mercoledì 5 gennaio 2011

La Teoria delle 3 B : Bello, Buono, Bravo come necessarie percezioni di sè, per un equilibrato sviluppo della Personalità.

  
Non c'è dubbio che l'essere umano impieghi un tempo relativamente lungo per acquisire un'immagine di Sè; se poi riesca a formarla come aderente alla realtà e a goderne come di una struttura sufficientemente positiva, questo dipenderà da più variabili.
Appena nato, ogni essere umano si percepisce come un'entità indifferenziata dalla persona che di lui amorevolmente si prende cura; nei primissimi mesi di vita (si parla infatti di diade madre-bambino) egli non ha una esatta percezione del Sè come entità separata dalla madre. Il seno che lo allatta sarà considerato alla stregua di un'estensione di sè piuttosto che facente parte dell' Altro-da-sè; potremmo dire che vi è una sovrapposizione tra Soggetto e Oggetto.
Mano a mano che egli procede nello sviluppo, passando attraverso specifiche e riconoscibili fasi di separazione dalla madre e di individuazione del Sè, verrà creandosi un sentimento di identità, frutto della interrelazione tra mondo soggettivo e mondo oggettivo (fase della separazione-individuazione).
Dal sorriso, come precursore della capacità di differenziazione Sè - Altro da sè, passando per la crisi dell'estraneo dell'ottavo mese, arriverà dunque intorno ai due anni fino al riconoscimento di sè allo specchio.
E' questo un momento cruciale, il momento in cui “il bambino nello specchio” corrisponde al “Sè”, e per l'essere umano comincia la fase del “mi riconosco dunque sono”.
Poiché nell'Altro, in cui come in uno specchio ci si riconosce , si trova un'oggettivazione di sè, e il primo“specchio” è costituito dallo sguardo materno capace di rimandare l'immagine di chi viene “guardato”, da questo momento in avanti è importante che il bambino possa già riconoscersi come relativamente Bello, Bravo e Buono.

Soltanto così potrà crescere sano e soddisfatto e forte abbastanza per affrontare il proprio destino nel mondo (inteso come dàimon), con la necessaria sana aggressività intesa (etimologicamente dal latino ad - gredior: andare - verso, e non semanticamente come diminuzione del potere dell'altro ) come forza propulsiva che gli consenta di mettersi in gioco attivamente, proteggendosi dal dover subire passivamente e sapendosi trarre fuori dalle difficoltà realizzando al meglio le proprie qualità: non vittima, dunque, ma neanche narcisisticamente dominante come chi si imponga con protervia "über alles " ritenendosi migliore a priori.
Il saper rilevare assonanze e discrepanze tra l'immagine idealizzata e statica di noi stessi (la stessa che Narciso passava il tempo a rimirare nelle acque ferme dello stagno) e quella che occhi altrui di volta in volta ci rimandano in maniera diversa e in qualche modo cangiante, ci consente di continuo opportune correzioni necessarie all'adattamento; ricordo qui che l'intelligenza cognitiva come quella affettivo-emotiva anch'essa in perenne sviluppo, altra funzione non ha se non quella appunto di promuovere l'adattamento. In un mondo che è in perenne mutamento ove, sempre, inevitabilmente, "panta rei ".
E' dunque importante che l'immagine di sè che va strutturandosi sia sufficientemente positiva, ma anche adeguata a “ciò che davvero è”, senza tracotanza (hybris) e secondo misura (katà metron).
E' notorio che chi si stima come forte sarà resistente fino a sbaragliare i nemici e a superare le difficoltà, chi si stima coraggioso saprà affrontare le asperità anche facendo i conti con la paura, chi si stima bello saprà più facilmente rendersi piacevole e gradito.
Una positiva immagine di sè, diremo così "di base", sarà determinante per far fronte al meglio alle avversità, e renderà meno esposti alla paralisi della paura di fronte all'insuccesso come alla reiterata frustrazione o al dolore. Proteggerà a maggior ragione sia contro l'angoscia esistenziale (che diversamente dalla paura non identifica l'oggetto che la scatena e rifugge dal nulla che ci precede come da quello che ci attende), sia contro la disperazione (frutto della perdita del senso nell'agire quotidiano date l'ineluttabile precarietà della nostra esistenza e la contemporanea non accettazione di questo limite).

Che cosa dunque necessita al cucciolo dell'uomo per potersi stimare sufficientemente piacevole, benvoluto e meritevole, in misura equilibrata?

La percezione di sè come individuo apprezzato e apprezzabile comincia, secondo me, con la possibilità di riconoscersi, nello sguardo indulgente e soddisfatto della figura materna nei confronti della quale si sviluppa l'attaccamento, come Bello (“ogni scarrafone è bello a mamma soia...”).
E' forse ipotizzabile che la prima valutazione del bambino, fatta attraverso lo sguardo genitoriale, sia di tipo estetico; d'altronde non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace...
Tale percezione è veicolata primariamente dallo sguardo indulgente, carezzevole e soddisfatto della madre fin da quando ella lo allatta e se ne prende cura manipolandolo, vezzeggiandolo e cullandolo nell'abbraccio.
Lo sguardo materno è il primo specchio in cui il cucciolo “vede se stesso”, è il primo strumento riflettente capace di rimandargli un'immagine di sè medesimo. E' una sorta di veicolo per l' imprinting dell'autostima.
In seguito, lo sguardo, le parole e i modi materni, semprechè bonari e soddisfatti, potranno convincere il bambino circa la propria possibilità di corrispondere alla soddisfazione materna .
E' allora che egli si percepisce buono ( è “buono “perchè sorride responsivo, perchè mangia e dorme regolarmente, perchè gode nell'essere cambiato e lavato...).
Se è possibile riconoscere un benessere emotivo reciproco (per la corretta alternanza dei ritmi sonno-veglia, per la facilità nella nutrizione e nell'allevamento, nella percezione del neonato come rispondente ai desiderata dell'immaginario materno), allora la valutazione oltrechè estetica assumerà una coloritura più profondamente emotivo-affettiva.
Possiamo dire che ci si percepisce soddisfacenti se l'altro è soddisfatto .

