Siamo tutti consapevoli che l'umanità si divide in due schieramenti, quello che dice di preferire il gatto, l'altro che dice di preferire il cane.
Nella mia vita ho amato gli uni e gli altri, ma la mia preferenza va, d'istinto, inequivocabilmente, al gatto. Da sempre me ne chiedo il motivo, ed è mia intenzione qui cercare di rispondervi, non senza l'ausilio di poeti e letterati che ne hanno cantato... l'incanto.
Scrive Rousseau: "E' segno del carattere, se non vi piacciono i gatti, siete inclini all'istinto umano del dispotismo . Il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali." Gli fa eco Mark Twain "può acconsentire ad essere il vostro compagno, non sarà mai il vostro schiavo." William S. Burroughs, analogamente, asserisce che chi odia i gatti rispecchia uno spirito brutto, stupido, grossolano e bigotto e aggiunge: "un gatto non offre servigi, offre se stesso". Neruda lo sintetizza così: "Orgoglioso, cammina solo e sa quel che vuole", in sintonia con Pessoa che, con un'analoga sintesi in una sua famosa poesia dedicata all'amato felino scrive: "gatto che giochi per via / come fosse il tuo letto /...senti solo quel che senti; / sei felice perchè sei come sei, / il tuo nulla è tutto tuo."
Proiezioni? Può darsi, naturalmente. Ma che il cane sia un animale gregario che ha bisogno del branco e rispettoso delle gerarchie, a differenza del gatto, sembra ampiamente suffragato dagli studi degli etologi. D'altronde ce lo insegna anche la Storia. Il cane è stato addomesticato già 30.000 anni or sono, nel mentre il gatto è di domesticazione assai più recente: 9.000 anni se l'aver reperito i resti di questo felino sepolti accanto ad un umano in una tomba nell'isola di Cipro può essere giudicata testimonianza d'una affezione "domestica", 5.000 se prendiamo a testimonianza il suo culto, i geroglifici e i suoi resti nelle tombe dell'antico Egitto. E' del tutto comprovato, inoltre, che il cane fosse già sociale (come il lupo) prima di diventare socievole.
E' stato scritto che il cane è credente, il gatto ateo, e anche che il cane ha bisogno del padrone nel mentre il gatto è padrone egli stesso. Del "mistero" del gatto hanno scritto in molti. "Occhi d'agata e metallo", così lo canta Baudelaire. Sentite Pinin Carpi: "Sul suo distacco la ragione slitta, numeri d'oro stanno nei suoi occhi" e ancora "al buio diventa un tepore accarezzato".
Come resistervi quando il conflitto tra ragione e sentimento si fa insanabile e l'istintintualità della piacevolezza del tatto, alla ricerca di calore e morbidezza, cullata dal carezzevole ron-ron, sommesso e monotono pulsare di un cuore d'onde, ha il sopravvento?
"..La tua gattina...Non la senti vibrare come un cuore sotto alla tua carezza?" Così recita un verso di Umberto Saba.
Il compianto Giorgio Celli, famoso accademico, etologo e divulgatore anche televisivo recentemente scomparso, chiamava il gatto "decima Musa". Non fanciulla, non residente sulle pendici del Parnaso, ma silenziosa presenza che si aggira ovunque fra noi, tra i giardini e i tetti.
Già: una musa, la Musa, ispiratrice di molti tra poeti e scrittori.
Forse perchè ci ispira pazienza, forse perchè incarna l'armonia e la bellezza proprie dell'Arte.
Forse perchè la sua eleganza e sobrietà hanno un potere tranquillante. Il suo essere l'animale del silenzio, elemento essenziale all'ispirazione, spesso abbandonato al piacevole sonno dei giusti ma sempre pronto a ritornare prontamente vigile, ne fa un simbolo della fantasticheria creativa, del pensiero silente che si concretizza in parola scritta. Un perfetto simbolo dell'otium, favorevole, anzi necessario, al negotium.
Personalmente amo il gatto per la sua imperfetta domesticità, per il perenne conflitto che sembra albergare in esso tra la sua esigenza di animale libertario e solitario mai del tutto confidente, e l'attrazione innata per le coccole di tipo materno cui ama affidarsi invece anima e corpo.
