giovedì 9 febbraio 2012

Chiacchiere di Carnevale



Dato il titolo ambiguo, conviene spiegare che mi accingo a chiacchierare tra me e me o tutt'al più con i miei pochi e benevolenti lettori, con pensieri in libertà, non importa se scomposti e slegati. Questa forzosa clausura, data l'eccezionale nevicata tutt'ora in corso, per la seconda settimana consecutiva, e che si accompagna ad un gelo letteralmente polare (ho capito perchè si dice "buriana", dal burian, freddissimo vento artico che deposita la neve in scomposti turbinii), di necessità ci tiene lontani dai nostri simili e dalla possibilità di scambiare anche solo quattro parole con anima viva. Mai come in questi giorni mi sento desiderosa di contatti umani com'è peraltro nella natura di noi animali sociali afflitti dalla nostra ontologica solitudine cui solo le parole parlate, lette o scritte, danno consolazione.
Data la stagione in cui "semel in anno licet insanire" e un latente desiderio di dolcetti carnevaleschi (chiacchiere, crostoli o galani a seconda delle diverse regioni), il titolo si è, per così dire, scritto da solo.
C'è poco da disambiguare però: le chiacchiere spolverate di zucchero vanigliato dovranno attendere, impossibili a farsi senza le uova che, come moltissimi altri generi alimentari freschi, mancano già da qualche giorno sugli scaffali dei supermercati. Non restano che le altre, quelle fatte di parole.
E anche qui, dato l'isolamento, tocca accontentarsi di interlocutori illusorii: il foglio bianco andrà benissimo.

Disambiguare le parole per dare loro il giusto senso...

Consideravo al momento, nella buriana dei miei pensieri, che è il contesto a fare la differenza tra i due o più significati che talvolta una stessa parola può avere. E' cioè sempre il contesto che disambigua il testo, e questa è una precipua caratteristica, intrinseca, del linguaggio.
Esistono parole, tantissime in verità, che hanno più d'un significato: fiasco, stufa, pesca, merlo, temporale, mento, collo, fronte, molare, faccia, volto. Fiasco come tipo di bottiglia ma anche come insuccesso, stufa come apparecchio utile a scaldarsi o sinonimo di "stanca", pesca come frutto o come sistema per catturare il pesce, merlo come uccello dal piumaggio nero o dettaglio di finitura di una torre guelfa, temporale come fenomeno atmosferico o zona del cranio o ancora relativo al tempo inteso come Xronos, collo come anche pacco postale, fronte come anche zona di guerra in prima linea, molare, faccia e volto come anche verbi. Normalmente non rileviamo alcuna ambiguità perchè, di norma, è il resto della frase a suggerirci il senso giusto di ogni parola, talchè il con-testo regola il senso. Qualcosa di simile accade quando le parole interagiscono con le immagini (e dunque con contesti) differenti. La stessa figura, cosiccome una stessa parola, assumerà diverso significato a seconda dello sfondo sul quale si staglia, della contiguità con elementi diversi dello stesso campo, ma anche del colore con il quale viene scritta, delle dimensioni, del tipo di carattere o grafia e degli elementi paratestuali in generale.
Di queste faccende sono competenti, oltre ai linguisti, i pubblicitari e gli studiosi della comunicazione in generale e, oltre a loro, tutti coloro i quali sanno bene che il gran problema è comunicare per poter...comunicare (come dire e cosa dire per esprimersi e farsi capire).
Ovviamente le ambiguità di senso possono essere utilizzate, nella comunicazione, anche a scopo manipolatorio, con la precisa intenzione di ingannare o fuorviare, oppure possono più semplicemente essere usate secondo forme retoriche che rimandano al linguaggio persuasivo, oppure possono essere utilizzate nel linguaggio comico o surreale.
Credo, in ogni caso, convenga avere conoscenza di tali meccanismi, vuoi per usarli in maniera opportuna impossessandosene, vuoi per poterci difendere da chi questi meccanismi li usa in modo discutibile.
A tal fine voglio suggerire un prezioso libello dal titolo "Le vie del senso" -come dire cose opposte usando le stesse parole- ed. Carocci, scritto da Annamaria Testa.
Sempre per contiguità, mi viene in mente un'altra lettura estremamente interessante: "La manomissione delle parole", dove l'autore -Gianrico Carofiglio- mette in guardia dall'uso improprio o deliberatamente mistificatore che sempre più spesso ne viene fatto. Di per sé, dice , le parole hanno un grande potere, talmente grande da poter essere considerate strumento per cambiare il mondo. Ma spesso, tuttavia, le abbiamo esaurite e consunte consumandole con usi impropri, eccessivi, inconsapevolmente o consapevolmente distorcenti. Se ne abbiamo abusato, dobbiamo restituire loro la "verginità, il senso, la dignità e la vita". Dobbiamo riflettere sul significato, ad es. di parole quali : giustizia, vergogna, responsabile, onore, dignità, ecc. Dobbiamo anche riflettere su tutti i linguaggi tecnici come per es. il linguaggio politico, quello medico o quello giuridico che si prestano più di altri a venir usati come lingua sacerdotale tesa a renderne ardua la comprensibilità per i non specialisti e che rischiano di configurarsi perlopiù come anti-lingua, come "terrore semantico" e forme compiaciute dell'esercizio del potere, come strumenti cioè, come li definiva Calvino, "utili più a non dire che a dire", tanto è vero che costituiscono linguaggi a sé, infarciti di neologismi incomprensibili ai più.
Le parole (dal greco " logos" ) fondano l'azione (la quale implica sempre una scelta) e la inscrivono in un panorama di senso, perchè il logos si estende ad indicare anche il discorso, ovvero il mettere insieme le parole che distinguono le cose tra di loro ed i rapporti esistenti fra le cose. Il logos, proprio dell'essere umano che parla e capisce, che si connette al verbo lego (raccontare, mettere insieme secondo un ordine razionale, scegliere), "è parola, pensiero, capacità di scegliere, abilità di raccontare". E noi umani, dotati della facoltà di parola, materializzatasi per la prima volta come simbolo grafico su di una tavoletta di pietra o su di un papiro passando da suono a rappresentazione, attraverso l'uso di questa, possiamo esplorare le profondità del nostro essere e le profondità del mondo, partecipando di entrambi, da uomini liberi.
La stessa parola "logos" può essere tradotta in modi diversi. Uno di questi, che corrisponde all'incipit del Vangelo di Giovanni, viene per solito tradotto con "Verbo" ne "In principio era il Verbo". Ci ha provato Goethe, nel suo Faust, traducendola con "potenza creativa", ma anche, progressivamente, con Parola, Pensiero, Energia, ed infine Azione. Hitler, saltando tutti i passaggi, ebbe a scrivere di apprezzare Goethe per questa sua definizione di logos come "azione". Dice Carofiglio: "è una deformazione inquietante: il significato di logos, privato del valore della parola e del pensiero, diviene azione senza senso, azione senza pensiero,...un -fare- astratto e indeterminato che, proprio per il fondarsi sul primato dell'azione e non del pensiero rischia di essere, nel migliore dei casi, un contenitore vuoto. Ne consegue, fatalmente, il disprezzo retorico e pericolosissimo, per le -parole- che invece fondano l'azione e la iscrivono in un panorama di senso." Una traduzione, quella che piaceva al dittatore, riduttiva, che ne tradisce l'intento di un impiego autoritaristico e manipolatorio.
Mi viene in mente ora che Mattew Fox, nel suo "Original blessing" (tradotto in Italiano con "In principio era la gioia" e con l'ottima prefazione del teologo Vito Mancuso), traduce la parola originaria "dabhar" come parola-energia creativa di Dio, ovvero come parola che implica anche atti concreti. Ecco allora, dice, che "il creato è il primo dei sacramenti, e la creazione non è nel passato, come dicono i fondamentalisti nel loro tentativo perverso, ancorchè inconscio, di imprigionare Dio (e quindi la sua creazione). La creazione continua, è una realtà in corso, essa è in noi e noi siamo in essa"... e "la Natura stessa è "scrittura primaria" dove "la dabhar fa appello sia all'emisfero destro del cervello -emisfero creativo- (gioco, affetto, amore), sia a quello sinistro -del linguaggio- (termini, conoscenza, verità). Non soltanto parole, dunque, ma fatti. Non soltanto un parlare, ma un vero e proprio creare."
In principio fu quindi, per Fox, una bene-dizione (e non la maledizione, non il peccato "originale", che origina e mette in moto), fu la teoria e la pratica che dice il bene: una bene-dizione originaria: non il dolore, ma la gioia, non la religione (come fredda conformità dottrinale) ma la spiritualità.
E la spiritualità, nell'intento del prefattore all'opera " è da intendersi come libertà, fiducia nella vita, capacità di critica, giudizio personale, amore per la bellezza, comunione con la natura e gli esseri umani". Non dovrebbe essere questo, anche, il senso del dialogare?
Oppure al principio di tutto fu la voce, e di essa la sua espressione primigenia: il canto, che con i suoi suoni melodici ancorchè inarticolati è linguaggio dell'anima e del sentimento, come ebbe a ipotizzare in un suo mirabile spettacolo l'attore di origine ebraica Moni Ovadia ? In fin dei conti la prima espressione vocale del neonato non è forse il canto, quello del gorgheggio modulato, ma anche del pianto ed in seguito della lallazione? Forse, come sostengono i maestri della Cabala, in principio era la voluttà di un canto (la prima parola ebraica della genesi "bereshit", in principio può essere anagrammata in "taeb shir", voluttà di un canto) chè creazione e rivelazione si manifestano attraverso il suono, sia esso quello dell'esplosione primigenia o relativo all'opera del Creatore, o ancora al sublime estro creativo del caso. Potente e ammaliante come il canto delle sirene che sconvolse Ulisse ma benigno come la voce di una madre che culla il figlio ancora in grembo, il canto accompagna lo stupore della creazione (anche artistica) e ci induce a ritenere che la nostra origine e l'origine dell'Universo che ci circonda cantino.
n canto, lo deducono dalla prima parola ebraica della
Ritornando a Carofiglio, leggo riportato l'incipit del famoso discorso di Barack Obama alle primarie : "...il nostro destino è scritto non per noi, ma da noi, da tutti gli uomini, da tutte le donne che non vogliono accontentarsi del mondo com'è: che hanno il coraggio di rifare il mondo come dovrebbe essere. ..."
Questo mi sembra essere il senso dell'espressione "scrivere la storia"; per scriverla, come dice Carofiglio, con l'autonomia, con la responsabilità, con la capacità di ricordare il passato e raccontarlo, -chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla-, con l'arte e il coraggio di leggere e raccontare le storie, possiamo cambiare il mondo, immaginare, "cercare" di rifarlo come dovrebbe essere,...ribellandoci, se del caso, al mondo "as it is" così com'è ... avendo il coraggio di essere rivoluzionari, di dire no." ... "Dire (o raccontare) -da logos- e scegliere -da lego- sono azioni, nella loro intima essenza, straordinariamente simili. "La parola ha in sé, nella sua radice, un potere vastissimo: essa crea e definisce la nostra rappresentazione del mondo, e dunque il nostro mondo, così come siamo capaci di conoscerlo. Allo stesso modo, l'atto della scelta trasforma la potenza in atto e dà forma a ciò che è indefinito. E nel definirlo, trasforma, cambia il mondo. Sia esso il nostro mondo privato e interiore, o quello esterno in cui entriamo in rapporto con i nostri simili. Scegliere -e dire- implica il passaggio da ciò che è indistinto a qualcosa cui possiamo dare un nome. Ci consente di passare dall'ignoto alla conoscenza, dalla sofferenza indecifrabile alla possibile salvezza."
L'ipocognizione, l'incapacità di dare un nome alle cose e alle emozioni, corrisponde ad una situazione tragica. Paradigmatico è il caso dei Tahitiani studiati da B. Levy che, incapaci di dare un nome al dolore spirituale, quando lo provavano, ricorrevano al suicidio. L'incapacità di designarlo, di identificarlo, dando quindi voce alla loro intensa sofferenza psichica, li spingeva al gesto estremo e, con esso, all'estremo mutismo. La violenza, del resto, auto o alloplastica che sia, è muta, ed è la conseguenza della miseria di parole, come anche Daniel Pennac (nel suo efficacissimo "Diario di scuola" ) ha testimoniato.
Nell'antica Grecia, culla di civiltà e della democrazia, sapevano bene che essere politici e vivere nella polis voleva dire che tutto si decideva con le parole e la persuasione, e non con la forza e la violenza.


