bruno? Entrambi erano certi, ad onta di quanto dichiarato nella Bibbia, che fosse la Terra a girare intorno al Sole, ma il primo, duro e puro, non potè evitare di farsi bruciare al rogo, il secondo, abiurando, ebbe salva la vita e potè ugualmente affermare e diffondere la sua teoria attraverso i suoi scritti. Saggezza è pertanto anche disincanto.
La saggezza quale "prima condizione della felicità" (vedi "Antigone" di Sofocle), è un fenomeno psicologico e sociale.

Secondo E. Goldberg , neuropsicologo di fama mondiale ne "Il paradosso della saggezza", non è affatto vero che cervello e funzioni mentali abbiano necessariamente a deteriorarsi con l'età, al contrario sviluppano la capacità di riconoscere modelli, capaci di integrare pensiero ed esperienza usando meglio l'emotività, l'empatia e l'intuizione.
La saggezza, che è altro dal talento, dalla genialità, dalla creatività e dal pensiero originale, secondo questo studioso, corrisponde piuttosto a "doti di competenza, expertise e riconoscimento di modelli cognitivi intesi come classi di oggetti o di problemi che catturano l'essenza di una vasta gamma di situazioni specifiche e di azioni le più efficaci associate ad esse", ma non solo. E' conoscenza esperta, che consente di connettere il nuovo con il vecchio applicando l'esperienza precedente alla soluzione di un nuovo problema; essa non trascura mai, insieme agli aspetti intellettuali, gli aspetti morali, spirituali e pratici. E'conoscenza, oltre che dichiarativa (classificativa, descrittiva, che risponde alla domanda "cos'è?"), anche prescrittiva (che risponde alla domanda "cosa dobbiamo fare?"), e ci dice pertanto come agire, orientandoci nella scelta del comportamento più opportuno.
La sola competenza disgiunta dalla conoscenza prescrittiva che ci metta nelle condizioni di decidere come agire rispetto alle cose e non solo di classificarle, può efficacemente combattere i fenomeni neurodegenerativi e la neuroerosione (la neurogenesi, dopo tutto, per quanto in forma sempre più rallentata, sappiamo che continua per tutta la vita), ma non può garantire la saggezza.

Nell'introduzione che Mattew Fox fa del suo volume "In principio era la gioia", la saggezza (o sapienza, wisdom in lingua anglosassone) viene considerata nell'accezione dei nativi americani come ciò che consente alle persone di poter vivere. Vivere, non sopravvivere. E vivere "significa anche bellezza, libertà di scelta, dare alla luce, avere una disciplina, celebrare con gioia" procedendo congiuntamente, al di là dei particolarismi e dell'individualismo con l'aiuto di tutti, nell'interesse di tutti, in una visione ecologica.
Secondo questo autore la saggezza è promuovere un risveglio scientifico che riconosca la Terra come elemento prezioso in cui trovare la presenza immanente di Dio, recuperando così la tradizione spirituale che mette al centro il creato. Saggezza è andare oltre la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, è ripensare a cosa significhi il lavoro; è affrontare la crisi con giudizio (dal greco krinein, giudicare dopo aver passato al vaglio) traendone l'opportunità di superarla preservando la dignità individuale anzichè distruggendola e distruggendo con essa i rapporti sociali. Ogni tipo di crisi (energetica, del cibo, del lavoro, ecc.) può essere superata attraverso un ecumenismo globale e il recupero della dimensione universalista delle religioni, ovvero della spiritualità. Si rendono necessari, a suo dire, i movimenti di giustizia e liberazione, ivi compresi i movimenti femministi, perchè la sapienza viene specialmente dagli anawim, coloro che sono dimenticati e oppressi, e dalla prospettiva di ridare dignità alle minoranze che, in quanto tali, hanno perduto il diritto al lavoro, alla gioia, alla dignità, alla spiritualità, alla partecipazione del sacro, ecc.