Tra l'altro, non mi è possibile sciogliere il dubbio amletico se sia il gatto a farsi adottare da noi o noi a farci adottare da lui. Mi spiego. Avete presente il suo muso? La fronte spaziosa e bombata? Gli occhi grandi, tondi, l'espressione placida, indifesa e gaudente di quando lo accarezzate? Sono caratteri neotenici, quegli stessi che, enfatizzati per esempio in Bambi, hanno fatto la fortuna di Walt Disney e dei suoi cartoni animati. Hanno caratteri neotenici nei tratti, infantili e commoventi, atti a suscitare benevolenza come d'istinto i cuccioli, che permangono nell'adultità. Ma sono anche neotenici "della mente, neotenici etologici, che hanno conservato nella vita adulta non solo il ricordo, ma la possibilità di comportarsi come i gattini che erano" (Giorgio Celli). Ne è testimonianza il loro pervicace mantenimento di un gesto del tutto infantile, quello di "impastare" alternativamente con le zampine, quando, occhi chiusi e in sollucchero, ripropongono la beatitudine di quando suggevano il latte materno e, così facendo, ne promuovevano "la mungitura". E noi umani, d'istinto, li adottiamo volentieri.
Ma altrettanto volentieri ci facciamo adottare e siamo loro grati se ci trattano come prole inetta allorquando ci insegnano ad acchiappare una preda commestibile. Non possiamo che essere loro grati quando ci depositano sullo zerbino fuori dall'uscio il cadavere di un volatile o quando, per esempio, ci consegnano un topino, mezzo morto di paura nel cuore d'una notte di mezz'estate ai piedi del letto ed hanno la pretesa, liberandolo dalle fauci per poi riacchiapparlo dinanzi al nostro sguardo, di insegnarci come s'ha da fare.
Altra testimonianza del loro carattere neotenico è quel corollario di suoni e versi , di differente musicalità ma sempre "sinuosi", giocati spesso sui suoni acuti, infantili e accattivanti appunto.
Nell'arco della mia vita, non mi è mai mancata la compagnia di un gatto. Nemmeno quando, neonata sazia di latte materno, venivo riposta nella mia culletta di vimini, seminascosta da veli di tulle. Acciambellato ai miei piedi, sempre rispettoso e mai invadente, ronfava placido, d'abitudine (dormivamo 16 ore al giorno tutti e due), un grosso gattone persiano di colore grigio. Ch'io sappia era il primo di una lunga serie di gatti, immancabilmente grigi, cui mia nonna avrebbe dato sempre il nome di Nichi, forse in omaggio a Nikita Kruscev di cui avevo occasione di sentir parlare al giornale-radio, dopo l'inconfondibile trillo che fungeva da stacchetto nelle trasmissioni degli anni '50, gli anni della mia primissima infanzia trascorsa nella casa dei nonni paterni. So per certo che per me furono, uno dopo l'altro, "Nichi-Nichi". Non so perchè ma mi piaceva raddoppiarne il nome. Carattere neotenico anche il mio, probabilmente.
Anche quando divenni studentessa universitaria, nello spazio angusto del mio alloggio patavino, mi faceva compagnia un meraviglioso, dolcissimo meticcio persiano grigioperla. Dietro la suggestione di un racconto del mio Prof. di Psicologia Fisiologica a proposito d'un suo paziente afasico che aveva residuato come unica possibilità verbale il bisillabo "pachi", gli detti nome Pachi-Pachi.
In seguito, quando dopo dodici anni di una anomala "libera-professione" finalmente entrai di ruolo come psicologa presso una delle neoistituite Unità Sanitarie Locali, in totale astinenza da gatto da un tempo insopportabilmente lungo, ritornata ad abitare la casa che fu dei miei nonni e mi vide bambina, mi lasciai sedurre da un bigliettino appeso nella bacheca del vicino negozio di animali: "Regalo gattino...". Fu così che, nella mezzora di pausa pranzo, trovai il tempo per andarmi a prendere una spendida gattina (di madre siamese e padre persiano grigio) di appena due mesi. Non potendo fare altro di meglio, ritornata in tutta fretta al lavoro, la ricoverai semplicemente ai piedi della scrivania sperando che il bambino mutacico, che avevo come primo appuntamento del pomeriggio, non se ne avvedesse o non ne ricevesse turbamento. Quel bambino di soli 8 anni era da tempo una "vecchia conoscenza" del Servizio Materno-Infantile; l'avevo "ereditato" da qualche tempo da un collega uscente che lo considerava un "caso disperato". Nessuno, a scuola o fuori casa, gli aveva mai sentito profferire verbo, in casa era normalmente loquace. Era un bimbo timidissimo, di corporatura gracile e mingherlina che vestiva pantaloncini corti di lana, modello d'antan, e un'inseparabile cappellino (una piccola calotta con un'enorme visiera) che ne metteva in mostra le grandi orecchie a sventola. Il collega mi raccontò che la prima volta in cui gli si sedette in fronte, al di là dell'orribile scrivania in metallo e fòrmica, su quella stessa seggiola modello-scuola-media-anni-'70 troppo alta per lui e dalla quale le sue livide ed esili gambine non potevano che penzolare, ebbe anche la sventura di lasciarsi scappare la pipì, della quale lo psicologo si avvide perchè insospettito da un ritmico gocciolìo che ben presto si era concretizzato in un'enorme pozza gialla sottostante.