martedì 3 gennaio 2012

Preferivo la Befana


Nei primi anni della mia infanzia aspettavo con ansia la nascita del Bambinello, e il giorno in cui finalmente l'avrei deposto nella sua culla-mangiatoia, e l'arrivo della Befana con i suoi doni. Babbo Natale mi era sconosciuto. Apparve più tardi, all'incirca, se non ricordo male, all'epoca in cui cominciavo a padroneggiare la scrittura, erano nate le mie sorelle gemelle e si era agli inizi degli Anni '60. Lo sentii come un usurpatore, una sorta di reificazione di un personaggio da "Carosello", un'invenzione consumistica che non riuscì mai a suscitare la mia spontanea simpatia e men che mai ad avere il fascino indiscusso dell'evento magico, dello stupore che di anno in anno si sarebbe rinnovato invece nell'attesa della buona vecchina. Diciamo che lo accettai, così moderno, così straniero, così Americano con i suoi jinglebells, soltanto per interesse: avrei goduto del doppio dei doni. Ma non ebbi mai per lui la stessa struggente e partecipata tenerezza che provavo per quel Bambinello, fulcro luminoso del presepe, che pure portava doni ai bambini buoni, nè ebbi mai l'identica simpatia che riservavo alla Befana che, sotto le mentite spoglie di una vecchia e brutta strega, tradiva un animo del tutto amorevole e generoso.
Pur non avendo alcuna cognizione antropologica o cosmologica, riconoscevo Gesù Bambino, per quanto oscuramente, come prototipo del "puer aeternus" il cui avvento, invocato da tutti i popoli anche prima della cristianità, era atteso come simbolo di rinascita e continuità della vita, frutto della sacra unione tra il vigore solare e la fecondità della Terra, Grande Madre di tutti, in un periodo dell'anno in cui, a causa del solstizio d'inverno, per tutti si rinnova la paura dello spegnimento dell'Astro Luminoso e della conseguente infecondità del suolo terrestre.
Pur non conoscendo la storia dei Veneti, la "mia gente", come popolo migratore adoratore del Sole che fin dalla preistoria procedette lungo il cammino dell'Astro fino al punto in cui non era possibile andare oltre nella regione bretone di Finistère (finis terrae), e pur non riconoscendo nel superstite rito dei falò praticato nella notte dell'Epifania la testimonianza di quell'adorazione, attendevo con ansia quella notturna festa campestre che avrebbe illuminato a giorno una delle notti più fredde e buie dell'anno. Mi sfuggiva totalmente il significato del rito propiziatorio dell'accensione del fuoco dei falò come forma di aiuto nei confronti del Sole che veniva in questo modo esortato a riscaldarsi e a risplendere per riprendersi dalla sua crisi invernale. Ignoravo la genesi ed il significato del rito alimentare della comunione del dolce tipico di questo periodo, i cui ingredienti corrispondevano simbolicamente a ciascuna delle principali risorse alimentari della Terra Veneta, come scambio propiziatorio. Eppure partecipavo trepidante dell'attesa e dell'incanto delle Feste Natalizie assaporandone la magia e i misteri perchè di questi (la Nascita, i doni dei Magi, la Stella Cometa, l'Albero, il Vischio, i Doni, "la Pinsa" prima che il Panettone...) partecipavo, intuendone, in qualche modo, il significato simbolico-augurale del rinnovarsi di un ciclo.

Non risolsi mai il mistero di come facesse la Befana a calarsi nel camino, di come potesse portare nella stessa notte tanti doni a tutti i bambini del mondo, di come riuscisse a riconoscere i meritevoli, o di come facesse a sopravvivere, senza scoppiare di indigestione e senza ubriacarsi di brutto, se in casa di ciascuno si andava rifocillando con una fetta di dolce (la tipica "pinsa" fatta di farina di grano e mais ricca di frutta secca) e un bicchiere di vino. Ma tant'è: il mistero è mistero, l'importante è crederci.
La magia vera, l'attesa partecipata e l'apparizione (epifania appunto) unica possibile in cui potessi credere (verificavo al mattino le tracce effettive tra la cenere del caminetto, piattino e bicchiere vuoti), erano possibili solo grazie alla Befana che mi rappresentavo come la mamma di tutte le nonne e bisnonne del mondo, un'adorabile vecchina, quintessenza della femminilità materna, eroicamente capace di sopportare uno sforzo titanico (figuriamoci caricare nel sacco quel mare di doni tra cui magari anche una biciclettina) in una notte sola, per tutti i bambini del mondo, fin dai tempi dei tempi...
E poi Babbo Natale, beh sì, lo si poteva anche chiamare "Papà" Natale, ma non sarebbe stato il suo Vero Nome, e dalle mie parti, nel Veneto, non si è mai sentito nessun bambino chiamare il proprio genitore di sesso maschile "babbo" (lo faceva solo Pinocchio che infatti era Toscano), ma sempre e solo "papà". E poi, Lui, portava i doni indiscriminatamente a tutti i bambini e non soltanto a quelli meritevoli, deponendoli sotto lo scintillante albero di Natale, nel salotto buono o tinello, in quella stanza più fredda adiacente la cucina, dove il nonno passava il tempo a fumare e a leggere il Corriere della Sera, appisolandosi a lungo per smaltire la fatica post-prandiale ma dove noi, tutti noialtri, non si stava quasi mai congiuntamente, se non certe sere, a guardare certi programmi TV di alto gradimento (Campanile sera, Lascia o Raddoppia, il Festival di Sanremo, Non è Mai Troppo Tardi del compianto Maestro Manzi...).
Sinceramente non c'era paragone tra il calore della cucina, stanza muliebre, dove avrebbe posto i suoi doni la Befana, e la freddezza del tinello, stanza maschile, dove li avrebbe posti Babbo Natale. Il tinello infatti era una stanza abitata perlopiù dall'anziano Capostipite, buona tuttalpiù per accogliere gli ospiti in visita, il più frequente dei quali era il Medico di Famiglia che vi compiva le sue taumaturgiche liturgie (la più magica tra tutte mi sembrava essere la misurazione della pressione arteriosa, nel mentre bisognava osservare un religioso silenzio carico soltanto dei sottili soffi dello sfigmomanometro, dal cui esito sembravano dipendere la vita come la morte).
Altro era la cucina, cuore pulsante della casa dove si affaccendavano perennemente le donne: la nonna, la mamma, fintanchè fu possibile permettersela anche la cameriera, e la bisnonna Antonietta che col suo sorriso perennemente benevolo trascorreva il tempo, quando non leggeva il Corriere della Sera in seconda lettura (toccava prima al nonno), confezionando pizzi e centrini all'uncinetto alla rapidità della luce (e come ci riuscisse con quel suo occhio spento, appannato e ceruleo, resta uno dei tanti misteri).
Credevo nella Befana come in Gesù, che per tutta l'infanzia mi raffiguravo Bambino, un bambino che cresceva con me e che immaginavo diventasse sempre più buono e giusto, più di quanto riuscissi a credere in Dio, un Padre che non mi riusciva di raffigurarmi se non come presenza immanente vagamente inquietante a causa della sua potenza punitiva. E a dir la verità li pregavo entrambe, Gesù sommessamente o con parole interiori specialmente la sera, la Befana una volta all'anno e con richieste orali rivolte ai "Grandi" della famiglia "per interposta persona", almeno fino a che non mi fu possibile vergare, direttamente a Lei, una composta letterina.
Pensavo alla Befana come ad una Grande Madre Giusta che, alla fine di ogni anno, avrebbe tirato le somme anche con me, valutando se sarei stata meritevole del carbone buono per la stufa oppure del carbone buono da mangiare offerto insieme ai doni.
Naturalmente temevo la sorpresa di una calza riempita col carbone da bruciare, quello stesso che un carretto recapitava di quando in quando a casa in forma di uova e di lingotti che venivano fatti scivolare giù per la bocca di lupo che se li inghiottiva fragorosamente per stiparli direttamente in cantina.
Ma in cuor mio sapevo che sarebbe stata una possibilità remota, più teorica che altro, e dunque mi aspettavo con più probabilità il carbone dolce (esisteva in tocchi irregolari bianchi o neri e ah, com'era buono quello scuro vagamente mentolato...!). Sapevo che ne avrebbe stipato la calza appesa alla cappa del camino, rendendone la sagoma inconfondibilmente bitorzoluta, con sporgenze acute per gli spigoli dei grossi tocchi di carbone, più piccole e comunque spigolose per le caramelle Baratti o Rossana, bollose per le arance e i mandarini.
Confidavo soprattutto nei Regali, che peraltro non erano mai mancati, e che sempre mi era dato di trovare più numerosi e ricchi di quelli che avevo sperato e richiesto.
Ogni anno ricevevo la conferma di essere stata buona secondo una valutazione che superava le mie stesse aspettative.
Ricevere o non ricevere i doni era dunque questione di merito, non di fortuna.
Nel mio Olimpo hanno convissuto a lungo queste tre divinità e di sicuro il posto privilegiato lo ha occupato la Befana.