Last but not least, la qualifica di Bravo sembra implicare un giudizio di valore positivo circa l'operato di chi tuttavia potrebbe autonomamente decidere di disattendere le aspettative altrui, ovvero in questo caso genitoriali, trasgredendo.
Per esempio, un bambino che ubbidiente va a nanna quando è ora, che accetta di lavarsi i denti, che non fa troppi capricci, che comincia ad autonomizzarsi svestendosi e vestendosi da solo, che comincia a tenersi pulito, che va all'asilo volentieri accettando la separazione, è un bambino che sicuramente viene definito capace (bravo).
Implica una maturità ulteriore che si acquisisce quantopiù si è in grado di agire con discernimento avendo anche la facoltà di non osservare le regole, volontariamente.
Tale designazione sembra pertanto essere la successiva, in senso temporale, dopo le precedenti di bello e buono.
E' forse la terza che viene a svilupparsi come ultimo elemento fondativo di un giudizio che contiene apprezzamenti non più in prevalenza soltanto estetici o relativi alla facilità di allevamento, ma anche in qualche modo morali.

Nella pratica clinica non è infrequente imbattersi in anamnesi che raccontano di una primitiva difficoltà della madre a stabilire una relazione gioiosa e facile ("non mi piaceva il suo odore, la sua voce nel pianto era cacofonica, irritante, gracchiante; aveva lo sguardo vacuo e stuporoso con le rime palpebrali all'ingiù come un mongoloide...”).
Possiamo chiederci se sotto ad uno sguardo materno così preoccupato e deluso (come di fronte ad una creatura in carne ed ossa che, non riuscendo ad essere corrispondente nè dunque sufficientemente competitiva con quella fantasmatizzata nei nove mesi di gravidanza, appare simile ad una “bambola rotta”) non possa celarsi uno specchio pericolosamente distorcente, capace di segnare più o meno indelebilmente la futura immagine di sè che il bambino, lentamente e non senza difficoltà, va strutturando.
Un'eventuale inaccettazione iniziale cosiccome ogni altra difficoltà nella relazione madre-bambino che rendesse difficile riconoscere bellezza, bontà e bravura, potrebbe dunque rappresentare una sorta di imprinting negativo e potrebbe rendere difficile, quando non inficiare, la formazione d'una immagine di sè positiva ed un corretto sviluppo dell'autostima.
Quando dai due anni di età il bambino sarà capace di riconoscersi allo specchio ("il bambino nello specchio sono io "), potrebbe correre il rischio di sovrapporre a ciò che i suoi stessi occhi vedono (l'immagine oggettiva nello specchio ), l'immagine riflessa di se stesso percepita nello sguardo materno e, da qui in avanti, anche paterno.
Non è difficile comprendere, alla luce di quanto fin qui detto, come mai i bimbi intorno ai tre anni di età, abbiano paura del pagliaccio e, di fronte a questo, anzichè ridere, càpiti sovente che si mettano a piangere. La loro attitudine identificatoria è così spiccata da indurli a vedersi rappresentati nella goffaggine e nel grottesco del clown come in una superficie riflettente che li delinei, canzonandoli, così come essi si percepiscono: immaturi e deficitari , tratteggiati impietosamente in tutte le loro proprie tipiche debolezze, sproporzioni ed imperizie. A questa età non è facile riderne perchè non è facile prenderne le distanze.
Ai fini di un corretto sviluppo dell'immagine di sè è altresì importante, come abbiamo detto, potersi
meritare l'appellativo di Buono.
Questo segnale (non più intelleggibile solo nella qualità dello sguardo) è inoltre il primo che viene espresso verbalmente in maniera esplicita, ed è quello che ci dice che l'Altro è soddisfatto della nostra condotta intesa come possibilità di muoverci sempre più speditamente verso l'autonomia.
Se chi sta accanto al bambino si dimostra appagato dalla sua presenza e soddisfatto, oltrechè delle sue qualità fisiche e psicologico-affettivo-relazionali anche delle sue prime conquiste, allora indurrà facilmente il bambino a non nutrire nessuna paura, conscia od inconscia, che l'Altro lo possa rifiutare fino ad allontanarsi da lui.
E il bambino non avrà alcun motivo di deludere e perciò di temere, come conseguenza, la solitudine o l'abbandono.
Avrà trovato il sostegno adeguato (e adeguato vuol dire benevolo, tanto da rimandargli un'immagine di sè positiva) per saggiare sempre più e sempre meglio la possibilità di camminare nel mondo sulle proprie gambe, muovendosi da protagonista verso gli altri, verso le situazioni e verso le occasioni sorretto da una sana aggressività, e dunque sempre più consapevole e orgoglioso della propria acquisita autonomia.
Accettato dall'Altro, accetterà se stesso.
Il proverbiale monito: "ama il prossimo tuo come ami te stesso" sembra voler implicare il prioritario "ama (prima) te stesso se vuoi amare il prossimo tuo".