Fu grazie alla gattina che si sbloccò. La raccolsi da sotto la scrivania dove si era rannicchiata, tutta tremante e spaesata, catapultata d'emblée in un mondo ostile dove non c'erano più né la calda pelliccia di mamma, né i giocosi fratellini, e gliela presentai. Fu una forte emozione per quel bambino, e amore a prima vista. Verso quell'animaletto, preda della paura e dello smarrimento che anche lui stesso doveva conoscere assai bene, entrò immediatamente in solidale empatia. Infatti esordì sbottando, con una voce decisa e tonante dal tono grave, quasi cavernoso: "ne ho una anch'io a casa, una gatta grande però... !". Da quel momento fu un fuoco di fila di domande: "dove l'hai presa? ce l'ha la mamma? e poi dove la porti?..." . Da quel giorno ebbi la sua fiducia e la possibilità di dialogarci serenamente fino a quando, ben presto, non se la sentì di incominciare a parlare anche a scuola ed io, felicemente orgogliosa della mia trasgressione di quel giorno, certa della sua guarigione per la quale non mi arrogavo alcun merito, lo dimisi.
Quella stessa gatta, di lì a un anno, fu la mia più grande compagnia nel periodo forse più delicato della vita quando, per nove lunghi mesi, non si sottrasse mai un istante dall'accudirmi amorevolmente, alleviando egregiamente la mia solitudine e le mie ansie gravidiche. Era la mia ombra, anche in bagno. Più di una volta, accadde che si avvicendasse a me nel fare la pipì, centrando perfettamente il buco della tazza. Avevo l'impressione che giudicasse lo scendere le scale, fino alla sua lettiera, un'inutile e rischiosa perdita di tempo: avrebbe dovuto separarsi da me. Mi consolava soprattutto la notte quando, perennemente appollaiata sul mio pancione, la sentivo fissarmi con benevolenza attraverso le palpebre socchiuse dei suoi occhi accesi di fosforo nel mentre mi cullava ronronnando con il suo instancabile motorino a bassi giri.
La chiamai Eminé come il personaggio femminile di un pregevole film turco di cui non ricordo, purtroppo, né il titolo né il regista, che in una notte insonne ebbi l'occasione di veder passare in TV. Nella pellicola, struggente testimonianza dei costumi arretrati di certi pastori dell'interno della Turchia, si narra di una giovane donna maltrattata la quale, legata per punizione nella stalla adiacente casa, considerata emblematicamente alla stregua di una bestia da soma, finisce col morire di dolore e di stenti. Il film si chiude dopo che marito e figlio, responsabili del disumano trattamento, la trovano morta, e al suono delle loro voci che ne invocano il nome, ahinoi troppo tardivamente, risponde l'eco che rimbalza tutt'intorno sulle pareti brulle dei monti dell'Anatolia.