Oggi mi chiedo se la credulità di tanti, troppi, tra i miei consimili che credono nella Dea Bendata, strofinando compulsivamente i Gratta e Vinci o il mouse durante una solitaria partita in uno qualunque dei giochi d'azzardo elettronici, non rappresenti una forma di permanenza del pensiero magico infantile, quello stesso che si affidava alla munificità indiscriminata di Babbo Natale piuttosto che all'equità meritocratica della Befana.
In una società sempre più senza Padre, per dirla con Mitscherlich, e dove Dio è morto, per dirla con Nietzsche e anche coi Nomadi, in questi tempi affannati e caotici in cui anche la Madre (Gea senza troppa Igea) sembra stare poco bene, ci si affida sempre più a quella Dea che, in quanto bendata, del tutto ciecamente potrebbe calare dal camino una Fortuna in qualunque giorno dell'anno. Poichè non sarebbe questione di merito, ma piuttosto di capacità di illusione (da "in-ludere", giocare dentro, sfidando il Caso), è giocoforza che i giocatori migliori siano paradossalmente i più svantaggiati (di certo non meno meritevoli, ma certo meno abbienti e più desiderosi di doni).
Ed ecco che il gioco d'azzardo come fenomeno compulsivo, anzichè decrescere, aumenta, e aumenta in maniera inversamente proporzionale al reddito mano a mano che anche il sogno Americano (altra eredità postbellica da Oltreoceano), come già ogni fiducia o fede nel Dono come premio ai meritevoli, va svanendo.

lunedì 21 novembre 2011

L'importanza del NOME


Il nome proprio: qualcosa di irrinunciabile che ci definisce e ci rappresenta, a meno che non venga sostituito, quando e se ciò possa accadere, da “mamma” e/o “papà”, da “nonno/a”, da “zio” o “zia”.
Solo in questi casi siamo costretti, e il più delle volte favorevolmente o persino orgogliosamente, ad abdicarvi.

Nomen omen, dicevano i Latini: nel nome il destino. Manganelli a capo della Polizia, Ortolani ad esibire un bel negozio di frutta e verdura, Gaia e Allegra inclini a presentarsi come soddisfatte della vita? Può darsi, come anche no, naturalmente.
Ma che succede quando nasci femmina e i tuoi ti mettono nome Jacopo o Loris? Sto pensando a Loris, una brava Neuropsichiatra infantile con cui ebbi occasione di lavorare, che finalmente, dopo anni di caparbia e incessante fatica, riuscì, non senza enormi difficoltà, a cambiarsi il nome nel più femminile Laura e, solo dopo di allora, riuscì a crearsi un legame stabile e a mettere al mondo un figlio ancorchè non più giovane.

E che succede se nasci in Sicilia, ti battezzano Cecilia (con un nome dolce, musicale, che evoca immediatamente una Santa, pregevole in quanto non consueto come il più diffuso Concetta), ma, fin dal primo giorno di vita, ti chiamano abitualmente Grazia o Graziella ? Che succede poi se facendoti studiare all'interno di un Collegio di Religiose, che ti prediligono tra tante bambine per la tua intelligenza e remissività fino quasi a viziarti, ti dovessi abituare ex-novo a sentirti chiamare con quel nome che peraltro ti appartiene ufficialmente, il TUO nome, per tutti i successivi cinque anni della scuola elementare? Sarebbe o no difficile dopo il congedo, una volta ritornata in famiglia, riabituarsi al più antico e familiare Grazia o Graziella ? Sarà casuale che la figlia unigenita di Cecilia-Graziella si chiami Cecilia?.
Come quest'esempio sembra testimoniare, siamo sicuri che non sia in qualche modo almeno un po' difficile fare i conti con due nomi diversi, uno ufficiale (per i documenti e la scuola e l'elenco telefonico) e quell'altro “familiare” relativo alle relazioni parentali o sociali ?

Conosco due Giuseppina, la più vecchia delle quali si è sempre riconosciuta come Beppina mentre la più giovane come Pinin. Ambedue, sicuramente, ne avessero avuto la possibilità, avrebbero volentieri cambiato il nome imposto loro all'anagrafe. Fin da subito lo avevano giudicato brutto. Ambedue dovendo esibire il nome ufficiale, confessano di provare una certa qual estraneità e sempre, in una qualche misura, disagio.
Conobbi anni or sono un' anziana Sig.ra Lola. Tutti, me compresa, la conoscevano come Lola anche se all'anagrafe risultava chiamarsi Maria da più di settantanni. Non utilizzò per se stessa altro nome che Lola nemmeno quando, giovanetta, prese parte all'attività partigiana; consapevole probabilmente che corrispondesse già, invero, ad un soprannome da usarsi, senza altra fantasia, quale nome di battaglia. Ella stessa non si riconosceva che con quello, utilizzando il proprio anagrafico nella sua versione ufficiale quasi esclusivamente per i documenti e per la firma.
So di una Adalgisa, chiamata familiarmente da sempre Ada, che un certo giorno della sua vita adulta - lavorava allora come cuoca presso una famiglia borghese della Romagna a cavallo tra gli anni '50 e '60-, lì per lì non si rese conto che quel messo postale, cui lei stessa aprì la porta, nel mentre chiedeva di poter conferire con la Sig.ra Adalgisa “Tal dei Tali” a servizio presso la famiglia in indirizzo, cercava di lei. In difficoltà, la mite Adalgisa rivolse a gran voce una sconcertata domanda ai datori di lavoro impegnati in una stanza attigua: “A so' propri mè l'Adalgisa?” (sono io la tale a questo nome?). Va detto che a quei tempi la donna maritata prendeva il cognome del marito anche sui documenti ufficiali e fu così che la poveretta fu in difficoltà a riconoscersi anche e persino nel proprio patronimico.

E a proposito di cognome, che dire di quelle Signore che ancor oggi affiancano loro sponte al proprio nome il cognome del marito laddove non sarebbe necessario né opportuno, quando cioè, ad esempio, si creano un profilo su un social network, o quando sottoscrivono un proprio articolo edito, magari, su un'importante giornale od un'importante rivista scientifica? Perchè lo fanno anche e proprio laddove servirebbe loro rendersi riconoscibili e “brillare orgogliosamente di luce propria” ?

Nel corso della mia pluridecennale pratica clinica mi è capitato di occuparmi di non pochi bambini, cui era stato assegnato il nome di un fratellino morto prematuramente. Non è infrequente che uno o l'altro dei genitori e più spesso la madre, o tutti e due concordemente, decida di chiudere una storia di dolore in qualche modo, facendo rivivere il morto attraverso l'assegnazione del suo nome a chi nascerà dopo.
Ma non è mai una scelta felice, non sortendo gli effetti sperati. Finisce invero con l'investire di insostenibili responsabilità il figlio che abbia ereditato il nome di chi non è più o, talvolta, non è mai stato altro che un feto. Il carico genitoriale di aspettative, di inconscio desiderio di riparazione di un immaginario frustrato (lenitive del dolore), peserà sul figlio che eredita il nome, come una costante e minacciosa condanna ad uniformarsi ad un indistinto od indistinguibile modello di riferimento; niente di più inutilmente faticoso e, alla lunga, destrutturante.
L'atto del nominare, infatti, pregno com'è di un pesante carico semantico, ivi compresi i fattori culturali e le operazioni mentali sottese, cataloga, ordina, assegna un'identità, fornisce una guida precisa nel lungo e faticoso processo di separazione-individuazione del Sé; in qualche misura consegna un'anima, di cui ogni “nominato” diviene inevitabilmente portatore a vita.
Lo ha ben spiegato Oscar Wilde nel suo “The importance of being Earnest” (tradotto impropriamente in italiano con “L'importanza di chiamarsi Ernesto”) laddove, giocando sull'assonanza tra “Ernest “(nome proprio maschile) ed “earnest” (aggettivo che significa serio, affidabile, onesto), esplica quale sia il portato emotivo, quando non esistenziale, in chi porta un nome piuttosto che un altro. Tant'è che la traduzione italiana “L'importanza di chiamarsi Franco” sarebbe stata più corretta e vicina agli intenti di Wilde, giacchè Franco è un nome maschile, certo, ma anche un aggettivo, sinonimo dell' “earnest” di cui sopra.
Sarà per questa ragione che segnatamente gli artisti sovente scelgono di sostituire il proprio nome con uno d'arte che meglio li rappresenti ? E' così che intendono presentificare una loro peculiare caratteristica? Sembra di sì. Sto pensando per esempio al musicista Marco Castoldi in arte Morgan che nella scelta ha probabilmente ammiccato a certe caratteristiche piratesche che gli si confanno o che ambirebbe gli venissero, scherzosamente ed indulgentemente, riconosciute.
I bravi cartoonist della fortunata serie “The Simpson” hanno scelto Homer come nome per il capofamiglia. Homer-Omero, come il più famoso poeta epico, serve ironicamente a designarne le esilaranti caratteristiche dell'anti-eroe. Il suo essere sfacciato, pigro, sfaticato, infantile ed edonista contribuisce a far dire a sua figlia Lisa, l'intellettuale, brava, unica ammirevole tra il gruppo familiare: “una persona che invidia la nostra famiglia è una persona che ha bisogno di aiuto”.

Esistono nomi, noti a tutti, che tuttavia non vengono mai assegnati a persone comuni. Sono nomi “intoccabili” che vivono nella storia, nel mito o nella finzione letteraria. Edipo, come Amleto in un certo senso, richiamano troppo da vicino certi tabù, certe oscure faccende su cui ha indagato la psicoanalisi, che non fanno e non faranno mai di questi nomi dei nomi “gettonati”. Edipo e Amleto restano emblemi della fantasia fanciullesca di uccidere il proprio padre al fine di possedere la propria madre. Tale fantasia, per quanto inconscia, necessita di essere tenuta prudenzialmente lontana, proprio perchè, lontana, non lo è poi molto.