Affrontare la crisi con giudizio può anche voler dire, con riferimento a quella alimentare, giudicare il vegetarianesimo una fonte di approvvigionamento proteica più economica e sensata e meno inquinante di quella che includa la carne; può voler dire tendere ad un approvvigionamento di energia pulita, ad un non spreco dell'acqua, alla non indiscriminata cementificazione, e così via.
E' necessario, sostiene ancora, recuperare la speranza (perchè, come dice Erik Fromm, quando , questa è debole ci si accontenta delle comodità o della violenza) lottando contro la cupa ideologia del peccato originale e insegnando che al principio era la gioia, e non il peccato delle origini. Il senso di colpa acquisito ab origine, per quanto inconscio e oscuro, non consente alcuna scelta, alcuna saggezza. La vita, dice, deve essere vissuta con passione, gioia e creatività, incoraggiata dalla bene-dizione laddove sia il bene ad essere originario, e non già dalla male-dizione di una colpa a priori e di un peccato, affinchè sia la benedizione che tutto origina e tutto mette in moto.
Per tutto ciò, "occorre pertanto una trasformazione educativa che superi l'identità patriarcale, con i suoi correlati di cinismo e di pessimismo, che superi l'identità dualistica e violenta delle contrapposizioni; occorre affidarsi, oltre che al sapere, al sentire, [non si vede bene che col cuore..., dice il Piccolo Principe], recuperando l'eros nel suo significato originario. L'eros inteso come amore tra gli esseri umani, ma anche come amore per tutti i doni meravigliosi della Terra, dalle balene agli oceani, dai fiumi alle montagne, dagli orsi agli uccelli, dai lupi alle foreste,..., dall'aria pulita alla salute del nostro corpo,..."(introduz. di Vito Mancuso nell'op. cit.di Fox), è ciò che occorre per promuovere una maggiore spiritualità, in comunione tra la natura e gli esseri umani.

Vorrei concludere con una preghiera Cherokee che tutti, alle soglie della vecchiaia, dovremmo recitare: "concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio per cambiare quelle che posso e la saggezza per riconoscerne la differenza".  

lunedì 26 marzo 2012

Preferire il gatto

Siamo tutti consapevoli che l'umanità si divide in due schieramenti, quello che dice di preferire il gatto, l'altro che dice di preferire il cane.
Nella mia vita ho amato gli uni e gli altri, ma la mia preferenza va, d'istinto, inequivocabilmente, al gatto. Da sempre me ne chiedo il motivo, ed è mia intenzione qui cercare di rispondervi, non senza l'ausilio di poeti e letterati che ne hanno cantato... l'incanto.
Scrive Rousseau: "E' segno del carattere, se non vi piacciono i gatti, siete inclini all'istinto umano del dispotismo . Il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali." Gli fa eco Mark Twain "può acconsentire ad essere il vostro compagno, non sarà mai il vostro schiavo." William S. Burroughs, analogamente, asserisce che chi odia i gatti rispecchia uno spirito brutto, stupido, grossolano e bigotto e aggiunge: "un gatto non offre servigi, offre se stesso". Neruda lo sintetizza così: "Orgoglioso, cammina solo e sa quel che vuole", in sintonia con Pessoa che, con un'analoga sintesi in una sua famosa poesia dedicata all'amato felino scrive: "gatto che giochi per via / come fosse il tuo letto /...senti solo quel che senti; / sei felice perchè sei come sei, / il tuo nulla è tutto tuo."
Proiezioni? Può darsi, naturalmente. Ma che il cane sia un animale gregario che ha bisogno del branco e rispettoso delle gerarchie, a differenza del gatto, sembra ampiamente suffragato dagli studi degli etologi. D'altronde ce lo insegna anche la Storia. Il cane è stato addomesticato già 30.000 anni or sono, nel mentre il gatto è di domesticazione assai più recente: 9.000 anni se l'aver reperito i resti di questo felino sepolti accanto ad un umano in una tomba nell'isola di Cipro può essere giudicata testimonianza d'una affezione "domestica", 5.000 se prendiamo a testimonianza il suo culto, i geroglifici e i suoi resti nelle tombe dell'antico Egitto. E' del tutto comprovato, inoltre, che il cane fosse già sociale (come il lupo) prima di diventare socievole.