Eminé, detta Emi per brevità, era capace di strabilianti comportamenti empatici. Una sera non seppi trattenermi, mi colse un pianto irrefrenabile, tra lacrime e striduli singhiozzi. In conseguenza di ciò la vidi "andare nel panico". Non sapeva più cosa inventarsi, quali strategie mettere in atto a scopo consolatorio. Mi si strusciava freneticamente tra le gambe col rischio, e forse l'intenzione, di farmi perdere l'equilibrio fino a che non mi fossi seduta. Dopodichè mi venne delicatamente addosso. Era quello che voleva: un vis-àvis, per arrivare a leccarmi febbrilmente le lacrime, lamentandosi lei stessa con un mugolìo nervoso, acuto e intermittente, che non le avevo mai sentito prima. Dovetti smetterla per far smettere in lei tutta quell'agitazione febbrile. Capii in seguito che quello era il lamento preoccupato tipico della madre che chiama a raccolta i cuccioli, lo stesso che le sentii qualche anno dopo, quando ebbi a trasferirmi lontano dalla mia città natale, confinata in una desolata campagna, tutte le volte che uscivo dall'area del giardino di proprietà. Capii che stava riservandomi il meglio delle sue cure materne. Da quel momento non seppi più esattamente chi avesse adottato chi. Fu una straordinaria compagna di giochi per tutti i primi 11 anni di vita di mia figlia. La totale fiducia in noi (al nostro rientro aveva fiducia anche nella nostra automobile, certa che questa l'avrebbe scansata prima che lo dovesse fare lei stessa), identica a quella che riponevamo peraltro in lei, venne meno solo dopo che un vicino di casa, pur di non rallentare la sua folle corsa, la tirò sotto come un birillo, seduta com'era, a lato della stradina sterrata, intenta a fiutare gli umori serotini d'una incipiente primavera.
Tornando agli Autori, vorrei ricordare le parole di E. Hemingway: "Un gatto semplicemente conduce al successivo (ne ospitò fino a 30! n.d.s.)..." e ancora: "I gatti dimostrano di avere un'assoluta onestà emotiva. A differenza degli uomini, non riescono a nascondere i propri sentimenti." Non t'ingannano e non li inganni, aggiungo io. Sanno quando li fai soffrire nell'intento di aiutarli. Lo sanno come lo sapeva la Emi quando bastava che io le fossi accanto e lei offriva fiduciosa, al Veterinario e alla sua immensa siringa, l'incavo della sua zampina anteriore per la trasfusione. Lo sanno, come lo sapeva il povero Rodolfo Valentino detto Rudy, afflitto da chissà quale orribile malattia che lo rese glabro e rugoso come E.T., che sopportava di buon grado il fracasso dell'aerosol. Lo sanno perfettamente, come lo sapeva la Panduki che molto dovette soffrire tra aspirazioni, chirurgia, cannule e drenaggi a causa di una brutta infezione al polmone -vero Panduki che mi stai camminando sui tasti mentre scrivo?-. Sanno, dicevo, perchè capiscono le tue intenzioni. Non puoi ingannarli facilmente, se finisci con l'abusare della loro fiducia anche solo per un paio di volte, rischierai di dover uscire fuori dalla loro vita per sempre. Quella stessa fiducia non te l'accorderanno più. In questo, trovo, sono del tutto dissimili dal cane.
Possono essere imprevedibili solo se affetti e afflitti da una psicopatologia che li renda nevrotici.
Molti anni or sono regalarono a mio padre una gatta persiana grigio-smoke, bellissima. Se ne disfarono una coppia di sorelle troppo impegnate con il lavoro fuori casa allorquando si accorsero che la loro anziana genitrice, che odiava i gatti (chissà perchè me la figuro con radi capelli, barbuta e baffuta come una vera-strega), era solita rinchiudere la povera bestia, tutto il tempo fino al rientro delle figlie, nello sgabuzzino buio dove riponeva scope e detersivi. Minnie (la gatta si chiamava così) era psicopatica. Trasferita che fu nella nuova casa, ricordo che riparò sotto a un trumeau, dove stette rintanata per giorni senza mangiare e senza bere, fino a che, col passare del tempo, poco alla volta, si fece coraggio e ne uscì fuori. Di rado, quando l'uno o l'altro di noi della famiglia stava seduto sul divano, osava acciambellarglisi sulle ginocchia e mostrava di gradire le carezze. Anche le sue fusa tuttavia erano prudenti, col silenziatore. Purtroppo però poteva accadere che d'improvviso venisse assalita da qualche antico fantasma. Della strega baffuta? Chissà. E schizzava via in men che non si dica come l'avesse punta un calabrone, senza preavviso, senza segnali premonitori. La prima volta che uscì in giardino fu memorabile. Si avventurò sul prato con estrema circospezione. Il contatto con l'erba che mio padre aveva rasato con cura da poco, le dette un'insolito fastidio: ad ogni passo si scrollava le zampette, una a una, peggio che se stesse camminando su cocci di vetro. Ma la cosa più stupefacente avvenne quando un merlo la sorvolò da dietro, trillando contento a volo radente, finendo con l'atterrare a pochi passi dal suo muso. Un qualunque altro felino ne avrebbe approfittato per poi leccarsi i baffi. Lei ne rimase atterrita e letteralmente si appiattì, le quattro zampe divaricate, stesa come un tappeto di pelle bovina, in preda allo choc.