Di sicuro è preferibile appropriarsi di un nome fittizio o supplementare piuttosto che trovarsi innominato o innominabile. Senza nome, figlio di N.N., fino a pochi anni or sono, rappresentava un'onta, un marchio infamante, ragione d'una comprensibile riluttanza ad esibire il documento d'identità, un'antinomia della ragione, quasi un ossimoro: un'identità senza identità.
Non per caso anche il destino dei non battezzati era, sino a pochissimo tempo fa, quello di finire al Limbo, una sorta di non-luogo affollato più d'un centro commerciale, destinato ai senza nome, esseri privi di un'identità ben definita destinati ad una Terra di Mezzo tra inferno e paradiso, tra redenzione e punizione, un luogo dove non si profila alcun tempo e alcuna geografia, men che mai quella dell'eternità, degno di chi non è, non è stato e non ha fatto in tempo nemmeno a credere di essere.
Il limbo mi sembra metafora di una condizione di smarrimento e precarietà, come di una vita che ha perduto il senso e che è mancante di orientamento, in cui era possibile riparare sospesi in una posizione di stallo, intermedia fra la beatitudine del paradiso e le atrocità dell'inferno, tra la soddisfazione d'un luminoso orizzonte raggiunto e il supplizio d'una punizione meritata per gli errori commessi.

Ecco allora che il nome concede la facoltà di essere anzitutto riconosciuti, ed anche di ESSERE tout-court, nel conoscere e tracciare, in autonomia, il proprio percorso di vita, dopo che siamo stati e ci siamo, nel bene e nel male, individuati.
Il nome proprio è per solito un distintivo inalienabile che proteggiamo gelosamente in quanto parte di noi che ci rappresenta. Non rinunciamo ad esso né al piacere di sentirlo usato per denominarci, se non in un caso, come si diceva all'inizio, quando, finiti nella schiera dei vari mamma, babbo o papà, zii o nonni, accettiamo di buon grado di “perdere l'identità del e nel nome”. Il riconoscimento ci deriva dal ruolo.
Qualcosa del genere immagino avvenisse per tutti quegli Artisti che, agli occhi dei praticanti di bottega come per il resto del mondo, diventavano solo, e senza dispiacersene affatto, “Maestro”.
Eppure qualche tempo fa, forse perlopiù negli anni '80, è invalsa la moda di trascurare siffatta consuetudine: giovanissimi figli si rivolgevano ai genitori chiamandoli col nome proprio, da pari a pari, senza differenza di ruolo, come si usa tra amici.
Nella pratica clinica mi è capitato di conoscere non pochi casi in cui appunto bambini anche piccoli od ex-bambini ormai divenuti adulti, pativano un qualche disagio nella relazione con i propri genitori ed i genitori, a loro volta, lamentavano perlopiù una sorta di impotenza educativa; qualcosa in ciascuno era stato perduto o si configurava come di ostacolo quando non di grave nocumento
all'acquisizione della fondamentale sicurezza primaria nei figli e alla necessaria autorevolezza nei genitori.

Ho in mente una giovane donna architetto, spigliata, bella, elegante, venuta a consultazione per capirsi meglio e per capire cosa non andasse in se stessa oltre che per darsi spiegazione della propria inclinazione a fallire reiteratamente in tempi brevi le relazioni affettive non appena avesse aperto le porte del proprio appartamento al fidanzato di turno per una convivenza. La donna, raccontando di sé, della propria infanzia e del nodo irrisolto di un latente conflitto con la madre, non si rendeva conto di riferirsi ai genitori chiamandoli semplicemente per nome, rendendomi in tal modo difficile, anzi addirittura impossibile almeno inizialmente, comprendere chi fossero quei Piero e Maria di cui riferiva. Era così inusuale per lei riferirsi a “mamma” o “babbo”, così inveterata l'abitudine di citarli usando soprattutto per la madre esclusivamente il nome proprio (mentre riusciva talvolta spontaneamente a raccontare di “mio babbo”), che nel corso dei primi colloqui si andavano creando di continuo spassosi momenti di ilarità, data la sua assoluta incapacità a pronunciare la parola “mamma” in sostituzione del nome proprio. Si sfiorò la commedia plautina degli equivoci quando poi, narrandomi dell'amica-antagonista Maria, omise di specificare che la Maria in questione non corrispondeva più alla madre. Comprese da sé che di Maria è pieno il mondo, mentre di mamma ce n'è una sola. E comprese dunque che ad un genitore dispiace non essere riconosciuto e reso unico nel suo ruolo.
Non c'è dubbio che la diffusa pratica dell'accorciare le distanze tra adulti e bambini, a seguito forse di una reazione post-sessantottina all'autoritarismo, abbia provocato anche la diffusione del permissivismo e d'un lassismo educativo certamente reattivi ma non per questo giustificati ed efficaci. Il permissivismo, con la sua tendenza ad acconsentire a qualunque richiesta dei figli il più spesso possibile bandendo il “no”, ha reso usuale l'abolizione dal linguaggio delle forme di rispetto come il “dare del Lei”o “del Voi” come ancora usa nel nostro Sud, sostituito più spesso da un immediato “Tu”, tra adulto e adulto come anche tra bambino e adulto (persino nelle scuole di vario ordine e grado). E' in questo rivolgimento dei costumi che si cominciò ad osservare altresì, come si è detto, un discreto numero di bambini che, a partire dalla prima infanzia, erano usi chiamare i propri genitori per nome anziché “mamma” e “papà”. Tale moda sembra a tutt'oggi destinata al declino.

Ho conosciuto una giovane ragazza che d'un tratto è stata inspiegabilmente abbandonata dall'uomo che, avendone sposato la madre, fin da quando ella era piccolissima sembrava averla accolta nella propria vita con entusiasmo come e più che se gli fosse stata figlia naturale. Costui, con la rapidità del fulmine, da un certo giorno in avanti, ha finito col dimenticarla completamente, riuscendo anzi a sostituirla nel suo ruolo di figlia con il giovane figlio maschio dell'ultima sua conquista femminile. Nel tentativo di elaborare un lutto impossibile, la ragazza in questione ha scelto istintivamente di riferirsi a quell'uomo, che pure per tutta la vita era stata solita denominare teneramente babbo, chiamandolo “Lui-là”. Non è più riuscita a pronunciarne il nome proprio. Quel nome anzi, per estensione, quasi avesse il potere evocativo del diavolo in persona, è diventato tabù. Quella giovane ha dovuto cancellare, almeno dal proprio vocabolario, il di lui nome proprio e la qualifica -babbo- con cui non avrebbe avuto più senso designarlo se non al prezzo di ingannare se stessa fino alla follia nel tentativo, tanto strenuo quanto vano, di mantenere un sottile fil-rouge che la legasse ad un ricordo illusorio.

Il nome è qualcosa di assai importante anche per il migliore amico dell'uomo. Chiunque conosca un minimo di etologia o psicologia del pet più diffuso al mondo, il cane, sa che ad ogni comando gli si voglia impartire è utile far precedere il nome proprio di quell'animale. In tal modo la bestia non equivocherà; allorquando dovesse udire le parole usate come comando anche nel contesto, per esempio, di conversazioni familiari dove esso non è implicato, saprà di non essere coinvolto, saprà che le stesse non sono rivolte a lui. Se vogliamo che ci venga appresso gli diremo “vieni...Fido!”e non mai soltanto “vieni!” o soltanto “Fido!”. Diversamente, ogni volta che diremo “vieni!”, magari ad un congiunto che vogliamo ci raggiunga in fretta, il cane si sentirà implicato in prima persona e ce lo ritroveremo fatalmente tra i piedi con il rischio che la povera bestia si senta umiliata e allontanata da un'educazione incoerente. (Ma come!?- potrebbe pensare- ho sentito il comando “vieni!”, sono arrivato in gran fretta e per questo sono stato cacciato!?).

Vorrei aggiungere un'osservazione relativa all'educazione della coppia gemellare dove, fin dalla scelta dei nomi, è facile commettere errori rendendo più difficile ancora, a ciascuno dei gemelli, il lungo e faticoso percorso della individuazione. I gemelli monovulari identici, infatti, faticano non poco a distinguersi l'uno dall'altro e faticano più degli altri bambini a sviluppare ciascuno caratteristiche distintive. Ciò anche perché non è raro invece che i genitori scelgano per loro nomi simili, con la stessa iniziale o della stessa lunghezza (Carolina e Carlotta, Piero e Paolo, Giampiero e Giacomo...). Ricordo di aver conosciuto una coppia di gemelle che per tutto l'arco della loro infanzia e adolescenza venivano designate più sbrigativamente come “Checche” e, data anche la difficoltà a distinguerle prontamente l'una dall'altra, venivano chiamate ciascuna indistintamente “Checca”.
Inutile dire che anche nella maturità le due sorelle manifestano ancora una spiccata esigenza, con relativa difficoltà a separarsi l'una dall'altra e a godere di una piena autonomia ed autosufficienza al di fuori della coppia gemellare.

Infine vorrei ricordare il Grande Massimo Troisi quando, nel suo indimenticabile film “Ricomincio da tre”, suggerisce per i nascituri l'assegnazione di nomi corti: “I nomi corti fanno i figli educati. Massimiliano viene scostumato; è proprio 'o nomme che è scostumato. - “Massimiliano, stai vicino alla mamma!” - Prima che la mamma lo chiama -Mas..- si..- mi..- lia..- no!- 'o guaglione se nne va da qualche parte, no? Nomi lunghi? Non ubbidiscono! Ugo, invece, se vuole andare da qualche parte... - ”Ugo!” - non fa nemmeno tempo a muoversi, deve tornare per forza... Oppure Ciro, viene meno represso, fa in tempo a fare almeno un passo e a prendersi 'nu poco d'aria...”
Certamente il compianto Massimo Troisi esagerava, certo è che un nome composto o troppo lungo rischia di venire storpiato o avvilito in un formato ridotto, variabile a seconda del gusto, della fantasia o bizzarria di chi quel nome pronuncia. E se quel che si è cercato di esporre sin qui ha un senso, se è vero che si possa dire che noi siamo (anche) il nostro nome, ci sarebbe da augurarsi di poter godere di quel nome, nella sua interezza e unicità, fin dall'inizio e per tutto il tempo che occorre, a discrezione del diretto portatore.

lunedì 24 ottobre 2011

Assertività (è ciò che ti necessita se sei stanco di sentirti dire di no e stanco di soccombere)