Dai due anni, dopo il passaggio della fase del riconoscimento allo specchio, il bambino entra dunque in quell'altra lunga, delicata e cruciale, della separazione-individuazione che lo vedrà impegnato a rescindere, per quanto metaforicamente, il cordone ombelicale, fino a godere di una rappresentazione di sè abbastanza solida da consentirgli un sempre più libero movimento.
Da quest'età in avanti, per sapere chi è e come procedere, avrà bisogno dello sguardo non più soltanto materno bensì, più genericamente, altrui (di quello paterno, di quello amicale, di quello di ogni Altro-che-conti, ed anche di quello completamente estraneo).
La percezione del "come si è " risulta infatti relativa al "come ci vedono gli altri" ma anche e soprattutto, da un certo momento in avanti, al "come noi vediamo gli altri in relazione a noi stessi grazie ai continui feedback e a quell'immagine remota di noi stessi che abbiamo potuto riconoscere nello specchio riflettente dello sguardo genitoriale".
Sapremo di essere relativamente alti o bassi, per es., se ci confronteremo con Watussi e Pigmei e non solo con gli uni o con gli altri!
Il processo di individuazione è, per così dire, perennemente in divenire e continuamente reciproco.
Ma se nello sguardo genitoriale avessimo ravvisato l'impressione di essere troppo bassi, non basterebbe una statura relativamente alta a convincerci di appartenere verosimilmente alla razza watussa.
Da quando il bambino intraprende la strada che conduce alla conquista della propria identità, potrebbe scoraggiarsi in mille occasioni, potrebbe diffidare della saldezza delle proprie gambe, potrebbe aver paura di inciampare o valutare male le distanze e “la misura” nei propri tentativi di rendersi indipendente.
Conoscere se stessi, come diceva Talete, costituisce per l'uomo l'impresa più ardua.
Il bambino ha pertanto bisogno di essere sostenuto e incoraggiato, ha bisogno che gli venga riconosciuto di essere un soggetto apprezzatamente attivo (e non più passivo come un'oloturia, una sorta di tubo digerente tutto riflessi e risposte semplici a stimoli primari), ha bisogno che i genitori gli riservino espressioni di manifesta approvazione e piacere quando afferma se stesso in modo positivo .
Ciò che è essenziale è che le esperienze dell'approvazione materna e paterna superino di granlunga quelle della disapprovazione.
Se arriverà a sentirsi buono, dopo che bello, gli sarà più facile sentirsi anche bravo.
La partecipazione attiva dei genitori è necessaria perchè, all'inizio, l'identità del bambino si forma esclusivamente in relazione ad essi; la sua identità potrà essere positiva soltanto se è in armonia con l'atteggiamento dei genitori verso di lui. Se il loro atteggiamento è in parte negativo o ambivalente, la sua identità potrà risultarne frammentata o distorta.
L'approvazione dei genitori lo porta a viversi come un individuo riconoscibile, diverso da tutti gli altri, e diventa così l'incentivo al formarsi della sua personalità individuale .
Ha bisogno altresì di essere riconosciuto meritevole di un giudizio sulla sua condotta (prototipo del giudizio morale) con un : "Bravo!" che lo rassicuri circa la conquista del merito.
Ricordo qui che la soddisfazione è sempre relativa ad uno sforzo, talchè ad ogni fatica corrisponderà sempre la conquista della soddisfazione di sè, ovvero della propria identità positiva.
Lo sforzo cosiccome la fatica (che implicano l'utilizzo della forza) permette il raggiungimento di un equilibrio interiore nel continuo adattamento alle esigenze degli altri laddove queste possano conciliarsi con le proprie; permette dunque la consapevolezza di detenere una forza.
Il premio che viene raggiunto mediante lo sforzo, consente l'ottenimento della soddisfazione (satis-facere ovvero fare abbastanza) nella consapevolezza di aver fatto al meglio delle proprie possibilità e nella certezza di essere nelle condizioni di meritare un plauso.
Qualunque difficoltà nell'acquisizione di un'immagine di sé come Bello renderà l'identità carente e in qualche modo tarata, rallenterà o impedirà la formazione di una corretta immagine del sè corporeo .
Qualunque difficoltà a percepirsi come Buono, incoraggerà comportamenti regressivi e di ripiegamento su se stesso con una grave difficoltà nello sviluppo dell'amore di sè , di quell'amore che rimane la fonte inesauribile del desiderio di costruirsi una personalità individuale, unica e irripetibile, il più possibile aderente alla propria natura.
Infine, la difficoltà o l'incapacità di meritarsi le lodi espresse mediante l'appellativo” Bravo!” non farà altro che suscitare un pericoloso e paralizzante senso di inadeguatezza o colpa che alimenterebbe le paure abbandoniche trattenendolo dallo sperimentare la necessaria autonomia e inducendolo a reagire negativamente verso gli altri ma anche verso di sè.

Sentirsi non abbastanza Bello potrebbe corrispondere al rischio di sviluppare complessualità o problematiche varie che hanno a che vedere con un'immagine del corpo disarmonica o dismorfofobica.
Sentirsi non abbastanza Buono e Bravo equivale a percepirsi come indegno di essere amato in quanto "oscuramente colpevole". Eventuali vissuti di inadeguatezza e disistima rischierebbero di provocare, per esempio, una tendenza ad assumere più facilmente la psicologia della vittima, del succube, del dominato o del tendenzialmente abulico, torpido e depresso quando non orientato a provocare il male secondo un circolo vizioso di insoddisfazione- dispiacere (antisociale).
Sentirsi infine non abbastanza Bravo, potrebbe incoraggiare una tendenza al perfezionismo come supercompensazione. Potrebbe indurre la costituzione di un Falso-sè o lo sviluppo di una personalità dominante, ma potrebbe anche gettare solide basi per lo sviluppo di un disturbo narcisistico della personalità.

Quando si parli di educazione intesa come arte dell'allevamento che si prefigge di cavar fuori (ex-ducere) il meglio da ogni individuo, conviene ricordare il concetto greco-antico del Kalokagathòs (crasi di Kalòs kai Agathòs). Già in esso era contenuto, secondo la cultura ellenica, il concetto di fusione tra etica ed estetica per cui al bello si accompagnerebbe sempre il buono (inteso anche come abile, onesto, coraggioso) e viceversa, in un'inscindibile coesistenza. In qualche modo vi era compresa anche l'Aretè ( virtù intesa come coraggio di vivere al di là delle avversità dominando il dolore attraverso la conoscenza ed il governo di sè secondo misura).
Perciò, a ben guardare, nulla di nuovo ci sarebbe nell'invocare una maggior attenzione nel promuovere adeguatamente l'utilizzo psicopedagogico di quelle "tre B" - Bello Buono Bravo - come qualità di cui è bene tener conto se si vuole coltivare lo sviluppo di future soddisfacenti relazioni oggettuali d'amore e di relazione.
Dopotutto, per un animale sociale come l'uomo, tali relazioni sono condicio sine qua non di vitale importanza, e non possono prescindere dalla conquista di una positiva identità e di un armonico sviluppo di una personalità sana.