Sono dunque un'irriducibile catòfila (mio padre, a dire il vero, mi etichettò semplicemente "gattara", e non a torto, quando, abitando allora in campagna, arrivai ad ospitare 17 gatti tra residenti e non) e sui gatti potrei scrivere pagine e pagine. Nel corso degli anni ho avuto modo di osservarne i comportamenti, le relazioni parentali e amicali, le abitudini, l'ampio spettro di differenze tra individuo e individuo a partire dalla "voce" che li distingue nettamente uno dall'altro, e questo ha senz'altro favorito questa mia predilezione. Ma...nasce prima l'uovo o la gallina?
L'attrazione fatale, l'amore incondizionato verso questo animale è antecedente o secondario alla "conoscenza sul campo"? Si fonda su somiglianze caratteriali e affinità istintuali o è frutto della frequentazione privilegiata? Difficile rispondere.
Tutto quello che so e che posso dire con certezza è che, se guardiamo alla Storia, dobbiamo riconoscere che il nostro amico felis catus non sempre ha goduto dell'odierna benevolenza. Anzi, per secoli e secoli è stato temuto e cacciato, torturato e arso vivo come il povero Giordano Bruno, giudicato eretico perchè, forse proprio come il gatto, irriducibilmente fedele a se stesso. Non dimentichiamo che la "fortuna" di Galileo, che pensava come lui, consistette nell'abiurare. Dagli inizi del Medioevo fino al 1800 con l'Illuminismo, questa bestiola, della quale peraltro già gli Egizi e poi i Fenici riconoscevano l'utilità nel tenere a bada la proliferazione dei topi, distruttori e inquinatori di granaglie e veicolo di terribili epidemie pandemiche come la peste, fu fatta oggetto di odio e di vere e proprie persecuzioni. Forse fu soltanto il Poverello d'Assisi a spezzare una lancia "eretica" (il suo, ai tempi, fu quantomeno un pensiero divergente) con coraggio, anche a favore del gatto. Non ci sfugga che quest'ultimo da sempre è stato associato alla strega (diabolico camuffamento del Maligno in vesti femminili) perchè considerato il suo più fedele amico. Se il Medioevo può considerarsi periodo favorevole alle Arti in generale, resta il fatto che fu davvero buio nel promuovere un'oscurità ed un oscurantismo massimo per quella che era la condizione della donna e del gatto che ne veniva considerato simbolo.
Si sa dello sterminio di gatti e "padrone" ad opera del Papa Gregorio IX che, all'uopo, promulgò un editto (era il 1233). Tanto perchè non cadesse nel dimenticatoio, anche il Papa Innocenzo VIII, con il tristemente famoso Malleus Malleficarum del 1486, scomunicò ufficialmente tutti i gatti e le loro "amiche" , dando precise indicazioni circa quali fossero "i sintomi" atti a far sospettare di stregoneria e decretando "il meglio dell'efficienza" della Santa Inquisizione.
L'ultima traccia rinvenuta scritta in cui si ha notizia di un gatto giustiziato, risale al 1712.
Si può inoltre osservare come nel corso di questi stessi secoli passati, da quando sempre più si andarono sviluppando gelosie ed odio nei confronti dell'Islam, che da sempre invece ama e rispetta profondamente il gatto nel mentre stigmatizza il peggio dell'umano con l'espressione "figlio d'un cane" o "di 7 cani", e da quando si diffuse la triste cultura maschilista e sessista e sessuofobica che sovrappose l'immagine della donna impura, creatura potenzialmente diabolica, sovrapponibile a quella dell'animale che meglio la rappresentava, va da sé che il gatto non godette di alcuna protezione.
Se aggiungiamo inoltre che certe caratteristiche che accomunavano vistosamente il felino alla strega potevano rendere ragione anche epifenomenicamente delle affinità tra i due, come le movenze sensuali, l'amore per la pulizia (che nel medioevo era tassativamente proibita tanto che fu fatto scempio di gran parte delle strutture sanitarie pubbliche costruite dai Romani), e lo sguardo magnetico e intelligente (l'intelligenza e l'indipendenza del giudizio e affettiva può far paura anche oggi), allora comprendiamo senza troppo stupore come ci siano voluti secoli interi per riaccreditare l'incolpevole bestiola.