Assertività (dal latino assérere- affermare, rivendicare, proclamare libero uno -per es. uno schiavo-) è il coraggio di essere se stessi per raggiungere l'eudaimonìa, ovvero la libera e felice realizzazione del proprio essere. Asserisco dunque sono. Sono protagonista attivo perchè rifiuto di essere passivo (aspettando eventuali mani tese ed occasioni favorevoli), preferendo affermare il mio diritto a rivendicare la mia libertà attraverso l'azione.
L'assertività è un requisito molto importante, anzi fondamentale, per star bene anzitutto con se stessi, e, di conseguenza, con gli altri. "Ama il prossimo tuo come ami te stesso" significa per l'appunto: abbi cura di te e rispetta anzitutto te stesso (i tuoi sentimenti, i tuoi desideri, le tue aspirazioni, le tue esigenze..) se vorrai farti amare e rispettare dai tuoi simili a te affettivamente più prossimi, altrimenti sarà difficile che altri ti stiano vicino, in un gratificante rapporto di contiguità, di fiducia, di rispetto, di apprezzamento e di stima, se per primo mancherai tu stesso della necessaria stima di te.
L'assertività è un requisito che si può conquistare perchè nessuno "nasce imparato" .
Ciò premesso, risulta evidente che è necessario anzitutto poter contare su una solida autostima.
La stima di sé (dal lat. aestimare-valutare nella sua duplice accezione di "determinare il valore" ed anche "avere un'opinione su") comporta la capacità di avere un'opinione su se stessi attribuendosi un valore, quindi un giudizio perlopiù positivo. Essa costituisce l'elemento base del sistema immunitario dello spirito, capace di renderci forti abbastanza da far fronte alle asperità, alle sfide, alla fatica e alle insidie della vita, nonchè alla necessità di rialzarsi dopo un qualche inevitabile inciampo.
Per incrementare la stima di sé è necessario conoscersi per accettarsi nei propri requisiti ed anche nei propri limiti (nessuno è perfetto!) e quindi affinare, modificandolo, il proprio rapporto con gli altri in maniera da trovare il giusto punto di equilibrio tra l'affermazione di sé ed il rispetto della libertà altrui.
Come si vede, in questa fatica, è necessario riflettere sul concetto di libertà tenendo presente che "libero è colui il quale, per essere qualcuno, non deve subire né dominare". E' libero chi sa farsi rispettare rispettando a sua volta l'altro.

Dal momento che l'uomo è un animale sociale che, come tale, necessita di "fare i conti" con gli altri, è chiaro che ha bisogno di mantenersi in equilibrio tra il proprio e l'altrui benessere, adoperandosi con coraggio e decisione ma senza sconfinare nel compiacimento egocentrico e senza scivolare, d'altro canto, nella prigione del sentimento di inadeguatezza e inferiorità. Perciò è importante che acquisisca uno stile, nel comportamento e nella comunicazione, che gli faciliti i rapporti interpersonali.
Lo stile assertivo è esattamente ciò che necessita a ciascuno per migliorare la competenza sociale evitando l'eccessiva passività e, nel contempo, l'eccessiva tracotanza e aggressività. Serve anche a combattere i pregiudizi e le generalizzazioni indebite che costituiscono, come tutti sanno, tra i più grossi impedimenti alla reciproca comprensione, al cambiamento e al dialogo.

Tutto sommato l'assertività è un modo di comunicare flessibile, grazie al quale si può affermare il proprio punto di vista senza prevaricare né essere prevaricati; è la capacità di usare qualsiasi contesto relazionale a proprio favore, ottenendo ciò che si vuole e che, beninteso, si sia in diritto di ottenere.

Per il raggiungimento dunque dell'assertività ciò che conta è l'esercizio.

E' possibile frequentare un training di assertività ovvero delle sedute di tecniche comunicative in cui si rendano possibili simulazioni di role-playing utili all'addestramento, capaci di migliorare la personale competenza sociale. Ci si eserciterà su situazioni di vita reale vissuta, interpretando se stessi nel duplice ruolo di chi è poco capace di assertività e di chi invece la padroneggia con disinvoltura. Può essere utile farsi aiutare da uno psicologo per meglio affrontare il cambiamento. Ma è altresì possibile autoesercitarsi.

All'uopo può essere utile seguire una sorta di decalogo:

- è necessario non reprimere il proprio "aspetto desiderante " (ciò che corrisponde alle nostre emozioni e al nostro desiderio) e nemmeno ciò che avremmo voglia di rifiutare. Ricordiamoci che la costante ed eccessiva preoccupazione di conformarci a ciò che crediamo corrisponda al desiderio dell'Altro o a ciò che riteniamo l'Altro si aspetti da noi, genera solo malintesi ed infelicità.
E' meglio esprimere il proprio sentire, a costo di darsi tempo e sospendere il giudizio, fino a che non si siano superati il disagio e l'impasse.

- non si deve temere il confronto (nessuno è perfetto) e non si deve indulgere a giustificarsi a priori; sarebbe un'inutile esercizio di captatio benevolentiae. E' perfettamente lecito esprimere (e possedere) opinioni, gusti, un sistema di valori, personali ancorchè non condivisi. Nel caso ci si senta disapprovati o contraddetti, si dovrebbe aver cura di affermare il proprio punto di vista con garbata fermezza, senza prevaricare l'altro e senza lasciarsi prevaricare.

-è perfettamente ammissibile cambiare opinione cosiccome ammettere un proprio errore; questo in nessun caso ci sminuisce. Anche chiedere un chiarimento o la ripetizione di quanto detto, quando non si sia capito bene, è tutt'altro che un'onta. Si abbia cura di non sottrarsi al dialogo (nel discorso la parola-logos-è sempre, per definizione, fra-dia) solo perchè ci si sente meno competenti del proprio interlocutore; il confronto, quando ciascuno si sforzi di argomentare, è sempre utile.

-nel caso ci si renda conto di essere in errore, conviene ammetterlo ed esprimere il proprio cambiamento di opinione (errare è umano). Nel caso ci si trovi in totale disaccordo è meglio segnaralo cercando di argomentare il proprio diverso punto di vista o le proprie diverse necessità od anche solo il proprio diritto ad avere un pensiero divergente. Non ci si deve sentire in difetto od inadeguati per questo!

- saper ribadire le proprie istanze fino ad esser certi di essere stati ascoltati o compresi corrisponde ad un preciso bisogno di autoaffermazione e autodifesa: ricordatevi che avete diritto alla giusta attenzione, ma dovete voi stessi richiamarla opportunamente su di voi: il vostro pensiero, se non esplicato a parole, non può essere compreso. L'Altro non è la Pizia.

-evitare di farsi calpestare nei propri diritti (il diritto di esprimere il proprio disaccordo, il diritto di cosa fare del proprio corpo, delle proprietà personali, del proprio tempo, dei propri gusti...). Se avete la sensazione che gli altri si approfittino di voi, vi stiano usando o comunque che non vi stiano rispettando, non abbiate timore di reagire e, soprattutto, evitate di cadere vittima di sensi di inadeguatezza o colpa. Spesso, e ciò vale segnatamente per la donna in cui il senso di colpa è spesso inconscio (in quanto veicolato culturalmente da secoli od instillato e rintuzzato da chi creda di avere maggiori diritti di genere), comporta la difficoltà a reagire opportunamente nella paura di offendere l'altro. Se in cuor vostro siete consapevoli di non meritare alcuna critica, alcun rimbrotto, alcun ingiusto addebito, evitate di chiedere scusa solo per smorzare un'eccessiva aggressività nell'altro.

-ricordare che talvolta si può e si deve dire di no, come suggeriva Mario Lodi, esplicitamente e subitaneamente. E' sempre necessario sottrarsi alle altrui manipolazioni. Abbiate cura di evitare di farvi percepire come vittima; nel caso vi troviate al cospetto di persona dominante o violenta non avreste scampo, riuscireste solo ad esacerbarne l'ira e la prevaricazione. Se vi sembrasse che il dialogo risulta impossibile e per questo riteneste opportuno sottrarvene, ricordate che ne avete facoltà. Rivendicate il diritto all'indipendenza, allo spazio di libero movimento, ad essere lasciati soli quando ciò vi sembrasse opportuno.

-nel caso vi sentiate di stare troppo scomodamente "sedendo sul banco dell'imputato", ricordate che potete avvalervi della facoltà di non rispondere. Abbiate cura di accorgervi quando le domande siano implicative o capziose, non cadete nel tranello. Talora a domande inopportune si può rispondere con altra domanda o dribblare (l'arte della retorica insegna). Insomma: non lasciatevi incantonare. Nel caso vi sentiate pressati da richieste irragionevoli, eccessive o poco comprensibili, chiedete chiarimenti, chiedete tempo. Non c'è nulla di disdicevole nel non aver compreso un discorso o nell'aver bisogno di un approfondimento. Ricordate che è lecito anche avere dei segreti e volerli tutelare.

-essere trattati con rispetto e gentilezza è un diritto. Non siete in alcun caso obbligati a rapporti interpersonali con persone scomposte, urlanti, prevaricatrici; in questo caso il dialogo sarebbe, per definizione, impossibile. Abbiate cura di difendere la vostra dignità con determinazione, anche alzando la voce ed imponendovi, soprattutto di fronte ad un interlocutore sopraffattorio e svalutativo (a Roma dicono: quanno ce vo', ce vo' !). Se ne sentite l'esigenza, riprendetevi la parola e riportate l'attenzione su di voi, sul vostro diritto a raccontarvi in prima persona, a perseguire il vostro piacere, la vostra soddisfazione e le vostre ambizioni. Dovrete farlo senza monopolizzare troppo a lungo l'attenzione altrui e senza interrompere brutalmente un discorso altrui già avviato e non concluso, ma potrete nel contempo chiedere o prendervi la parola quando e se l'Altro si stesse da troppo tempo dilungando, da accentratore della scena. Fatevi avanti a segnalare la vostra presenza e, con essa, quella dei vostri diritti.

- nel caso vi venga rivolto un complimento, accettatelo di buon grado. Se corrisponde ad un'osservazione positiva calzante (che in cuor vostro vi sentireste senz'altro di sottoscrivere) evitate di schernirvi tentando di sminuirla e di sminuirvi! Se corrisponde a un merito non potrete che esserne orgogliosi, se corrisponde ad una fortuna (per quanto, in linea di massima, suae quisque fortunae homo faber est) dovrete esserne contenti. Dovrete cercare di essere giudice imparziale e onesto, anche, anzi in primis, con voi stessi. Nei pregi come nei difetti.