E' stato scritto che il cane è credente, il gatto ateo, e anche che il cane ha bisogno del padrone nel mentre il gatto è padrone egli stesso. Del "mistero" del gatto hanno scritto in molti. "Occhi d'agata e metallo", così lo canta Baudelaire. Sentite Pinin Carpi: "Sul suo distacco la ragione slitta, numeri d'oro stanno nei suoi occhi" e ancora "al buio diventa un tepore accarezzato".
Come resistervi quando il conflitto tra ragione e sentimento si fa insanabile e l'istintintualità della piacevolezza del tatto, alla ricerca di calore e morbidezza, cullata dal carezzevole ron-ron, sommesso e monotono pulsare di un cuore d'onde, ha il sopravvento?
"..La tua gattina...Non la senti vibrare come un cuore sotto alla tua carezza?" Così recita un verso di Umberto Saba.
Il compianto Giorgio Celli, famoso accademico, etologo e divulgatore anche televisivo recentemente scomparso, chiamava il gatto "decima Musa". Non fanciulla, non residente sulle pendici del Parnaso, ma silenziosa presenza che si aggira ovunque fra noi, tra i giardini e i tetti.
Già: una musa, la Musa, ispiratrice di molti tra poeti e scrittori.
Forse perchè ci ispira pazienza, forse perchè incarna l'armonia e la bellezza proprie dell'Arte.
Forse perchè la sua eleganza e sobrietà hanno un potere tranquillante. Il suo essere l'animale del silenzio, elemento essenziale all'ispirazione, spesso abbandonato al piacevole sonno dei giusti ma sempre pronto a ritornare prontamente vigile, ne fa un simbolo della fantasticheria creativa, del pensiero silente che si concretizza in parola scritta. Un perfetto simbolo dell'otium, favorevole, anzi necessario, al negotium.
Personalmente amo il gatto per la sua imperfetta domesticità, per il perenne conflitto che sembra albergare in esso tra la sua esigenza di animale libertario e solitario mai del tutto confidente, e l'attrazione innata per le coccole di tipo materno cui ama affidarsi invece anima e corpo.
Tra l'altro, non mi è possibile sciogliere il dubbio amletico se sia il gatto a farsi adottare da noi o noi a farci adottare da lui. Mi spiego. Avete presente il suo muso? La fronte spaziosa e bombata? Gli occhi grandi, tondi, l'espressione placida, indifesa e gaudente di quando lo accarezzate? Sono caratteri neotenici, quegli stessi che, enfatizzati per esempio in Bambi, hanno fatto la fortuna di Walt Disney e dei suoi cartoni animati. Hanno caratteri neotenici nei tratti, infantili e commoventi, atti a suscitare benevolenza come d'istinto i cuccioli, che permangono nell'adultità. Ma sono anche neotenici "della mente, neotenici etologici, che hanno conservato nella vita adulta non solo il ricordo, ma la possibilità di comportarsi come i gattini che erano" (Giorgio Celli). Ne è testimonianza il loro pervicace mantenimento di un gesto del tutto infantile, quello di "impastare" alternativamente con le zampine, quando, occhi chiusi e in sollucchero, ripropongono la beatitudine di quando suggevano il latte materno e, così facendo, ne promuovevano "la mungitura". E noi umani, d'istinto, li adottiamo volentieri.
Ma altrettanto volentieri ci facciamo adottare e siamo loro grati se ci trattano come prole inetta allorquando ci insegnano ad acchiappare una preda commestibile. Non possiamo che essere loro grati quando ci depositano sullo zerbino fuori dall'uscio il cadavere di un volatile o quando, per esempio, ci consegnano un topino, mezzo morto di paura nel cuore d'una notte di mezz'estate ai piedi del letto ed hanno la pretesa, liberandolo dalle fauci per poi riacchiapparlo dinanzi al nostro sguardo, di insegnarci come s'ha da fare.