Se inoltre consideriamo certe caratteristiche, come la luminosità notturna dei suoi occhi, la elettrostaticità del pelo, le capacità "divinatorie" di prevedere cambiamenti climatici (col suo orecchio è in grado di percepire cambiamenti di pressione atmosferica e di concentrazione d'umidità nell'aria che lo assimilano fatalmente a Satana "Principe dell'aria") e se aggiungiamo alla sua scaltrezza la flessibilità serpentiforme dei movimenti dlla sua coda ed anche la sua silenziosità nell'apparire e scomparire, dunque la sua "invisibilità" tantopiù se il manto è nero, il raffronto con l'iconografia del Maligno è reso possibile al massimo grado.
Molto più semplicemente, dell'innegabile affinità tra gatto e donna, come peraltro del loro millenario affiatamento reciproco, si potrebbe trovare ragione semplicemente considerando che, nel mentre il cane serviva "in esterno" affiancando l'uomo nella caccia o nella pastorizia, il gatto serviva "all'interno" per la caccia ai topi (e per mettere quantomeno in allarme contro serpenti, scorpioni e altri piccoli animali, tanto silenziosi quanto pericolosi) che fin dall'antichità potevano insidiare l'ambiente domestico, quello spazio intorno al focolare dove da sempre vivevano le donne con i loro bambini.
Mi viene in mente un'osservazione di Desmond Morris a proposito della paura innata (robe da paleocorteccia e non già da neocorteccia) che le donne, più che gli uomini, hanno nei confronti dei topi e in genere dei piccoli animali. E' un'antica paura, ancora inscritta nelle strutture profonde del cosiddetto cervello primitivo, funzionale a proteggere la prole dalle pericolose insidie che, quatte quatte, potevano mettere in serio pericolo l'incolumità e la vita dei cuccioli umani raccolti nell'interno della grotta assieme alle loro madri. L'uomo, cacciatore o raccoglitore che fosse, viveva più all'esterno.
Che sia, anche questo, un motivo dell'innata sintonia tra me e il gatto? Delle due l'una: o è perchè son donna, oppure potrebbe essere perchè son strega. Oppure, e sempre plausibilmente, perchè sono anch'io, dopotutto, un animale tendenzialmente solitario e libertario, inguaribilmente neotenico e materno (ho sempre pensato che queste due caratteristiche siano strettamente correlate, se non inscindibili). O forse invece, assai più banalmente, perchè io stessa conosco la facilità con cui noi umani riusciamo a stringere un profondo legame affettivo col cane, creatura dipendente e fedele per antonomasia. Nessun altro animale riesce a darci facilmente quella stessa sensazione di esclusività e di insostituibilità nel rapporto. Ecco allora che ritengo sia possibile prevedere che il nostro amico cane potrà godere a lungo e più facilmente di una più diffusa predilezione, mentre considero che il gatto, più difficile da comprendere, rispettare e amare, sia maggiormente esposto alle variabili culturali che potrebbero, ancora una volta nella storia, non giocare a suo favore. L'amore di cui il felino domestico ha bisogno si fonda sul rispetto, quello che ci orienta in maniera privilegiata verso il cane, talvolta, sul senso del possesso. Se avete una personalità tendenzialmente autoritaria, dispotica o gregaria (due facce della stessa medaglia), di quella tipologia che venne attentamente studiata dai sociologi Horkheimer e Adorno subito dopo la barbarie della seconda guerra mondiale e del nazismo, non cimentatevi col gatto. Potreste non capirvi proprio e arrivare ben presto ai ferri corti. E a dolersene maggiormente, per certo, sarebbe il gatto.
cane E gatto..................confesso di non aver letto tutto con l'attenzione dovuta ma sto sulla fiducia.....e poi io amo i cani e non vorrei essere troppo di parte visto che in questo momento, Priscilla la mia boxer, sta appoggiando la sua testona sulle mie ginocchia....
RispondiEliminaInteressante come sempre la tua analisi, resa ancora più piacevole dalle tue esperiemze personali che trovo davvero "scalda-cuore".
RispondiEliminaIo pure amo gatti per la loro straordinaria dignità e indipendenza , per la grazia e la bellezza che regalano a noi con una consapevolezza del tutto felina. Amo i cani , ma ahimè la loro condizione di dipendenza dall'uomo mi porta a sentire anche tanta pietà per loro , in quanto dipendono da un essere che può essere un amico , ma anche un mostro, e loro, i cani, non ne vedono la differenza e la subiscono, al contrario del gatto che non acetta la violenza... è quello che tutte noi vorremmo fare: riuscire ad essere indifferenti e sfuggire alla violenza no?...solo che noi donne sì somigliamo ai gatti , ma purtroppo non siamo altrettanto abili e il nostro equilibrio a volte non è sufficiente per portarci fino alla salvezza. :) Ciao da Caly.