- abbiate cura di evitare un tono accusatorio diretto "Tu non... " . Potete avanzare qualunque richiesta con un incipit diverso, che parta dalla considerazione del vostro vissuto, ad esempio: "Mi fa arrabbiare che tu..."o "Non mi piace che tu..."oppure ancora "Io sono esasperato dal tuo modo di fare" . Sono la personalità passiva e quella aggressiva ad esordire sempre con il "Tu". L'assertivo, equidistante dai due, dice "Io", non cade nel tranello della sfida del troppo aggressivo e non infierisce sul troppo debole passivo, né porge il fianco solo per scadente capacità di reazione. L'assertivo rispetta se stesso e l'altro allo stesso modo e si mantiene equilibrato perchè non prova disagio e non è costretto a difendersi in modo eccessivo come chi è accecato dall'ira o paralizzato dalla debolezza.
Cercate di criticare i comportamenti, non la persona.
Non mettetevi troppo sulla difensiva, non giustificatevi troppo, piuttosto cecate di fornire spiegazioni delle vostre ragioni; avanzate le vostre richieste, spiegate esattamente cosa vi aspettate che l'altro faccia per risolvere una situazione di stallo. Fate questo senza forzarlo, tenete conto che dovrete sempre mantenere la consapevolezza che l'altro possa rifiutare o non essere in grado.
Come nelle arti marziali, dovrete non contrastare la forza dell'altro, ma sfruttarla a vostro favore e dirigerla nella direzione più opportuna.
Nel divertente film "Il mio grasso, grosso matrimonio greco" la leader del gruppo di donne riunite intorno alla figura dell'intransigente, rigido capofamiglia Antoni, "sa come prenderlo" e come condurlo verso obbiettivi comuni, sa parlare la lingua di lui per farlo parlare con la lingua di tutti.
Mi viene in mente che la maieutica è un'antica arte nata con Socrate perlappunto in Grecia.
Sarebbe il caso di rispolverarla a cominciare dal nostro privato. Lo volessero fare anche i nostri Governanti e Politici...!

domenica 12 giugno 2011

In memoria del Nonno (scritto di getto dalla nipote 20enne, Marianna, dopo il 5 dic. 2007)

"Come mio nonno, amo scrivere. Amo veder scivolare le lettere, poi le parole, e via via frasi intere dalla penna. Come presa da un medievale horror vacui, bramo riempire d'inchiostro nero quelle nude pagine bianche tra le mani. In particolare amo scrivere articoli giornalistici. Al liceo, ad esempio, lo facevo per il giornalino scolastico. E i miei articoletti li ho sempre inviati in anteprima a mio nonno (via lettera, abitavamo lontani e lui disdegnava il computer), il quale ha sempre apprezzato la mia "ricchezza di idee, la scioltezza nell'esporle, la capacità di adeguare lo stile al contenuto".
Capiva perfettamente quanto il mio scrivere fosse spontaneo, frutto come di una necessità, di un bisogno.
Purtuttavia, è da tanto che non coltivo questa mia passione, e mai avrei pensato di ricominciare proprio per ricordarlo, a pochi giorni dalla sua morte.
Francesco Crosato -ma lui diceva di non riconoscersi in "Francesco" e perciò si faceva chiamare da tutti Cesco-, era mio nonno. E il soprannome "Cesco" avvolge pienamente il suo istrionico essere.
Lo posso ricordare così: calzoncini corti, fronte imperlata di sudore, guanti di pelle plastificata da giardinaggio, fiori e rametti secchi tra i fini e radi capelli bianchi, chino -seppur su un ginocchio malandato- intento a potare, curare, innaffiare, "coccolare" le sue piante.
Oppure seduto al pianoforte, la fronte corrugata, gli occhi miopi che seguono repentini ora le note ora le mani, risultando quasi strabici ... La musica, Chopin soprattutto, filtra attraverso le abili dita, si diffonde per il salone al piano superiore, incanta, incupisce, consola.
Lo ricordo in cucina, ormai vedovo da qualche anno, il giorno di Natale, intento a preparare il baccalà. Tutti quelli che l'hanno potuto gustare, convengono nel dire che migliore di quello del nonno non c'è. Lo ricordo in una calda giornata estiva a Creta, intento a farsi comprendere da un suo coetaneo, seppur meno in forma di lui, in un misto di italiano, tedesco, latino e greco antico. Ricordo le sue stravaganze, che lo costringevano ai rimproveri familiari, e che lui sapeva seppellire sotto la sua risata ironica, da Peter Pan che ha combinato un'altra delle sue marachelle.
Lo vedo seduto sul divano di pelle verde, mentre schiocca con le dita le orecchie della povera gatta Emi, che, amorevole e condiscendente, continua a fare le fusa. Lo sento accanto a me, mi prende la mano e per stuzzicarmi me la picchia sulla sua coscia. Sa che mi da fastidio, ma continua ad essere il nostro gioco...
Camminiamo tra le bancarelle di una fiera di fiori, lui chiacchiera, saluta, si intrattiene con i passanti, gli ambulanti. Oppure in un museo, oppure stiamo semplicemente seduti: mi racconta di quando da giovanotto, durante la guerra, aiutasse i partigiani mettendo chiodi sotto le ruote delle camionette dei tedeschi o distribuendo stampa clandestina. Mi insegna i vecchi motti fascisti, le canzoni dei balilla. Forse è un modo per non dimenticare e temperare le antiche paure esorcizzandole.
Lo vedo mentre batte a macchina i suoi articoli, con ordine impila i fogli del suo prossimo manoscritto. Inforca gli occhiali e guarda il TG 3, Report, Ballarò...s'indigna...soffre delle pene dell'umanità, non trova consolazione alla corruzione dei politici italiani, esulta quando mostrano i girotondini..., s'arrabbia... Si congratula con me per pensarla allo stesso modo. Conservo tutto questo del nonno Cesco.
Qualcuno a lui vicino mi racconta di come fosse ancora pronto a mettersi in gioco in campo professionale, di come sentisse forte la sua responsabilità di medico, di quanto potesse essere ancora propositivo e appassionato. Ma di come, alla fine, l'incomprensione l'abbia perseguitato per tutta la vita, e di come lui, seppur con amara tristezza, abbia saputo allontanarla mantenendo alto lo sguardo e l'onore di medico e di uomo. Di come fosse strano, ma geniale.
Buon viaggio nonno, so che le mie parole ti giungono ovunque tu sia e questo mi conforta. Grazie a tutti quelli che mi leggono, a quelli che sono stati accanto al nonno in questi anni, a quelli che ci hanno consolato in questi giorni, a tutti i suoi ex-pazienti e colleghi che lo rimpiangono con affetto. Spero di aver contrubuito -almeno in parte- a completare il ricordo che voi avevate di lui."

lunedì 16 maggio 2011

Felicità - Breve discorso sul Ben-Essere, ovvero sulla felicità intesa come Eudaimonìa


Ciò che ogni studente di liceo classico ricorda, è che la parola eudaimonìa veniva sbrigativamente tradotta, nelle versioni dal greco antico, con felicità. E spesso ciò che intendiamo per felicità corrisponde al benessere, alla gioiosa soddisfazione, od alla consapevolezza della piena realizzazione di sè e delle proprie aspirazioni; un ben-essere contrapposto al mal-essere.
Intesa così, la parola rimanda al significato etimologico del termine greco.
Con una certa approssimazione si può dire che raggiungere l'eu-daimonìa sia possibile a patto di essere in un accordo armonico con il dàimon che affianca ognuno di noi come uno spirito-guida che gli dèi possono accordarci, semprechè noi si sia disposti ad ascoltarlo, per perseguire il bene (anzitutto ciò che per noi stessi è bene); e a patto di passare inevitabilmente attraverso il "Γνώθι σεαυτόν" (conosci te stesso) alla ricerca di riconoscimento, senza il quale non si costruisce alcuna identità, e l'educazione, che permette a sua volta una lenta acquisizione, mediante riconoscimenti, della gioia di sè.
Sarebbe dunque una sorta di amico divino che è dentro di noi, una sorta di possibilità a priori assegnata a ciascuno, capace di guidarci istintualmente verso il bello ed il buono come valore etico (kaloskagathòs) e, come tale, è essenzialmente uno stato d'animo spirituale, una qualità interiore che rende l'uomo sereno (beatus). La qualità interiore, poi, si estrinseca e regola la condotta, l'ethos, in una modalità etica.
Se nel corso della vita il proprio dàimon ha una buona (dal greco "eu") realizzazione, allora sarà possibile raggiungere la felicità, la quale pertanto non consiste nel raggiungimento di cose (denaro, status simbol,...) al di fuori di noi, ma piuttosto nella buona riuscita di sè o, meglio, nella realizzazione del Sè. Il dàimon è una sorta di fatalità interna, di destino individuale che vale la pena di assecondare procurandogli opportune fatalità esterne. Già Democrito ricordava che la felicità ed il suo contrario sono fenomeni dell'anima (psyche), talchè questa prova piacere o dispiacere a seconda che si senta o no realizzata.
Corrisponde all'augurio tibetano "tashi delek", traducibile con "lieta benignità e pace universale", inteso come auspicio ad ascoltare il buon dàimon, liberandosi dall'ignoranza, dalle sovrastrutture, dall'ingordigia e dall'attaccamento alle illusioni smodate e narcisistiche che sono alla base dell'invidia, della rabbia e dell'odio e, a ben riflettere, anche a quello romano antico di "salve" che sta per "salute a te", una salute olistica, fisica e psichica.
La felicità intesa come eudaimonìa corrisponderebbe pertanto alla realizzazione delle proprie potenzialità e abilità, nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, trovando la piena realizzazione in quella che Alan S. Waterman definisce "espressività personale", intesa come possibilità di svolgere il proprio personale processo di individuazione (divenire ciò che si è) dando voce a quelle inclinazioni ed abilità che costituiscono, per ciascuno di noi, il "vero sè", e che sono a fondamento del benessere individuale.
Ma per una piena e soddisfacente autorealizzazione, e ancora una volta gli antichi Greci ci vengono opportunamente in soccorso, è necessaria la virtù (areté) secondo misura (katà métron), con cui dar forma alla propria forza imparando a governare se stessi dandosi delle leggi piuttosto che dovendo subire passivamente la legge degli altri. Come osserva Aristotele, la felicità come disposizione dell'anima (eudaimonìa) è già il vivere bene (eu zen), e la vita buona (secondo bontà) è il fine della vita.
Nella rivendicazione dei diritti naturali con cui si apre la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776 leggiamo che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il «diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il documento stabilisce così che a ciascun individuo va garantita la possibilità di costruirsi la sua strada verso la felicità, mentre le istituzioni pubbliche si assumono il compito di tutelare la vita, la libertà e la sicurezza. Viene dunque recepito il catalogo dei diritti di matrice giusnaturalistica e ad esso si aggiunge la felicità come fine ultimo che ciascun individuo è chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte. Un ordine politico razionale deve ruotare intorno ai concetti di libertà e di diritto: la libertà, la quale consiste nella possibilità per ciascun individuo di ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà migliore purché non renda pregiudizio alla libertà degli altri , ed il diritto, che deve recepire e codificare questo valore[1]
Un recente studio studio di Harvard, che rileva come la somma totale della bontà della natura umana soverchi abbondantemente quella della cattiveria, ha un incipit che comincia più o meno così: "questa ricerca fornisce il primo grande indizio a favore dell'esistenza di un "possibile universale psicologico"; gli esseri umani ereditano una tendenza, ancora più forte di quella ad essa contraria, verso la tenerezza, la compassione, la cooperazione..., soprattutto verso chi è in difficoltà e, da questo impulso altruistico, ricavano benefici psicologici...", come a dire che, a ben cercarla, sarebbe possibile testimoniare sperimentalmente un'identica base nell'animo umano: il senso etico innato. Potrebbe essere il "buon dàimon"?
A quanto so, nel vocabolario ebraico non esiste il corrispondente di felicità, esistono invece cinque diverse accezioni di "gioia", cinque diversi stati dell'anima che rendono possibile il ben-essere. Mi sembra saggio e meno fuorviante.
Felicità, in ogni caso, non può essere uno stato perenne, ma semmai occasionale e raro, quasi mistico.