Altra testimonianza del loro carattere neotenico è quel corollario di suoni e versi , di differente musicalità ma sempre "sinuosi", giocati spesso sui suoni acuti, infantili e accattivanti appunto.

Nell'arco della mia vita, non mi è mai mancata la compagnia di un gatto. Nemmeno quando, neonata sazia di latte materno, venivo riposta nella mia culletta di vimini, seminascosta da veli di tulle. Acciambellato ai miei piedi, sempre rispettoso e mai invadente, ronfava placido, d'abitudine (dormivamo 16 ore al giorno tutti e due), un grosso gattone persiano di colore grigio. Ch'io sappia era il primo di una lunga serie di gatti, immancabilmente grigi, cui mia nonna avrebbe dato sempre il nome di Nichi, forse in omaggio a Nikita Kruscev di cui avevo occasione di sentir parlare al giornale-radio, dopo l'inconfondibile trillo che fungeva da stacchetto nelle trasmissioni degli anni '50, gli anni della mia primissima infanzia trascorsa nella casa dei nonni paterni. So per certo che per me furono, uno dopo l'altro, "Nichi-Nichi". Non so perchè ma mi piaceva raddoppiarne il nome. Carattere neotenico anche il mio, probabilmente.
Anche quando divenni studentessa universitaria, nello spazio angusto del mio alloggio patavino, mi faceva compagnia un meraviglioso, dolcissimo meticcio persiano grigioperla. Dietro la suggestione di un racconto del mio Prof. di Psicologia Fisiologica a proposito d'un suo paziente afasico che aveva residuato come unica possibilità verbale il bisillabo "pachi", gli detti nome Pachi-Pachi.

In seguito, quando dopo dodici anni di una anomala "libera-professione" finalmente entrai di ruolo come psicologa presso una delle neoistituite Unità Sanitarie Locali, in totale astinenza da gatto da un tempo insopportabilmente lungo, ritornata ad abitare la casa che fu dei miei nonni e mi vide bambina, mi lasciai sedurre da un bigliettino appeso nella bacheca del vicino negozio di animali: "Regalo gattino...". Fu così che, nella mezzora di pausa pranzo, trovai il tempo per andarmi a prendere una spendida gattina (di madre siamese e padre persiano grigio) di appena due mesi. Non potendo fare altro di meglio, ritornata in tutta fretta al lavoro, la ricoverai semplicemente ai piedi della scrivania sperando che il bambino mutacico, che avevo come primo appuntamento del pomeriggio, non se ne avvedesse o non ne ricevesse turbamento. Quel bambino di soli 8 anni era da tempo una "vecchia conoscenza" del Servizio Materno-Infantile; l'avevo "ereditato" da qualche tempo da un collega uscente che lo considerava un "caso disperato". Nessuno, a scuola o fuori casa, gli aveva mai sentito profferire verbo, in casa era normalmente loquace. Era un bimbo timidissimo, di corporatura gracile e mingherlina che vestiva pantaloncini corti di lana, modello d'antan, e un'inseparabile cappellino (una piccola calotta con un'enorme visiera) che ne metteva in mostra le grandi orecchie a sventola. Il collega mi raccontò che la prima volta in cui gli si sedette in fronte, al di là dell'orribile scrivania in metallo e fòrmica, su quella stessa seggiola modello-scuola-media-anni-'70 troppo alta per lui e dalla quale le sue livide ed esili gambine non potevano che penzolare, ebbe anche la sventura di lasciarsi scappare la pipì, della quale lo psicologo si avvide perchè insospettito da un ritmico gocciolìo che ben presto si era concretizzato in un'enorme pozza gialla sottostante.