Per trovare quindi il coraggio e la necessaria forza di reggere un disilluso esame di realtà, conviene affacciarsi alla vita con un'immagine di sè complessivamente positiva.
E' bene che ogni uomo abbia fin dall'inizio una solida base di amore e di stima di se stesso grazie alla quale possa sentirsi sufficientemente competitivo guardando agli altri, nella temperata saggezza che l'umano dolore ingenerato dalla consapevolezza di non poter evitare la propria sorte mortale, si può reggere ed entro certi limiti dominare.
Ci penserà poi la vita a renderci edotti della ineluttabilità della legge di natura.
Siamo mortali e il limite che la Natura ci pone è invalicabile come ben ci ricorda il mito di Icaro.
Questi, pur essendo stato messo nell'avviso da suo padre che lo esortava a rimanere "coi piedi per terra", volle osare ascendere fino a dove abitano gli Dei secondo un'impresa per definizione impossibile ad un umano, e venne inevitabilmente punito per la sua tracotanza.
La vita, come ben sapevano i Greci antichi, contempla un aspetto inesorabilmente tragico: è ricca di aporìe e contempla finitezza e dolore, costitutivi dell'esistenza. Perciò, se a nulla vale trascorrere la vita rimirando se stessi come Narciso nella presunzione di essere migliori degli Altri, se è fuorviante identificarsi nel Brutto Anatroccolo pur essendo nato cigno, se è pericoloso e vano sentirsi simili agli Dei dunque superiori a tutti gli altri mortali come accadde ad Icaro, per vivere una vita di soddisfazioni degna di essere vissuta sarà necessario accogliere per intero la condizione umana che prevede di tenere in gran conto lo sguardo dell'Altro come specchio parlante.
Se tale specchio fosse perennemente univoco come era perlopiù quello della regina Grimilde nella fiaba di Biancaneve ("la più bella sei tu, mia Regina, dal bosco alla collina, dal mare alla città sei regina di beltà!) non ci consentirebbe di effettuare i continui aggiustamenti di volta in volta migliorativi dell'immagine di sè e ci condannerebbe ad un'immagine primigenia (positiva o negativa che sia) qual'è quella che si sviluppa nella primissima infanzia derivante esclusivamente dal primo- sguardo-che-conta: lo sguardo genitoriale.

venerdì 10 dicembre 2010

A.A.A.: Aggressività, Ansia e Angoscia come 3 "A" strettamente correlate.

L'Aggressività (intesa etimologicamente come ANDARE VERSO, dal latino ad-gredior) è un istinto primario, codicio sine-qua-non per la sopravvivenza.
E'un fenomeno fisiologico legato all'istinto di difesa e all'esplorazione. Essa viene mobilitata ogniqualvolta l'individuo subisca una minaccia o una frustrazione (impedimento di un atto tendente a soddisfare un bisogno).
Chi disponga di una sana aggressività e non sia dunque ipo od iper-aggressivo, sarà disposto a MUOVERSI VERSO gli altri, verso il mondo, verso le situazioni e le occasioni incanalando questa spinta propulsiva verso fini individualmente e socialmente utili nel rispetto dei diritti propri e altrui.
Vi si muoverà spinto da tensione cognitiva e da curiosità e, soprattutto, vi si spingerà da PROTAGONISTA, ovvero come SOGGETTO ATTIVO.
Essere aggressivi in maniera produttiva, contrastando la tendenza regressiva che porterebbe di per sé allo sviluppo predominante dell'aggressione cosiccome contrariando un'esagerata tendenza difensiva di un IO immaturo e debole che preferisce rimuovere inconsciamente l'impulso aggressivo trasformandolo in sintomo nevrotico o psicosomatico, può essere appreso, consentendo di affrontare la realtà in termini vantaggiosi e produttivi.
Chi invece non disponga di una sana aggressività, sarà SOGGETTO a permanere in un ruolo tendenzialmente PASSIVO, costretto ad attendere la “mano tesa” nel movimento altrui, restando perlopiù inattivo.
Com'è ovvio, la condizione psicologica del soggetto tra l'essere attivo o passivo, varia di granlunga , premiando con infinite opportunità il primo ed esponendo al contrario il secondo, alla mercè degli altri, ad una sequela di occasioni mancate quando non al rischio di soccombere, vittima dell'aggressività altrui.
L'aggressività pertanto, come motore verso l'azione, spinge l'uomo a muoversi, foss'anche solo per spingersi lontano dal pericolo, allontanandolo per tempo dalla fonte che costituisce una minaccia che abbia stimolato in lui un prudenziale sentimento di PAURA.
Il precursore della risposta aggressiva è dunque l'ANSIA, che si configura come uno stato d'allerta promosso dalla paura o dalla frustrazione di un bisogno.
Essa predispone il soggetto ad una qualche azione rendendolo massimamente vigile.
L'ansia è un campanello d'allarme. Quando inizia a suonare, mette in risonanza, attivandolo, il sistema simpatico. Scatenando adrenalina,questo inibisce i processi anabolici (attività gastrointestinali) e stimola l'attività cardiaca e polmonare, aumentando l'irrorazione sanguigna di muscoli, polmoni e cervello.
Pensiamo al gatto che avendo udito l'abbaiare furioso di un cane vi reagisca provando paura.
La prima subitanea reazione nel momento dell'entrata in ansia, sarà quella di porsi in ascolto con tutti i sensi in allerta, nella paralisi del movimento, nel mentre il corpo tutto si va predisponendo alla risposta di fuga o di fronteggiamento del pericolo, in una vistosa tensione anticipatoria.
Aumenterà la disposizione all'acuità visiva (con pupille in midriasi), i muscoli saranno contratti, il pelo rizzato per apparire più grosso e temibile, il battito cardiaco aumentato, ecc.
Le variazioni neurovegetative saranno temporanee e strettamente legate al perdurare di un evento minacciante e oggettivo.
Rabbia e paura tendono immediatamente allo scarico e alla risoluzione, con la fuga o l'attacco, di uno stato conflittuale presente nella realtà.
Il gatto pertanto, qualora il pericolo-cane si affacciasse sulla scena concretamente, si troverebbe a scegliere la via di fuga (ad es. arrampicarsi su di un albero) o quella dell'attacco (fronteggiare il cane attaccandolo a sua volta).
Allo stato d'ansia normalmente fa séguito una strategia che mette in gioco l'aggressività e la risposta possibile che si prospetta è,come si è detto, duplice : la fuga o l'attacco.
Dalla minaccia o si scappa, o ci si difende affrontandola.
Quando lo stato d'ansia si debba protrarre per un tempo troppo lungo, chè il pericolo incombe ma non si concretizza mai in un qualcosa che si possa affrontare in una situazione concreta che preveda l'andare-verso una via di fuga o l'andare-verso scagliandosi contro ciò che costituisce la minaccia,
allora il perdurare parossistico dello stato di allerta comporta stress.
Lo stress prolungato diventa mano a mano sempre meno sostenibile fino a sfociare nell'ANGOSCIA.
L'Angoscia pertanto rappresenta uno stato, per dir così, di imbarazzato impaludamento nella paura che è diventata pànico e che non consente più alcuna risposta tra le due possibili: fuga o attacco.
Il risultato è la paralisi; una irresolvibile situazione di stasi, un'attesa vana di un qualunque movimento che conduca verso l'evitamento dalla fonte che costituisce minaccia.
Il campanello d'allarme continuerà a suonare e ad essere udito provocando una sorta di intossicazione da attivazione del sistema simpatico il quale finirà con l'assere vissuto come del tutto “ antipatico” (inteso nella sua accezione corrente come non opportuno e fastidioso).
L'Angoscia è uno status di sofferenza generato da una serie di cause legate tanto al mondo esterno quanto a quello psichico.
Diversamente dalla paura, l'angoscia immobilizza (razionalmente e sensorialmente) rendendo il soggetto passivo alla sofferenza, del tutto incapace di muoversi-verso.
Ansia e Angoscia sono due diversi registri emozionali attivati dal medesimo istinto primario- l'aggressività- che implicano un grado diverso di coinvolgimento: nell'un caso l'uomo AGISCE, nell'altro SUBISCE.