Come promuovere la felicità (intesa come eudaimonìa)

Posto che l'era della tecnica, dopo il dominio della filosofia romantica come tratto tipico dell'antropologia occidentale, è l'epoca della disillusione e del nichilismo in cui l'umana hybris - dal greco antico "Ǜβρις"- (la tracotanza che abbiamo osato al fine di sentirci "animali superiori" al centro dell'universo), ha già squagliato le ceree ali a quelli tra noi che, immemori di Icaro, ambivano un posto in prima fila nell' Empireo, serve ora in maniera più che mai urgente trovare una qualche risposta al "disagio della civiltà". Serve superare il paradigma tecnico-scientifico che mira ai risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure senza proporsi alcun fine da realizzare. Serve poter ridare senso all'esistenza, dopo esserci smarriti in quell'orizzonte dispiegato dalla ragione e dalla conoscenza nel quale ci troviamo dis-orientati.
Orientarsi, ritrovare l'oriente, il senso, per sopportare e superare le difficoltà del vivere quotidiano cosiccome la frustrazione del sentirsi smarriti in un universo valoriale in disfacimento, equivale ad avere uno scopo. Abbiamo bisogno di sapere che il nostro procedere, muoverci ed adoperarci non è vano, nè può essere solo un insensato procedere verso l'ineluttabile fine.
La nostra società fondata su tanti piccoli ego che hanno come unico orizzonte il proprio ombelico, ovvero fondata sull'individualismo, sulla reificazione financo dei sentimenti, sull'efficienza e il tornaconto, sulla mercificazione e sul denaro (che, come dice Massimo Fini, dal punto di vista individuale costituisce un credito, ma preso globalmente è un debito sempre più colossale e disastroso), di certo non aiuta.
Credere che la felicità abbia a che vedere con l'umore e con i di-vertimenti (distrattivi cui tendiamo quando volgiamo lo sguardo in un illusorio e improbabile altrove) è fuorviante.
Ma se noi riflettiamo sul fatto che la felicità non è nelle cose e non sta al di fuori di noi bensì dentro di noi, allora potremo esercitarci opportunamente a conquistarcela.
Dopotutto il piacere (Voluptas) è la mèta del processo evolutivo modellato sull'unione di Eros (Amore) e Psiche (Anima). Voluptas nasce dall'incontro di Eros e Psiche; dalla conoscenza e dalla passione anche carnale nasce, come meravigliosa sintesi, sia la sensuale voluttuosità sia una beatitudine trascendente i sensi, in una parola: il ben-essere.
Prendendo in mano le redini della nostra vita nell'intento di realizzare le nostre potenzialità e abilità naturali, identificato un qualunque stimolo adatto a noi capace di sostenerci nella motivazione e spingerci verso le cose, verso le situazioni, verso gli altri, verso le opportunità, per ottenere il maggior livello di serenità e appagamento possibile, le occasioni non mancheranno.
Occorre individuare ed esercitare le proprie potenzialità, quelle in cui ci riconosciamo perchè rispondenti alle nostre particolari inclinazioni; in questo modo ci potremo sentire pieni di vita e di energia.
Nella scelta ci orienterà il daimon. Per qualcuno si tratterà di esercitare una qualche attività manuale e pratica, per qualcun altro la passione per la natura, la musica, l'arte, o una qualunque delle varie helping professions, ecc. Se ci dedichiamo a ciò che ci gratifica e appassiona, la nostra vita migliora e si riempie di significato.
Quando ci si immerge in attività concernenti le proprie potenzialità sarà come nel gioco quando il tempo e lo spazio sono a geometria variabile, la fame e la sete stimoli silenti che non urgono e la serenità creativa e l'energia ci sostengono all'insegna della leggerezza (nella letteratura anglosassone questo stato è definito "flow").
La felicità consiste dunque nel vivere esperienze sintoniche con la propria natura profonda, è industriarsi in maniera appassionata rallegrandosi del proprio operato, sta nel gusto di fare più che nella valutazione delle cose fatte, con creatività, attraverso l'incontro .
Victor Frankl, psicanalista, scampato ad un campo di concentramento, definì una particolare forma di sofferenza : la nevrosi noogena, non già frutto di un conflitto emotivo tra il principio del piacere ed il principio di realtà (Freud), ma provocata da un problema spirituale, un conflitto etico, una crisi esistenziale (di origine noetica, dal greco "nous": mente) che compromette la stima di sè. Per quest'autore "ogni uomo alimenta infatti un sentimento di autostima che oscilla in relazione ai valori che incarna. Ad un valore elevato corrisponderà un'autovalutazione elevata". Ogni epoca, infatti, ha le sue nevrosi specifiche e necessita di terapie specifiche. "L’uomo di oggi - commenta Frankl - più che frustrato sessualmente, risulta essere esistenzialmente frustrato. Non prova più tanto il senso d’inferiorità (di cui parla Adler), quanto un sentimento di futilità, di mancanza di significato e di vacuità : il "vuoto esistenziale". E, nell'intento di colmare questo vuoto di senso, potrà lasciarsi vivere (trascinando un'esistenza grama o dipendendo dal Prozac o perseguendo il più sfrenato edonismo), potrà deprimersi fino al suicidio (aggressività autodiretta) o fino all'omicidio (aggressività eterodiretta), oppure potrà cercare consolazione, compensatoria quanto illusoria, nell'uso di una qualche droga (ivi compresa la compulsione al gioco d'azzardo).
Un filosofo e psicanalista - Miguel Benasayag - insieme allo psichiatra Gérard Schmit, ha pubblicato di recente un saggio dal titolo "Le passioni tristi. Sofferenza psichica e crisi sociale", laddove la definizione di "passioni tristi" rimanda al conio del filosofo Spinoza. I coautori hanno ragionato su quella che appare essere la motivazione dominante che spinge i richiedenti aiuto ai Servizi di consulenza psicologico-psichiatrica: la tristezza. Pervasiva della società contemporanea, conseguente al diffuso e permanente sentimento di insicurezza e precarietà, non rappresenta il disagio del singolo (della stragrande maggioranza dei singoli), ma è diventato disagio della civiltà, sinonimo di crisi sociale in cui il futuro si profila come minaccia e non già come speranza.
A tutti è noto che "di doman non c'è certezza", il guaio è che sembra diventato difficile, quando non impossibile, coltivare la speranza, quella "spes ultima dea" senza la guida della quale ogni umano sforzo appare inutile.
Recuperare la speranza (che altro non sarebbe, stando al parere di Aristotele, se non un sogno fatto da svegli); questo è ciò che ci necessita per superare l'empasse esistenziale. E ciò si rende possibile a partire dalla costruzione dell'autostima, di un adeguato concetto di sè capace di comprendere i propri punti di forza, ma anche paradossalmente i personali, del tutto umani, punti di debolezza e limiti. Perchè è pur vero che "ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera", ma a queste sole condizioni: "chi vuol esser lieto sia".
Solo così potremo superare l'utopia modernista dell'onnipotenza umana in una società dove, per dirla con Nietzsche, dio è morto, e, parafrasando Woody Allen, pure Marx è morto e anche noi non ci sentiamo tanto bene. Solo così potremo superare lo scontro di filosofie e di approccio che è presente nella società tanto quanto, oramai, nella coscienza individuale di ciascuno di noi (e che ci fa pretendere, per esempio, cibo genuino “come una volta” e nel contempo l’ultimo modello di telefonino con servizi tecnologici sempre più evoluti); solo così potremo districarci opportunamente, in quest' Era della Contraddizione e dell’Incoerenza che ci vorrebbe consumatori passivi condannati ad una fretta perenne che non lascia tempo alla ri-flessione (etimologicamente, al ripiegamento all'indietro per connettere il presente con ciò che abbiamo visto, in un volgersi all'interno verso immagini ed esperienze psichiche), abbandonando l'eccessiva inclinazione al negotium a favore dell'otium come tempo per meditare soffermandoci ad elaborare i pensieri.
La ricerca della felicità è sostenuta dal desiderio che, come ci ricorda Platone, implica una lacuna, una mancanza (dal lat. de-sidera: in mancanza di stelle da cui trarre auspìci per il futuro). Esso, per sua natura, tende a volare sulle ali della fantasia, con il rischio di condurci lontano dalla realtà e da tutte le sue implicazioni fino a trasfigurarla alterandola pesantemente.
Ciò non deve succedere; esso deve potersi mantenere vivo e pressante, costituendo l'agente propulsivo più forte dell'azione umana nonchè il principio della vita psichica, ma, nello stesso tempo, per la ricetta del conseguimento di piacere e soddisfazione, deve passare attraverso la realtà con una attenzione estetica (dal greco "aìsthesis"= sensazione che dal "sensibile" conduce al "bello"). Nel caso la soddisfazione del desiderio venga pretesa nell'estinzione rapida e immediata di quella "mancanza", il piacere conseguito sarà allora di tipo an-estetico poichè anestetizza dalla "cura" del mondo e, come nei bambini, intenti per definizione a pretendere una soddisfazione immediata, egocentrica e non mai differita del piacere, così nei tossicomani, l'appetito si farebbe divorante, insaziabile, ed il prodotto con cui si tenta di placarlo si rivelerebbe sempre più insoddisfacente, impedendone il godimento.
Come l'estesia del parto (dolore) finisce nell'an-estesia (fine del dolore) e rende possibile la soddisfacentissima epifania del risultato (il bel neonato), così dalla buona sensazione (fine del dolore) si può pervenire alla sensazione del buono (aver fatto qualcosa di buono che corrisponde al risultato del parto). Come si vede dall'esempio paradigmatico del parto, il conseguimento del risultato si rende possibile solo attraverso l'esperienza della fatica (o sforzo), ed essa è tipica della condizione umana, come ci suggerisce, in maniera mirabilmente sintetica, il libro della Genesi -nei passi 3, 16 e 3, 19- dove si preconizza che, dal momento della fuoriuscita dall'Eden, la donna partorirà con fatica e l'uomo mangerà il pane guadagnato col sudore della sua propria fronte[2]
Per restare nella metafora potremmo dire che, per il conseguimento del ben-essere o della felicità, la gratuità non paga. Senza compiere alcuno sforzo, ogni uomo non potrà che cantare tristemente o rabbiosamente: "I can get no satisfaction". Non per caso, una forma di aneidonia e invidia (e dunque di infelicità) si osserva paradossalmente anche in coloro i quali "hanno troppo in maniera troppo facile" chè, condannati all'assuefazione, ai piaceri e ad una facile ricchezza, finiscono con il contrarre "hedonic treadmill", una "ruota di mulino edonistica" che, girando continuamente, impedisce in maniera inesorabile la corresponsione della soddisfazione a tanta facile abbondanza, costringendoli ad un piacere sempre maggiore per poter provare un grado costante di soddisfazione minima.
Di contro è anche vero che bambini del cosiddetto terzo mondo sembrano essere perfettamente soddisfatti e felici, o perlomeno mai ingrugnati e nevrotici come spesso accade di vedere alle nostre latitudini, anche se poveri o indigenti. Chiunque abbia fatto un viaggio in Africa, e, attraversando lunghi tratti di strada assolati e deserti a bordo di una jeep, si sia imbattuto nel gioioso "assalto" di un gruppo di bambini di ogni età festosi e comunicativi, per quanto seminudi e sporchi, intenti a giocare a ridosso di un qualche agglomerato di umili capanne, o in altri, ordinati nelle loro divise scolastiche, intenti a percorrere talvolta lunghissime distanze da o per la scuola, tutti ugualmente e serenamente scherzosi, sorridenti e divertiti tra loro come di fronte all'estraneo, sa di che parlo.
Ai nostri occhi, tanta sincera gioiosità appare quantomeno strana. Il segreto della loro "naturale" felicità risiede con ogni probabilità in almeno tre fattori fondamentali: 1) il senso di appartenenza alla loro comunità, 2) la condivisione delle condizioni socio-economiche oltrechè del sistema valoriale, delle credenze, dei riti, delle speranze come delle paure, ecc. e 3) la capacità di servire la propria comunità di appartenenza sentendosi investiti di un ruolo che si riveli utile e necessario (andare a prendere acqua o legna, badare al bestiame, aiutare gli anziani, i più piccoli o i malati, ecc.).
Fin da bambini è dato loro di avere ben chiara la propria identità; possono coltivare una positiva stima di sè (sentendosi belli, buoni e bravi secondo la mia personale teoria delle 3 "B" - cfr. questo blog -), sentendosi pienamente parte della loro comunità (villaggio, tribù, nazione) in un clima di reciprocità, comunicazione e comunione.
Queste tre condizioni sono naturali e necessarie per ogni essere umano che, va ricordato, è un animale sociale.
Non dimentichiamo che l'uomo è artefice (costruisce con mano) della sua propria fortuna e la fortuna, che aiuta chi osa e non chi rimanga immobile nell'attesa, contempla sempre l'esercizio di una sana aggressività intesa non già nel suo significato semantico, bensì in quello etimologico di andare-verso (dal latino: "ad-gredior") come necessaria pressione ad agire che, come tale, tiene lontano dalla de-pressione, rendendo possibile un godimento appetitivo della vita attraverso il coinvolgimento dell'alterità e del mondo, nella cura e nel rispetto della libertà propria e altrui.
In ogni caso, la felicità non è una cognizione (qualcosa che si sa) ma è un'esperienza dell'animo, qualcosa che si sente. E' senza dubbio conseguente alla capacità di provare gioia, e la capacità di provare gioia è strettamente correlata alla resilienza, ovvero alla forza d'animo intesa come facoltà di superare gli alti e bassi della vita ritornando ad uno stato di serenità.
Naturalmente il termostato emotivo che ci riporta ad uno stato di normale serenità, pur dipendendo in parte dal temperamento innato che ci rende più o meno inclini a provare gioia o tristezza, non è fissato alla nascita in maniera irreparabile. Certo può abbassarsi significativamente nel corso dell'infanzia, a causa per esempio di un deficit di accudimento o di fattori traumatici, perchè la percentuale di serenità e gioia nelle prime relazioni costituisce una sorta di imprinting nella formazione dei percorsi neurali della felicità (è un campo di esplorazione, questo, assai recente che implica lo studio del cervello e della sua biochimica, applicato alle emozioni e denominato neuroscienza affettiva), ma può anche essere "educato", creando una diversa e maggiore competenza emotiva.
E' dunque possibile affinare la capacità di vedere il lato positivo delle cose operando una "ristrutturazione" cognitiva e quindi emotiva.
Lasciamoci sedurre dagli incanti della vita, dalla confidenza, dalla partecipazione, impariamo a relativizzare piuttosto che assolutizzare sia il piacere che il dolore tenendo a bada le tempeste emotive, senza ripudiare il desiderio per timore della delusione e senza spingerlo al parossismo, ma piuttosto assecondandolo e incanalandolo verso vie sostenibili, in maniera da perseguire obiettivi compatibili con le nostre possibilità e perciò raggiungibili.
E' necessario superare l'autismo sociale che altrimenti ci condanna alla solitudine e allo smarrimento, confidando nelle potenzialità rigenerative dei legami personali, confidando nell'Amore declinato in tutte le sue espressioni (sociale, parentale, di coppia, amicale...), coltivando la compassione (da cum-pateo, sono disposto a soffrire insieme con) ma anche la forza dell'immaginazione e il coraggio della sfida, in modo da coniugare Eros con Psyche.
Non va dimenticato che proprio la neuroscienza sociale ci suggerisce che i legami sociali svolgono un ruolo nella ristrutturazione del nostro cervello e che nel contatto sguardo-sguardo (ma anche voce-voce e pelle-pelle) i cervelli entrano in risonanza e la qualità delle innumerevoli interazioni quotidiane influisce sulla biochimica e sulla organizzazione dei circuiti neuronali: è proprio il caso di dire che quando sorridi, il mondo sorride con te e tu stesso puoi innescare una reazione circolare, per così dire, di contagio emotivo.
Come già sostenevano i latini : "(homo) faber est suae quisque fortunae" perchè l'uomo è fabbro (nel senso di artefice che fa con gli arti) della propria sorte potendo costruire e la propria fortuna e la propria sfortuna. Tutt'e due queste, e non soltanto "la sfiga" come direbbe Lupo Alberto, sono sempre in agguato.
Fronteggiare una novità implica sempre una crisi e la crisi una scelta tra elementi conflittuali[3] Il nuovo costituisce nel contempo sia una minaccia che un'opportunità: è la storia del bicchiere pieno a metà che può essere percepito mezzo pieno o mezzo vuoto. Direi che conviene cercare di leggerlo come un'opportunità; nell'un caso e nell'altro avremmo la probabilità di avere ragione al 50% . Perchè non rischiare, allora? Proviamo a dar credito a Tucidide quando affermava che "il segreto della felicità è la libertà, è il coraggio!"
Per concludere, volendo sintetizzare una possibile "ricetta per raggiungere la felicità intesa come eudaimonìa", ciò che necessita è il coraggio di essere se stessi imparando a sviluppare una sana assertività la quale implica eminentemente tre cose: conoscenza di sè (del proprio mondo interiore inteso come insieme delle proprie attitudini, dei propri bisogni, dei propri punti di forza e debolezza, nella aretè-kata métron), autostima (sicurezza di sè, rispetto per la propria persona, per la propria individualità ed unicità) e rispetto del prossimo. Il comportamento assertivo consente dunque l'edificazione di rapporti interpersonali costruttivi e trasparenti, senza che ci sia prevaricazione dell'altro e senza che ci si lasci prevaricare, a favore della libertà propria nel rispetto della libertà altrui.