Fu grazie alla gattina che si sbloccò. La raccolsi da sotto la scrivania dove si era rannicchiata, tutta tremante e spaesata, catapultata d'emblée in un mondo ostile dove non c'erano più né la calda pelliccia di mamma, né i giocosi fratellini, e gliela presentai. Fu una forte emozione per quel bambino, e amore a prima vista. Verso quell'animaletto, preda della paura e dello smarrimento che anche lui stesso doveva conoscere assai bene, entrò immediatamente in solidale empatia. Infatti esordì sbottando, con una voce decisa e tonante dal tono grave, quasi cavernoso: "ne ho una anch'io a casa, una gatta grande però... !". Da quel momento fu un fuoco di fila di domande: "dove l'hai presa? ce l'ha la mamma? e poi dove la porti?..." . Da quel giorno ebbi la sua fiducia e la possibilità di dialogarci serenamente fino a quando, ben presto, non se la sentì di incominciare a parlare anche a scuola ed io, felicemente orgogliosa della mia trasgressione di quel giorno, certa della sua guarigione per la quale non mi arrogavo alcun merito, lo dimisi.
Quella stessa gatta, di lì a un anno, fu la mia più grande compagnia nel periodo forse più delicato della vita quando, per nove lunghi mesi, non si sottrasse mai un istante dall'accudirmi amorevolmente, alleviando egregiamente la mia solitudine e le mie ansie gravidiche. Era la mia ombra, anche in bagno. Più di una volta, accadde che si avvicendasse a me nel fare la pipì, centrando perfettamente il buco della tazza. Avevo l'impressione che giudicasse lo scendere le scale, fino alla sua lettiera, un'inutile e rischiosa perdita di tempo: avrebbe dovuto separarsi da me. Mi consolava soprattutto la notte quando, perennemente appollaiata sul mio pancione, la sentivo fissarmi con benevolenza attraverso le palpebre socchiuse dei suoi occhi accesi di fosforo nel mentre mi cullava ronronnando con il suo instancabile motorino a bassi giri.
La chiamai Eminé come il personaggio femminile di un pregevole film turco di cui non ricordo, purtroppo, né il titolo né il regista, che in una notte insonne ebbi l'occasione di veder passare in TV. Nella pellicola, struggente testimonianza dei costumi arretrati di certi pastori dell'interno della Turchia, si narra di una giovane donna maltrattata la quale, legata per punizione nella stalla adiacente casa, considerata emblematicamente alla stregua di una bestia da soma, finisce col morire di dolore e di stenti. Il film si chiude dopo che marito e figlio, responsabili del disumano trattamento, la trovano morta, e al suono delle loro voci che ne invocano il nome, ahinoi troppo tardivamente, risponde l'eco che rimbalza tutt'intorno sulle pareti brulle dei monti dell'Anatolia.
Eminé, detta Emi per brevità, era capace di strabilianti comportamenti empatici. Una sera non seppi trattenermi, mi colse un pianto irrefrenabile, tra lacrime e striduli singhiozzi. In conseguenza di ciò la vidi "andare nel panico". Non sapeva più cosa inventarsi, quali strategie mettere in atto a scopo consolatorio. Mi si strusciava freneticamente tra le gambe col rischio, e forse l'intenzione, di farmi perdere l'equilibrio fino a che non mi fossi seduta. Dopodichè mi venne delicatamente addosso. Era quello che voleva: un vis-àvis, per arrivare a leccarmi febbrilmente le lacrime, lamentandosi lei stessa con un mugolìo nervoso, acuto e intermittente, che non le avevo mai sentito prima. Dovetti smetterla per far smettere in lei tutta quell'agitazione febbrile. Capii in seguito che quello era il lamento preoccupato tipico della madre che chiama a raccolta i cuccioli, lo stesso che le sentii qualche anno dopo, quando ebbi a trasferirmi lontano dalla mia città natale, confinata in una desolata campagna, tutte le volte che uscivo dall'area del giardino di proprietà. Capii che stava riservandomi il meglio delle sue cure materne. Da quel momento non seppi più esattamente chi avesse adottato chi. Fu una straordinaria compagna di giochi per tutti i primi 11 anni di vita di mia figlia. La totale fiducia in noi (al nostro rientro aveva fiducia anche nella nostra automobile, certa che questa l'avrebbe scansata prima che lo dovesse fare lei stessa), identica a quella che riponevamo peraltro in lei, venne meno solo dopo che un vicino di casa, pur di non rallentare la sua folle corsa, la tirò sotto come un birillo, seduta com'era, a lato della stradina sterrata, intenta a fiutare gli umori serotini d'una incipiente primavera.