Ansia ed Angoscia, come risposte diverse ad un medesimo attivatore comune, l'Aggressività, sembrano infine l'esordio e l'epilogo di due diverse età evolutive: la giovinezza e l'età matura.
Se in giovane età (quando l'istinto esplorativo e discriminativo rende l'uomo vigile di fronte agli eventi e dispone ad un'agire da protagonista, da soggetto attivo presente a sé stesso) l'attivazione dell'ansia predispone più facilmente e rapidamente ad una risposta sanamente aggressiva, nell'età matura non è infrequente che il protrarsi di stati d'ansia sfoci invece in uno stato d' angoscia.
L'uomo maturo,civilizzato e urbanizzato in aree di sovraffollamento, condizionato da forti inibizioni sociali, esposto a croniche tensioni anticipatorie che non trovano una risoluzione comportamentale, spinto da eventi spesso inspiegabili ed immodificabili, alle prese con variabili impossibili a controllarsi, imbrigliato in rapporti sociali sempre più complessi, ansiogeni e frustranti, intorpidito nei sensi, intossicato da molteplici e reiterati stati d'ansia dove rabbia e paura non trovando immediatamente una possibilità di scarica o di risoluzione ingenerano livelli troppo alti di stress, frastornato da un sistema che corre troppo rapido spesso travolgendo e distruggendo inesorabilmente il preesistente, può finire col percepire se stesso come spettatore impassibile, paralizzato ed inerme, di necessità sofferente, alla lunga possibile vittima del “mal di vivere”.

Diceva il filosofo che nella vita “panta rei”, tutto scorre perchè tutto è movimento. Nella morte, al contrario, vi è stasi. Intendendo l'aggressività nel suo significato etimologico di muoversi-verso, ecco spiegato come essa abbia bisogno dell'ANSIA quale spinta vitale verso un movimento funzionale all'affermazione di sé attraverso l'esplorazione, la ricerca ,il lavoro,ma anche l'amicizia e l'amore (vincoli personali questi, sviluppatisi paradossalmente tantopiù in animali predatori fortemente aggressivi in cui si sia resa indispensabile la collaborazione intraspecifica ai fini della conservazione della specie).

Ma quando l'ansia sia divenuta troppo intensa, essa si tramuta nel sentimento dell' ANGOSCIA che al contrario risulta disfunzionale al movimento, a quel movimento che servirebbe da stimolo per abbandonare vecchi stereotipi dinamici e per trovare nuovi sistemi di adattamento.
Quando l'aggressività quale reazione istintuale collegata ai meccanismi arcaici dell'esistenza sostenuta dall'ansia e prima che l'ansia si possa trasformare in angoscia pervasiva e paralizzante viene meno, in qualche modo viene meno anche la vita.
Se l'ansia dunque è un segno di movimento e di vita, l'angoscia è un segno di paralisi che impedisce la vita.

venerdì 3 dicembre 2010

1-2-3, Si gioca a... "Facciamo che io Ero"