Bibliografia


D. Goleman, Intelligenza Sociale, Rizzoli, 2006
J. Hillman, Il mito dell'analisi, Adelphi, 1979
U. Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, L'ospite inquietante, Feltrinelli, 2008
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2007
U. Galimberti, Le cose dell'amore, Feltrinelli, 2005
U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009
R. Bodei, Ira, Il Mulino, 2010
P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, 1984
G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010
D. De Silva, Non avevo capito niente, Einaudi, 2010
A. Testa, Le vie del senso, Carocci, 2004
Seneca, L'arte di essere felici e vivere a lungo, Newton, 2006
J. Franzen, Libertà, Einaudi, 2011
E. De Luca, E disse, Feltrinelli, 2011
I.S. Turgenev, Padri e figli, Garzanti 2003
S. Kierkegaard La malattia mortale, Mondadori
F. Dostoevskij, I demoni, Einaudi, 2006




[1] Vedi http://cultureeuropee.irrepiemonte.it/orienteoccidente/ap_7.htm.

[2] Questa traduzione fedele dall'ebraico antico è ad opera di Erri De Luca.

[3] La parola cinese per "crisi" è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione, secondo alcuni fallace, che i caratteri di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti che i due caratteri significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità". Molti linguisti considerano questa idea una colorita pseudoetimologia, poiché da solo non significa necessariamente "opportunità". In effetti, wēi significa approssimativamente "pericolo, pericoloso; mettere in pericolo, rappresentare un pericolo; periglioso; precipitoso, precario; alto; paura, timoroso" (come in wēixiăn, "pericoloso"), ma la parola polisema non significa necessariamente "opportunità". La composizione jīhuì significa "opportunità", ma è solo una parte di essa; assume numerosi significati, tra cui "macchina, meccanico; aeroplano; occasione adatta; punto cruciale; perno; momento incipiente; opportuno, opportunità; occasione; collegamento chiave; segreto; inganno". Mair suggerisce che in wēijī sia più vicino a "punto cruciale" che a "opportunità". Da: www.wikipedia.it.