Tornando agli Autori, vorrei ricordare le parole di E. Hemingway: "Un gatto semplicemente conduce al successivo (ne ospitò fino a 30! n.d.s.)..." e ancora: "I gatti dimostrano di avere un'assoluta onestà emotiva. A differenza degli uomini, non riescono a nascondere i propri sentimenti." Non t'ingannano e non li inganni, aggiungo io. Sanno quando li fai soffrire nell'intento di aiutarli. Lo sanno come lo sapeva la Emi quando bastava che io le fossi accanto e lei offriva fiduciosa, al Veterinario e alla sua immensa siringa, l'incavo della sua zampina anteriore per la trasfusione. Lo sanno, come lo sapeva il povero Rodolfo Valentino detto Rudy, afflitto da chissà quale orribile malattia che lo rese glabro e rugoso come E.T., che sopportava di buon grado il fracasso dell'aerosol. Lo sanno perfettamente, come lo sapeva la Panduki che molto dovette soffrire tra aspirazioni, chirurgia, cannule e drenaggi a causa di una brutta infezione al polmone -vero Panduki che mi stai camminando sui tasti mentre scrivo?-. Sanno, dicevo, perchè capiscono le tue intenzioni. Non puoi ingannarli facilmente, se finisci con l'abusare della loro fiducia anche solo per un paio di volte, rischierai di dover uscire fuori dalla loro vita per sempre. Quella stessa fiducia non te l'accorderanno più. In questo, trovo, sono del tutto dissimili dal cane.
Possono essere imprevedibili solo se affetti e afflitti da una psicopatologia che li renda nevrotici.

Molti anni or sono regalarono a mio padre una gatta persiana grigio-smoke, bellissima. Se ne disfarono una coppia di sorelle troppo impegnate con il lavoro fuori casa allorquando si accorsero che la loro anziana genitrice, che odiava i gatti (chissà perchè me la figuro con radi capelli, barbuta e baffuta come una vera-strega), era solita rinchiudere la povera bestia, tutto il tempo fino al rientro delle figlie, nello sgabuzzino buio dove riponeva scope e detersivi. Minnie (la gatta si chiamava così) era psicopatica. Trasferita che fu nella nuova casa, ricordo che riparò sotto a un trumeau, dove stette rintanata per giorni senza mangiare e senza bere, fino a che, col passare del tempo, poco alla volta, si fece coraggio e ne uscì fuori. Di rado, quando l'uno o l'altro di noi della famiglia stava seduto sul divano, osava acciambellarglisi sulle ginocchia e mostrava di gradire le carezze. Anche le sue fusa tuttavia erano prudenti, col silenziatore. Purtroppo però poteva accadere che d'improvviso venisse assalita da qualche antico fantasma. Della strega baffuta? Chissà. E schizzava via in men che non si dica come l'avesse punta un calabrone, senza preavviso, senza segnali premonitori. La prima volta che uscì in giardino fu memorabile. Si avventurò sul prato con estrema circospezione. Il contatto con l'erba che mio padre aveva rasato con cura da poco, le dette un'insolito fastidio: ad ogni passo si scrollava le zampette, una a una, peggio che se stesse camminando su cocci di vetro. Ma la cosa più stupefacente avvenne quando un merlo la sorvolò da dietro, trillando contento a volo radente, finendo con l'atterrare a pochi passi dal suo muso. Un qualunque altro felino ne avrebbe approfittato per poi leccarsi i baffi. Lei ne rimase atterrita e letteralmente si appiattì, le quattro zampe divaricate, stesa come un tappeto di pelle bovina, in preda allo choc.