Cane o gatto? Beatles o Rolling Stones? Peppone o Don Camillo? La semplificazione del pensiero in categorie dicotomiche è un vizio che ha caratterizzato l’uomo ad ogni latitudine e in ogni epoca. Un altro viziaccio persistente è quello Marzulliano di “farsi domande e darsi risposte”. Prima dell’avvento di Darwin e, successivamente, della genetica, l’uomo ha riflettuto molto sulla sua natura, autoescludendosi o autoincludendosi nel regno animale, a seconda dei casi. Ad ogni modo, la conseguente produzione simbolica in materia è impressionante: dal linguaggio verbale alla toponomastica, dalla cosmogonia aborigena australiana alle tecniche di caccia, i riferimenti alla sfera animale si sprecano. Ma da dove deriva tutta questa attenzione verso gli animali? Che uno creda in Adamo o in Darwin, non cambia il dato oggettivo che l’animale, domestico o selvatico che sia, è da sempre presente e co-protagonista della vita dell’uomo. L’animalità, la bestialità, ha sempre rappresentato la non umanità (di nuovo con il pensiero dicotomico, uff!): in realtà, un crogiolo di proiezioni negative di sé, che l’uomo riteneva saggio non attribuirsi (il lupo cattivo, il gatto traditore, ecc.). Il continuo sconfinare degli uomini nell’universo astratto delle rappresentazioni simboliche, ha partorito esempi di commistione tra il mondo concreto animale e la realtà mentale, psico-logica (nel senso di logos) dell’uomo, proiettata all’esterno. L’attribuzione di caratteristiche antropomorfe agli animali, dal gatto con gli stivali a Paperino, o al contrario di caratteristiche animali ad esseri umani o addirittura alla personificazione stessa di concetti astratti sotto forma di animale (colomba bianca= pace, gatto nero= male, mulo= cocciutaggine, orso= dotato di scarsa sensibilità, ecc.) sono assai comuni e testimoniano come la relazione uomo-animale sia un punto di riferimento, se non addirittura una struttura cardine del modo di pensare umano, come esempio di alterità eterospecifica (riconosco un cane e mi rendo conto che non sono un cane) nel processo antropo-poietico. Alcuni autori come Paul Sheperd o Irenäus Eibl-Eibesfeldt .sostengono che gli uomini hanno una naturale propensione verso gli animali, suggerita dal fatto che, ad esempio, riusciamo ad attribuire facilmente caratteristiche zoomorfe ad oggetti inanimati (nuvole rocce). Allargando la prospettiva all’etologia, i casi di propensione verso una specie altra sono anch’essi numerosi: la collaborazione tra animali (ippopotamo e uccelli pulitori), l’adozione di cuccioli di altre specie, l’imprinting dei volatili, e così via. I caratteri neotenici, che hai menzionato, sono uno di questi aspetti che ci spingono a provare dei sentimenti verso la “bestiolina” in questione. Questo secondo me è il punto fondamentale. Le teorie che spiegano la propensione verso l’alterità animale, come retaggio di un passato “animalesco” sono affascinanti ma opinabili. Difettano di un particolare: la soggettività dell’individuo. E qui subentra la psicologia. Il “nostro” animale “domestico” (preferisco l’inglese pet) è più di un animale qualsiasi (tant’è vero che ha un suo nome proprio al quale spesso risponde), è un soggetto unico, con il quale instauriamo una relazione di scambio a più livelli: dal più elementare scambio di cibo, al più sofisticato scambio di affetto (chiamiamolo così per semplicità). Quando si dice “mi manca il mio cane/gatto” o quando parli di “astinenza da gatti”, è evidente che quello di cui si parla non è un animale, ma un partner-animale, un soggetto che interagisce con noi, dal quale riceviamo degli input emotivi che ci danno piacere e ai quali cerchiamo di contraccambiare per mantenere questa reciprocità. Morale della favola: non so quale sia il confine tra animalità e umanità, ma so per certo che più apprezzo l’animalità, meglio sopporto la mia umanità. Come al solito prolisso. Detto questo, vado a portare fuori il cane del mio coinquilino, anche se preferirei le fusa di un gatto.