“Facciamo che io ero” costituisce il consueto preambolo al gioco tra due bambini: un gioco di ruolo dove ciascuno interpreta di volta in volta un personaggio diverso.
“Facciamo che io ero il cavaliere e tu lo scudiero, io la mamma e tu il bambino piccolo”, come una formula magica, mette in chiaro da subito quale sarà il contesto del gioco e quali i personaggi sulla scena. Nessuno dice o direbbe “facciamo che io sono”.
Come mai l'ausiliare -essere- viene usato nel tempo imperfetto ? Come mai c'è bisogno di un tempo diverso dal presente dove pure si sta svolgendo l'azione ?
E' intuitivo che l'area del gioco, spazio in cui si svolge l'azione illusoria, abbisogna di essere in qualche modo definita come un'area speciale, un'area in cui i protagonisti si comportano “come se”.
Tale area prevede una sorta di straniamento dal reale e dalle consuetudini che preveda di porre se stessi in un tempo, in un luogo, in una situazione altri e diversi.
Concordemente, nell'accingersi a giocare, i bambini prevedono a priori di calarsi in una illusione ( da in-ludere, appunto, giocare dentro) condivisa.
Sentono che il gioco, cosiccome la drammatizzazione che da esso ne deriva, ha però bisogno di essere circoscritto entro confini ben precisi, in un'area diversa da quella dell'hic et nunc che costituisce la realtà e il tempo presente.
Circoscrivere l'area del -qui e ora- da quella antecedente della definizione dei ruoli sulla scena, rappresenta la necessità di tenere distinti i due piani dell'illusorietà e della concretezza, del passato e del presente, di ciò che è stato stabilito nell'accordare parti personaggi e azione del gioco da ciò che viene agìto sulla scena ludica sul piano dell'illusorietà. Ciò nel mentre ciascuno non smette, purtuttavia, di sapere chi è per davvero.
Ma perchè lo spostamento dalla ineludibile realtà fattuale e circostanziale abbisogna del tempo imperfetto e non, per esempio, del futuro o del passato remoto ?
Sembra che, anche se i cuccioli dell'uomo non ne sono consapevoli, il significato letterale del termine imperfetto, disambiguato da quello più strettamente attinente all'analisi logica (non -perfetto- inteso come non -passato remoto -), ci aiuti a comprenderne l'utilizzo così diffuso nell'infanzia.
Sembra mettere chiarezza tra “persona”intesa come -colui che è come è- e persona nel suo significato etimologico -dal latino “persona”intesa come “maschera di attore”-.
Imperfetto allude infatti ad una forma “non perfetta”e dunque non del tutto calzante, non del tutto propria e adeguata, in qualche modo non congrua e non corrispondente alla cose-come-stanno, piuttosto che ad una caratteristica capace di collocare l'azione in un tempo-passato-seppure-da-poco.
Rappresenta l'imperfezione di chi si cala nella parte consapevole di stare calzando in qualche modo una maschera; di chi si cala nelle parti ad es. del cavallo pur non potendosi trasformare né realisticamente né credibilmente, in un animale a quattro zampe che nitrisce.
Se per giocare dentro le parti nell'illusione del gioco necessitasse far ricorso ad un qualunque tempo non-presente, tanto per rendere maggiormente significativo il bisogno di un allontanamento dalla realtà dell'hic et nunc, non si vede perchè non venga mai usato nemmeno il tempo al futuro: “facciamo che io sarò”.
I bambini, a qualunque latitudine, spontaneamente, si accordano dicendo: “facciamo che io ero” e in seguito, anche nel corso del gioco quando vi sia bisogno di un qualsiasi aggiustamento nel copione, continueranno a comunicare tra loro facendo uso dell'imperfetto “ adesso tu entravi nel bosco per andare dalla nonna...”.
E' come se l'azione del giocare si dovesse distanziare sempre, anche se di poco, dai preamboli concordati o dai continui aggiustamenti in corso d'opera . E' come se i giocatori sottintendessero: “quando tra poco cominceremo il gioco vero e proprio o quando sia necessario il passaggio ad un piano di realtà in cui si interviene come una voce fuori campo a suggerire via via nuovi sviluppi dalla trama, FACCIAMO di ricordarci dell'accordo preso per cui dunque io ERO già (per definizione) ad es. un cavaliere e tu eri già (per definizione) il cavallo.
Quindi giocheranno al presente un'impalcatura tecnica accordata poco prima, in un tempo passato da poco; un passato recentissimo capace tuttavia di sottolineare e circoscrivere l'illusorietà condivisa dell'agìto.
Facciamo come se io fossi diventato il cavaliere e tu il cavallo, ma entrambi noi, concordemente, sappiamo che non è esattamente così perchè lo abbiamo appena stabilito per regola, dunque nel mentre lo stabilivamo io ERO diventato il cavaliere e tu il cavallo. Modelleremo pizze e torte col Das, ci esorteremo vicendevolmente a mangiarle, le pagheremo e le gusteremo tra entusiastici apprezzamenti e gridolini di giubilo, ma nessuno di noi si sognerà di ingerirle per davvero.
Il necessario preambolo che dà l'avvio al gioco del -facciamo che io ero - rende possibile la percezione della pizza come SIMBOLO del corrispondente commestibile, senza tema di confusione tra realtà ed illusorietà fantastica.
In presenza di patologia invece, come per esempio nell'autismo, il gioco simbolico non si rende possibile: pizze e torte di plastilina sono considerate pizze e torte tanto quelle edibili, e potranno finire ingerite.
Non c'è mai stato nessun tempo in cui ERANO altro.
In patologia mancherà di sicuro il preambolo del “facciamo che io ero” che garantisce la presa di distanza dalla realtà immaginata o fittizia con la quale gli attori giocano “come se” fosse vera, e la realtà oggettiva delle cose-come-stanno.
Nella patologia accade qualcosa di simile alla condizione di estrema deprivazione, come quando la suola di scarpone di un affamato Charlie Chaplin viene gustata previa bollitura, alla stregua di un tacchino arrosto.

Per concludere vorrei riportare qui una variante del -facciamo che io ero- espressa genialmente da una bambina di pochi anni ogni qualvolta ella si riferiva a se stessa in un recente passato: “quando io SON-ERI piccola”.
Nell'espressione, per esempio, “ti ricordi quando io son-eri piccola e il mio orsacchiotto aveva perso un occhio...?”, l'utilizzo dell'ausiliare composto nella sua forma all'indicativo presente SON accanto all'imperfetto ERI, rappresenta un' abile sintesi (presente-passato da poco) che rende manifesta la consapevolezza dell'impossibilità per una piccola di autodefinirsi tale al passato mentre è ancora, a tutti gli effetti, piccola.
Ciò come se ci fosse bisogno di relativizzare ulteriormente per tenere separate due realtà (l'essere stata più piccola: ERI, dall'essere piccola ancora al presente: SON) altrimenti sovrapponibili e indistinguibili .
In questa coniugazione creativa e neologistica, la bambina dimostra tutto il suo sforzo di tenere disgiunto il piano dell'immagine di sè nel qui e ora, da quello fantasticato nell'evocazione del ricordo.
Se ne può concludere che le possibilità di crescere secondo uno sviluppo normale comporta lo sforzo di tenere ben distinta la realtà dalla fantasia; la realtà contingente nel qui e ora dalla evocazione mnestica di ciò che è stato; la percezione del reale oggettivo e oggettivabile dall'immaginazione (sogno, o fantasma, o mero ricordo che sia).



martedì 16 novembre 2010

Appunti di lettura nel tempo vacuum di un soggiorno nella culla della civiltà Mediterranea.