Sono dunque un'irriducibile catòfila (mio padre, a dire il vero, mi etichettò semplicemente "gattara", e non a torto, quando, abitando allora in campagna, arrivai ad ospitare 17 gatti tra residenti e non) e sui gatti potrei scrivere pagine e pagine. Nel corso degli anni ho avuto modo di osservarne i comportamenti, le relazioni parentali e amicali, le abitudini, l'ampio spettro di differenze tra individuo e individuo a partire dalla "voce" che li distingue nettamente uno dall'altro, e questo ha senz'altro favorito questa mia predilezione. Ma...nasce prima l'uovo o la gallina?

L'attrazione fatale, l'amore incondizionato verso questo animale è antecedente o secondario alla "conoscenza sul campo"? Si fonda su somiglianze caratteriali e affinità istintuali o è frutto della frequentazione privilegiata? Difficile rispondere.
Tutto quello che so e che posso dire con certezza è che, se guardiamo alla Storia, dobbiamo riconoscere che il nostro amico felis catus non sempre ha goduto dell'odierna benevolenza. Anzi, per secoli e secoli è stato temuto e cacciato, torturato e arso vivo come il povero Giordano Bruno, giudicato eretico perchè, forse proprio come il gatto, irriducibilmente fedele a se stesso. Non dimentichiamo che la "fortuna" di Galileo, che pensava come lui, consistette nell'abiurare. Dagli inizi del Medioevo fino al 1800 con l'Illuminismo, questa bestiola, della quale peraltro già gli Egizi e poi i Fenici riconoscevano l'utilità nel tenere a bada la proliferazione dei topi, distruttori e inquinatori di granaglie e veicolo di terribili epidemie pandemiche come la peste, fu fatta oggetto di odio e di vere e proprie persecuzioni. Forse fu soltanto il Poverello d'Assisi a spezzare una lancia "eretica" (il suo, ai tempi, fu quantomeno un pensiero divergente) con coraggio, anche a favore del gatto. Non ci sfugga che quest'ultimo da sempre è stato associato alla strega (diabolico camuffamento del Maligno in vesti femminili) perchè considerato il suo più fedele amico. Se il Medioevo può considerarsi periodo favorevole alle Arti in generale, resta il fatto che fu davvero buio nel promuovere un'oscurità ed un oscurantismo massimo per quella che era la condizione della donna e del gatto che ne veniva considerato simbolo.
Si sa dello sterminio di gatti e "padrone" ad opera del Papa Gregorio IX che, all'uopo, promulgò un editto (era il 1233). Tanto perchè non cadesse nel dimenticatoio, anche il Papa Innocenzo VIII, con il tristemente famoso Malleus Malleficarum del 1486, scomunicò ufficialmente tutti i gatti e le loro "amiche" , dando precise indicazioni circa quali fossero "i sintomi" atti a far sospettare di stregoneria e decretando "il meglio dell'efficienza" della Santa Inquisizione.
L'ultima traccia rinvenuta scritta in cui si ha notizia di un gatto giustiziato, risale al 1712.
Si può inoltre osservare come nel corso di questi stessi secoli passati, da quando sempre più si andarono sviluppando gelosie ed odio nei confronti dell'Islam, che da sempre invece ama e rispetta profondamente il gatto nel mentre stigmatizza il peggio dell'umano con l'espressione "figlio d'un cane" o "di 7 cani", e da quando si diffuse la triste cultura maschilista e sessista e sessuofobica che sovrappose l'immagine della donna impura, creatura potenzialmente diabolica, sovrapponibile a quella dell'animale che meglio la rappresentava, va da sé che il gatto non godette di alcuna protezione.