RispondiEliminaMi manca la mia Panduchi. " E non ho altro da dire sulla faccenda".
RispondiEliminaMIAO e GRAZIE, una "GATTA" di Castrocaro Terme e Terra del Sole
RispondiEliminaquello nella foto è il mio gatto!
RispondiEliminaE' un uomo che dopo diversi mesi che sta insieme a te ti dice che la sua convivente è una gatta (cosa che ha sempre detto sin dall'inizio) e alla quale io ho scoperto di essere allergica. Prima di lasciarmi diceva di continuo che stava bene solo con la sua gatta e che gli bastava??? ...
RispondiEliminamolto bello, però lungo così è meglio allungarlo ancora di più per scriverne un libro ;)
RispondiEliminaGrazie per l'apprezzamento, Marco. Mi ha fornito l'occasione di curiosare nel tuo blog e di leggerti. Mi auguro che ti legga anche il tuo Sindaco. Mi è piaciuta anche, e particolarmente, la tua poesia "gattofila"; si evince che scrivi come vedi e osservi, con l'immediatezza e la potenza di sintesi propria del fotografo, quello bravo.
EliminaUn noto Psichiatra una volta confessò:" Per amare questa professione, come quella di Psicologo", si parte da un profondo conflitto personale, irrisolto. Leggendo i "voli pindarici" della Crosato, nell'encomio della figura felina, se ne intuisce la ragione. In realtà definire un cane e un gatto è molto più semplice del "rosario" soprascritto. Infatti "....è abitudine dell'uomo essere prolisso quando e' convinto di un pensiero e sopratutto quando vuole convincere gli altri della propria idea". In realtà il cane è l'unico essere vivente sul pianeta, in grado di amare il proprio amico umano, per tutta la vita e di immolarsi, nel vero senso della parola, per lui. Il gatto, in realtà, ama solo se stesso e le proprie comodità. Il gatto ama chi gli dà da mangiare. (Molte donne amano i gatti e molte donne, sono prolisse proprio quando cercano di "giustificare" tale amore). Provate a chiedervi, adesso, il perchè ;-) - Saluti/Mirko
RispondiEliminaQuale perversa psiche può portare una donna a rinchiudere in trasportini dentro un locale una trentina di gatti da anni? Ogni giorno dargli da mangiare e curarli se si ammalano?
RispondiEliminaCane e gatto sono esseri completamente diversi.Il cane in natura nasce in una struttura sociale (il branco) e ad esso farà sempre riferimento per l'alimentazione, la sicurezza, la riproduzione e la difesa. Il gatto, una volta adulto, deve contare solo su sé stesso. E' questo a determinare il modo di rapportarsi delle due specie all'uomo: per il cane il padrone svolge la funzione di capo branco (e non di amico da amare incondizionatamente come si crede) e l'equilibrio del suo rapporto con lui risiede proprio nella capacità del proprietario di comportarsi come tale.Il gatto non ha un individuo capo e di conseguenza neanche un padrone. L'uomo per lui è, a seconda delle circostanze, un surrogato della madre da cui ricevere cibo e protezione o un felino adolescente cui insegnare le tecniche di caccia. C'è da dire che i pregiudizi sul gatto sono duri a morire e sostenuti a spada tratta dagli amanti dei cani, che, spiazzati dalla complessità della loro natura e dalla difficile interpretabilità dei loro comportamenti, trovano più comodo etichettare il gatto come egocentrico ed opportunista. Gli etologi ed i comportamentisti lo ripetono sempre: il cane che salva il padrone o individui della sua famiglia lo fa perché vede in essi il capobranco o altri membri del branco stesso. E,' in pratica, un comportamento insito nella specie
RispondiEliminaComplimenti per il pezzo.
RispondiEliminaAnch'io, avendo sempre avuto un gatto in casa, ho voluto omaggiarlo nel mio blog:
http://liceo-classico-permanente.blogspot.it/2013/11/cats-gatti.html
Amo i gatti. ne ho 5, 4 maschi e una femmina che purtroppo è diventata cieca a causa dell'età. hanno età diverse 17, 15, 13,4 e 3 anni. li amo tantissimo ma...amo tanto anche i cani, ne ho 2. di 15 e 13 anni. è un problema? se una mamma ha 2 figli di carattere e aspetto completamente diversi non li ama forse in misura uguale?
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