In questi alcuni giorni di vacanza,nella tranquilla cornice di un paesino Cretese tra colline e mare, mi è riuscito di leggere qualche libro che ho portato con me.
Giudico il primo, “Anatomia dell'irrequietezza”, che è giusto lo strisciante sentimento che mi si agita dentro per quanto in maniera subliminare, di Bruce Chatwin, inaspettatamente interessante.
Avevo letto altri suoi scritti e, fin dal primo, mi sono incuriosita e appassionata.
E' morto qualche anno fa ancora giovane, e si può dire perciò che, relativamente alla sua non lunga vita,  abbia davvero prodotto molto. Ha trattato temi vari perlopiù antropologico-culturali, con profondità e attenzione particolarissime, frutto delle sue esperienze di vagabondaggio in posti lontani : tra gli Aborigeni dell'Australia esplorando le Vie dei Canti con cui queste popolazioni di indole mite definiscono invisibili quanto precise mappe di conoscenza di quegli immensi territori perlopiù desertici; ai confini del mondo nella lontana Patagonia; fino a Timbuctù o lungo le antiche strade dei Tuareg, dei Caucasici o di altri nomadi come lui.
Ma in questo libro, il suo penultimo credo, mi hanno stupita non poco alcune “recensioni”che vi sono raccolte:  non tanto quella su Konrad Lorenz del quale conoscevo le alcune contraddizioni,quanto quella su Stevenson e più ancora su Axel Munthe sui quali ha gettato il discredito o, più verosimilmente, dei quali ha criticamente descritto anche “the dark side”.
Forse tutti noi, dopo tutto, abbiamo zone d'ombra e sembra inevitabile che sia così (sto pensando alla morale di Calvino ne il suo "Visconte dimezzato"). Eppure mi dispiace e credo che la mia anima romantica saprà cancellare l'eresia dissipando presto o tardi queste sgradevoli ombre che offuscano almeno due miei amatissimi miti, soprattutto il Dr. Munthe, leggendaria figura di nobile e generoso medico, strenuo difensore della vita e della salute anche dei più piccoli e bersagliati tra gli animali: le allodole.
E ancora, fa parecchio riflettere sulla necessità, per l'uomo, del viaggio.
Viaggio come esplorazione (dopotutto è mediante questa che si sviluppa la prima forma di intelligenza), come mobilitazione della curiosità (anche se nella sola memoria biografica come fu per Proust), dell'immaginazione e del dinamismo.
Dice che dal momento che l'adrenalina l'abbiamo tutti e l'abbiamo sempre, tanto vale tenerla opportunamente in circolo in modo innocuo e possibilmente piacevole, piuttosto che costretti, se altrimenti privati dei pericoli e delle asperità della vita, ad inventarci nemici artificiali come : malattie psicosomatiche, impegni e burocrazie varie, tasse e scadenze e, peggiore fra tutti, noi stessi, pensieri ruminanti e insoddisfazioni latenti incluse.
Quando siamo costretti a lungo nelle situazioni di monotonia, routine,  regolarità di impegni che inesorabilmente finiscono col produrre apatia, nevrosi, scontentezza, fino al disgusto di sé e allo spleen, rischiamo quella che Baudelaire definisce la malattia dell' “horreur du domicile”o quella che Tolstoj descrive come l'ultima, estrema, addolorata consapevolezza di Ivan I'lič morente.
Allora: se penso a me e a questo mio nomadismo stagionale (per quanto non si possa ravvisare una grande analogia tra me, chessò, la sterna artica), dovrei forse soltanto rallegrarmi anche quando, come oggi, mi dolgono perfino le ossa. Anche se, quella che chiamo la mia vacanza, diviene, dopotutto, solo “un cambiamento di fatica” (per usare parole di un mio buon amico divenuto ora scrittore d'un certo successo).
E forse non è vero quello che sosteneva mio nonno Mariano che “lavorare è fatica, la fatica fa male e il male fa morire”, perchè, così sembra, ...c'è fatica e fatica.
La fatica, inoltre, come opportunamente osserva Erri De Luca, avendo tradotto autonomamente in maniera assai più corretta e, soprattutto, non capziosa, il passo biblico “e tu donna partorirai con fatica (sforzo)”, è l'unica fonte di umana soddisfazione.
Se scrivo tutto questo, infine, non si pensi che trarrò utili, proventi, provvigioni o percentuali da un'agenzia viaggi.
E' solo che Creta è bella e... val bene un viaggio, per quanto discretamente impegnativo.

domenica 14 novembre 2010

1 parte: Aspettando la Pasqua Ortodossa (Creta: 25 aprile 1997)

Eccoci qui dopo un'intera giornata di viaggio e una notte di sonno buono mentre la gatta esplora prudentemente i terrazzi attorno.
Tutto è novità per lei ancora giovane. La vedo seguire impercettibili piste odorose e fermarsi a fiutare l'aria in direzione del mare, immobile con gli occhi ben chiusi in un'espressione concentrata che non le conosco.
Frotte di rondinelle con il capino rosso-mattone girano infaticabili sopra le nostre teste già piacevolmente appesantite dal sole.
Non è ancora mezzogiorno e ciascuno dei miei vicini, quelli stabili e gli altri arrivati come noi per la Pasqua Ortodossa, attende alle proprie faccende : quel marcantonione dal carattere iracondo (lo sento belare quando si rivolge al figlioletto e tuonare alla figlioletta) abbevera le cascate verdi delle sue fioriere; la Tedesca stende i panni; Maria sgrana le fave; il vecchio Stèlio, ora che gli è mancata la sua brava Sofia, provvede alle sue necessità sempre più lento; un bambinetto cimenta la sua perizia, émulo di Maradona o Costacurta, sfogando energia e intemperanze su un tetrapack vuoto di aranciata; e la nonnina attende, seduta al margine della strada, attende e basta.