Se aggiungiamo inoltre che certe caratteristiche che accomunavano vistosamente il felino alla strega potevano rendere ragione anche epifenomenicamente delle affinità tra i due, come le movenze sensuali, l'amore per la pulizia (che nel medioevo era tassativamente proibita tanto che fu fatto scempio di gran parte delle strutture sanitarie pubbliche costruite dai Romani), e lo sguardo magnetico e intelligente (l'intelligenza e l'indipendenza del giudizio e affettiva può far paura anche oggi), allora comprendiamo senza troppo stupore come ci siano voluti secoli interi per riaccreditare l'incolpevole bestiola.
Se inoltre consideriamo certe caratteristiche, come la luminosità notturna dei suoi occhi, la elettrostaticità del pelo, le capacità "divinatorie" di prevedere cambiamenti climatici (col suo orecchio è in grado di percepire cambiamenti di pressione atmosferica e di concentrazione d'umidità nell'aria che lo assimilano fatalmente a Satana "Principe dell'aria") e se aggiungiamo alla sua scaltrezza la flessibilità serpentiforme dei movimenti dlla sua coda ed anche la sua silenziosità nell'apparire e scomparire, dunque la sua "invisibilità" tantopiù se il manto è nero, il raffronto con l'iconografia del Maligno è reso possibile al massimo grado.
Molto più semplicemente, dell'innegabile affinità tra gatto e donna, come peraltro del loro millenario affiatamento reciproco, si potrebbe trovare ragione semplicemente considerando che, nel mentre il cane serviva "in esterno" affiancando l'uomo nella caccia o nella pastorizia, il gatto serviva "all'interno" per la caccia ai topi (e per mettere quantomeno in allarme contro serpenti, scorpioni e altri piccoli animali, tanto silenziosi quanto pericolosi) che fin dall'antichità potevano insidiare l'ambiente domestico, quello spazio intorno al focolare dove da sempre vivevano le donne con i loro bambini.
Mi viene in mente un'osservazione di Desmond Morris a proposito della paura innata (robe da paleocorteccia e non già da neocorteccia) che le donne, più che gli uomini, hanno nei confronti dei topi e in genere dei piccoli animali. E' un'antica paura, ancora inscritta nelle strutture profonde del cosiddetto cervello primitivo, funzionale a proteggere la prole dalle pericolose insidie che, quatte quatte, potevano mettere in serio pericolo l'incolumità e la vita dei cuccioli umani raccolti nell'interno della grotta assieme alle loro madri. L'uomo, cacciatore o raccoglitore che fosse, viveva più all'esterno.

Che sia, anche questo, un motivo dell'innata sintonia tra me e il gatto? Delle due l'una: o è perchè son donna, oppure potrebbe essere perchè son strega. Oppure, e sempre plausibilmente, perchè sono anch'io, dopotutto, un animale tendenzialmente solitario e libertario, inguaribilmente neotenico e materno (ho sempre pensato che queste due caratteristiche siano strettamente correlate, se non inscindibili). O forse invece, assai più banalmente, perchè io stessa conosco la facilità con cui noi umani riusciamo a stringere un profondo legame affettivo col cane, creatura dipendente e fedele per antonomasia. Nessun altro animale riesce a darci facilmente quella stessa sensazione di esclusività e di insostituibilità nel rapporto. Ecco allora che ritengo sia possibile prevedere che il nostro amico cane potrà godere a lungo e più facilmente di una più diffusa predilezione, mentre considero che il gatto, più difficile da comprendere, rispettare e amare, sia maggiormente esposto alle variabili culturali che potrebbero, ancora una volta nella storia, non giocare a suo favore. L'amore di cui il felino domestico ha bisogno si fonda sul rispetto, quello che ci orienta in maniera privilegiata verso il cane, talvolta, sul senso del possesso. Se avete una personalità tendenzialmente autoritaria, dispotica o gregaria (due facce della stessa medaglia), di quella tipologia che venne attentamente studiata dai sociologi Horkheimer e Adorno subito dopo la barbarie della seconda guerra mondiale e del nazismo, non cimentatevi col gatto. Potreste non capirvi proprio e arrivare ben presto ai ferri corti. E a dolersene maggiormente, per certo, sarebbe il gatto.