2 parte: Pasqua a Creta

La notte di Pasqua , si celebra la Resurrezione (anàstasi) secondo un'antica e complessa liturgia.
Quest'anno(1997) le popolazioni dei due paesini, il nostro e quello qui sopra di Kutufianà, si uniscono nella chiesetta di quest'ultimo sulla sommità della collina; l'anno venturo sarà il contrario.
La messa incomincia mezz'ora prima della mezzanotte. Lentamente la piccola chiesa si va stipando.
Entrano pie donne attempate, perlopiù vestite di nero, e si segnano svelte accennando a una genuflessione.
Entrano famigliole abbigliate a festa con pargoli anche neonati. Giovani mamme vestono in lungo,infilate in succinti modelli assai poco parigini color rosso-fiamma e oro.
Sotto al voltino color cielo pallido picchiettato di stelle oro-chiaro, tutti stringono tra le mani una candela. Più sono piccoli più il cero è grosso, lungo, variopinto e variamente agghindato.
La cosa buffa è che ogni bambino brandisce un cero a cui è legato con grossi nastri un giocattolino, qualcosa come la sorpresa disvelata del nostro uovo di cioccolato. Senza nessuna fantasia, ogni bambina vi sfoggia una Barbie;chi bionda, chi rossa, chi bruna. (Li hanno comperati in giornata nei negozi “del centro”, dal cartolaio, al market e anche dal pasticcere).
Il rito procede monotono come il perenne accompagnamento vocale, ma con scarso raccoglimento.
Tutti,o poco o tanto, chiacchierano.
I bambini giocano; qualche monello (albanese?) minaccia invisibili nemici imbracciando il cero a guisa di Kalashnikov e qualche piccolino protesta con alti strilli finchè il papàs (prete) esce fuori dalla porta laterale, lentamente seguìto da tutti che finiscono con l'ammassarsi nel cortiletto adiacente.
Qui comincia la bagarre. Si sparano petardi contro l'effige di Giuda stupefatto, immoto quanto inerme spaventapasseri, e tutti sono invitati a infierirvi contro con il massimo accanimento.
I bòtti spaventano a morte i più piccoli e divertono pazzamente gli altri.
Bruciate anche le ultime polveri, quando del traditore non resta che uno scheletro fumigante,lo sciame rientra e riprende posto sugli alti scanni laterali di legno scuro o sulle seggiole impagliate,le stesse dei cafenìon, sotto ai solenni lampadari, luccicanti nei loro tanti bracci dalle tante candele e gocce di simil-cristallo.
Per ultimo il prete ,trovando la porta ormai chiusa e picchiandovi sopra fragorosamente per accertare che il Diavolo non lo abbia anticipato nell'ingresso, verrà fatto finalmente entrare dal chierico. Insieme, riprenderanno le lodi,un po'stonate, al Signore, pensando forse ciascuno al cenone che li attende. Si mangerà fino alle due ed oltre.
Il giorno appresso è Pasqua e i grassi agnellini hanno smesso di belare. Girano pazientemente nei cortili di ogni abitazione, infilati in lunghi spiedi grazie al lavoro di una piccola scatola elettrica che ne accompagna il moto con il suo lieve brusìo, costante e infaticabile nelle sei o sette ora di di cottura.
Nel loro perpetuo sfrigolìo sopra al braciere rosseggiante nell'ampia buca di terra, sprigionano vortici di fumo denso e chiaro dall'aroma irresistibile.
Intanto, i nostri generosi ospiti apparecchiano la lunga tavolata arrangiata in giardino sull'impiantito di cemento che circonda la solida, grande, vecchia casa di campagna protetta: qui dalla chioma d'un annoso gelso che comincia ora a rinverdire, lì da una pergola di vite, e circondata tutt'intorno da un'esplosione di fiori e di verde smagliante.
Il coro delle voci, le chiacchiere sommesse e pacifiche dei nonni (ne conto sei o sette), le grida festose dei bambini che si rincorrono (sembrano un esercito), le esclamazioni esultanti e golose di chi bada agli spiedi o tagliuzza cicorie, le balbettanti rimostranze di una bimbetta legata al suo enfant-sit, lo schiocco dei bicchieri sollevati in pericolosi quanto anticipati brindisi, gli schiamazzi esuberanti di un'orda selvaggia impegnatissima tra una disordinata partita a pallone e un nascondino sleale (a volte vengono nascoste anche le bambole), tutto prelude ad uno sfrenato baccanale i cui echi lentamente si spegneranno soltanto verso sera quando le brezze odorose dei fiori di maggio si faranno più fresche e i convenuti lasceranno la collina col passo un po' incerto.


Biennale di Venezia 2010 - People Meet in Architecture

Galeotto fu Passepartout e chi l'ha curato! Non potevo trascurare di dare personalmente perlomeno uno sguardo, per quanto frettoloso, a parte della Biennale Architettura 2010 di Venezia: con un biglietto double, valido per le esposizioni ai Giardini e all' Arsenale.
Ho ancora negli occhi le infinite, potenti suggestioni di allestimenti del tutto seducenti e, talvolta, stupefacenti. Nello straniamento di una Venezia, immota icona caliginosa brulicante di sciami umani variopinti e frotte di imbarcazioni a remi gareggianti coi vaporetti nell'intrico umido dei canali tortuosi, a braccetto con una cara amica di vecchia data, ho goduto delle infinite sollecitazioni di una mostra con la M maiuscola.
Peccato abitare così lontano, peccato che la Mostra vada a chiudere tra pochi giorni, peccato non averci speso almeno due giornate intiere, peccato non aver potuto disporre di un ginocchio sinistro di riserva, peccato...



Gli Spazi dell'Architettura - Passepartout Rai Tre - Biennale di Venezia 2010